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RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO.20

«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».20

Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri

 

di Sergio Zazzera

 

E' dei giorni scorsi l’epicedio di Barbara Balzerani – la “compagna Luna” –, scritto e diffuso via web da Donatella Di Cesare, del quale riporto qui di seguito il testo: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna». Energiche proteste si sono levate da una consistente quota della società civile, rappresentatativa delle più diverse appartenenze, la quale non ha dimenticato le responsabilità della defunta nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro e in numerosi altri omicidi perpetrati dalle b.r. (sono di rigore le minuscole): addirittura, la rettrice dell’Università “La Sapienza”, dove la Di Cesare insegna, ha sottoposto il caso all’attenzione dei competenti organi dell’ateneo. A fronte di tutto ciò, l’interessata ha tentato di mettere una toppa peggiore dello strappo, sostenendo di aver inteso esprimere soltanto la sua «vicinanza generazionale» alla Balzerani. Ma qui, oltre a richiamare il brocardo giuridico (la cui valenza, però, travalica i confini del diritto), secondo il quale protestatio contra factum non valet, mi permetto di ricordare, ancora una volta, la natura convenzionale del linguaggio, affermata dai tempi di Democrito fino almeno a quelli di Ernst Cassirer. Dunque, affido a ciascun lettore la lettura delle parole della professoressa Di Cesare – filosofa e, perciò, sicuramente conoscitrice del pensiero dei filosofi appena menzionati – e la loro interpretazione, parametrandola a quella “autentica” fornita dalla stessa.

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A proposito di linguaggio: che cosa pensano i lettori di espressioni lessicali oggi sempre più diffuse, del tipo: “quello che è” e “piuttosto che” (in luogo di “oppure”)? Da parte mia, la prima mi sembra un pleonasmo, meritevole del risparmio di fiato. Quanto alla seconda, mi si risveglia la nostalgia del mio triennio milanese di mezzo secolo fa: nel dialetto meneghino, infatti, l’interrogativo retorico “o no?” diventa “piuttost che no?”, che, però, una volta italianizzato, trasforma un’alternativa in una comparazione di tipo valoriale.

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L’annunciata competizione elettorale USA fra Trump e Biden si presenta, ai miei occhi, come sospesa tra il mitologico e il wagneriano: come, cioè, il Götterdämmerung, il “crepuscolo degli dei”.

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E, sempre a proposito di USA, il lancio dall’aereo di generi alimentari alla popolazione affamata di Gaza ha tutto l’aspetto dell’attualizzazione di quella distribuzione, via terra (a tempi diversi, modi diversi), di polvere di uova e di piselli, di cioccolata e di sigarette alla popolazione napoletana, anch’essa affamata, da parte dei militari statunitensi, giunti nel capoluogo dopo lo sbarco a Salerno. Per intenderci: due maniere, apparentemente diverse, ma sostanzialmente uguali, di “lavarsi la faccia” (o, magari, la coscienza).

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Scriveva Giuseppe Prezzolini, nella sua Storia tascabile della letteratura italiana (1976): «la Chiesa cattolica… è la sola monarchia che sia durata dalle origini a oggi in Italia». Ebbene, dopo quasi mezzo secolo, qualcosa mi sembra che sia cambiata, almeno nei fatti, dal momento che la monarchia, soprattutto se assoluta, assicura sempre al suo vertice una posizione d’intangibilità. Viceversa, oggi una quota consistente di ecclesiastici non si fa mancare le occasioni di critica dell’operato del “monarca assoluto”, ovvero del papa. Ma, forse, questo è il segno del fatto che il verticismo assicura sempre una buona libertà di azione, quanto più in basso si scende nella piramide.

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Passando, ora, al mondo dell’arte, cominciamo dalla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, insediatasi nuovamente in piazza Municipio. A me essa sembra il simbolo del mondo politico dei giorni nostri, nel quale il lancio degli stracci è diventato lo sport preferito.

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Due mostre, in corso a Napoli in questo momento, hanno attirato la mia attenzione, vale a dire, quella della Flagellazione di Cristo del Caravaggio, al Museo diocesano, e quella della Testa di Tito, alle Gallerie d’Italia. La prima di tali opere proviene dal Museo di Capodimonte, l’altra dal MANN; e sono proprio tali provenienze a rendermi più che perplesso, circa l’utilità delle due esposizioni. Finché, infatti, un’opera d’arte viene temporaneamente trasferita in una città diversa, l’utilità dell’operazione è da ravvisarsi nella possibilità, offerta a chi non può recarsi nella sede in cui essa dimora stabilmente, di poterla ugualmente ammirare. Viceversa, non riesco a immaginare altro senso dell’operazione compiuta nell’ambito della stessa città, se non quello di dirottare il pubblico (e gl’incassi) da una struttura museale all’altra.

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Dulcis (ma non lo direi troppo) in fundo: la relazione positiva, emersa di recente, tra lo street artist napoletano Jorit e Vladimir Putin. Vero è che la qualità artistica è un valore che va apprezzato in sé, senza alcuna connessione con possibili ideologie (per tutti, valga la qualità dell’architettura del ventennio fascista); è innegabile, però, che il caso di specie è idoneo a risvegliare nelle menti il ricordo di figure, come Muzio Attendolo Sforza, Braccio da Montone e Giovanni delle Bande Nere. Intelligenti pauca.

(Marzo 2024)

RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO.19

«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».19

Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri

 

di Sergio Zazzera

 

Un capitolo dei Simboli della Scienza sacra di René Guénon è intitolato «Riunire ciò ch’è sparso», il che è ciò che tentai di fare, alcuni anni fa, sul periodico Il Brigante, provando a mettere insieme alcune considerazioni che facevo su avvenimenti di quel tempo, con la speranza di non avere messo troppa carne a cuocere. L’iniziativa s’interruppe giusto dieci anni fa; peraltro, essa aveva incontrato il gradimento di Marisa Pumpo Pica, che egregiamente dirige questa testata, il che m’induce a riprenderla in questa sede, conservando la numerazione consecutiva, rispetto a quella della serie precedente.

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L’indagine circa le responsabilità della “questione israelo-palestinese”, eufemismo che designa la realtà della guerra tra gli arabi di Hamas e gl’israeliani di Netanyahu, è più complessa – ma, forse, anche più semplice – di quanto non possa apparire; dunque, proviamo a compierla anche noi.

Yahweh, la divinità dell’ebraismo, è “il Dio degli eserciti”: soltanto il cattolicesimo postconciliare ha adottato la foglia di fico, che lo ha reso “il Signore Dio dell’universo”. A sua volta, il Jihād (sissignore, il sostantivo è di genere maschile) dell’Islām è vocabolo polisemico, tra i cui significati c’è quello di “guerra santa”, vale a dire, combattuta – sul modello di quella di Maometto per la conquista della Mecca (629-630) – contro gl’infedeli, tra i quali non v’è dubbio che, nell’ottica islamica, vanno annoverati anche gli ebrei.

Ciò posto, l’aggressione attuata da Hamas – organizzazione terroristica, che non può essere identificata con l’intero popolo palestinese – ai danni d’Israele ha costituito, sicuramente, una forma di Jihād, sferrata sotto l’egida di Allāh, divinità islamica, alla quale lo Stato aggredito non poteva reagire, che con le modalità ben note, attraverso l’intervento del proprio esercito, che Jahvè ha preso sotto la propria egida. A questo punto, non soltanto ogni considerazione circa la sproporzione tra offesa e difesa diventa vana, né è superfluo sottolineare il danno che Hamas ha causato al popolo palestinese, ma, addirittura, nell’iniziativa di Hamas medesimo dev’essere ravvisata quella che i penalisti definiscono “colpa con previsione”, se non finanche quello che sempre i penalisti definiscono “dolo eventuale”.

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Il Governo attualmente in carica aveva esordito, ponendo al bando l’uso dei vocaboli stranieri, in luogo di quelli della lingua italiana. Riterrei utile, perciò, che il professor Giuseppe Valditara, ministro dell’istruzione (oltre che “del merito”!) spiegasse perché il nuovo corso di studi superiori, da lui annunciato e finora non ancora istituito, dovrebbe chiamarsi “Liceo del made in Italy”.

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Ci sono cafoni in tutti gli ambienti, anche in quelli apparentemente più “elevati”; perfino nel mondo della politica (ma di che cosa vogliamo meravigliarci?). e tra una consistente parte di tutti costoro è invalso l’uso di rivolgersi ai giornalisti, che li intervistano, dandogli del tu.

Signori (si fa per dire)! il giornalista è un professionista, ma, prima ancora, un uomo e, soprattutto come tale, merita rispetto. Torna appropriato, qui, il ricordo del mio Maestro, al tempo della mia collaborazione con lui, il quale stringeva la mano al bidello, prima che a noi, e una volta ci spiegò, con la sua nota saggezza: «Se faccio così, poi lui mi rispetta».

Quanto, poi, al “tu”, sono completamente fuori strada coloro che affermano che anche gl’inglesi danno dello you perfino al re. È vero; solamente, però, che lo you equivale al nostro “voi”, mentre in Albione si è perso l’uso del thou, seconda persona singolare del pronome personale: si ricordi, fra l’altro, il racconto di Edgar Allan Poe, Thou art the man (= Tu sei l’uomo - 1844). Dunque, in realtà, in Inghilterra i padri danno del voi finanche ai figli.

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Come si sarebbe dovuta attendere ogni persona avvezza a guardare oltre il proprio naso (che, come dice mio figlio, non è neppure quello di Cyrano de Bergerac), giunti alla scadenza del secondo mandato, fissato dalla legge come limite massimo di eleggibilità, presidenti di Regione e sindaci, affezionati alla loro poltrona, premono – e protestano –, perché sia consentito loro di aspirare al terzo. Ciò mi ricorda le modalità della transizione delle città italiane, tra Medioevo e Rinascimento, dall’esperienza dei Comuni a quella delle Signorie, nelle quali fu stabilizzata e divenne ereditaria la premiership (sì, se l’inglese lo usa il ministro, voglio usarlo anch’io) dei Capitani, fin allora eletti dal popolo dei primi. Dunque, honi soit (come sopra: comincio a prenderci gusto) che pensa che la storia non si ripeta.

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Le premesse per il gemellaggio tra il Vomero e Appenzell, città della groviera, si stanno consolidando, tra voragini già aperte e altre ventilate (se non altro) dai geologi. Mi piacerebbe sapere che cosa ne penserebbe Georges Ivanovič Gurdjieff, il filosofo armeno, maestro di René Guénon, che ho citato in apertura dell’articolo, dal momento che fra i cardini del suo pensiero c’è la formula “come sopra così sotto”, sia pure riferita all’intero Universo.

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Il napoletano non sarà una lingua (non è vero che tale lo abbia definito l’UNESCO) e potrebbe non essere neanche un dialetto – in un mio recente volumetto l’ho definito “parlata” –, però è innegabile che esso abbia un suo corpus di regole grammaticali e sintattiche, al pari della lingua italiana; e, quanto a quest’ultima, la violazione di quelle regole da parte degli studenti ha sempre subìto le impietose sottolineature rosse e blu da parte dei professori. Viceversa, la violazione delle regole del napoletano da parte di Geolier, cantante (?!) esibitosi al recente festival di Sanremo, ha incontrato l’assoluzione per opera finanche di qualificati docenti: unica voce di spessore, levatasi a protestare, è stata quella di Maurizio De Giovanni, presidente (ora dimissionario) del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano della Regione Campania.

Ricordo che, alcuni anni fa, Aldo Oliveri tentò di accreditare un sistema di “lessigrafia” del napoletano, molto simile al modo in cui è scritta la canzone sanremese di Geolier, ma fu contestato da un folto manipolo di studiosi – tra i quali, modestamente, anche il sottoscritto –, intervenuti alla presentazione; e ricordo, in particolare, la violenta filippica del compianto Raffaele De Novellis.

Bene, non mi sarebbe dispiaciuto che altrettanto fosse accaduto oggi; ma, viceversa – De Giovanni a parte –, nessuno si è fatto sentire; io stesso lo sto facendo soltanto ora, che mi se n’è presentata l’opportunità.

Bene, sono stufo di dover leggere frasi, che sembrano scritte in polacco (quattro o cinque consonanti di seguito, senza una sola vocale) e, viceversa, vorrebbero esserlo in napoletano: non bastavano i manifesti pubblicitari e quelli funebri, ora ci si mette anche la canzone.

Bene, dal Nord d’Italia hanno protestato contro Geolier, non per il modo di scrivere (suo e degli altri ben sei autori!) il testo della canzone in sé, ma per contestare la presenza di Napoli e della sua “parlata” al festival. Allora, mettiamola così: voglio prenderla come una ipotesi di eterogenesi dei fini.

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È pacifico che, da Democrito, almeno fino a Ernst Cassirer, al linguaggio è stato sempre riconosciuto carattere convenzionale, vale a dire, che la sua comprensione non necessita dell’intervento d’intermediari, fatta salva l’ipotesi di dialogo tra soggetti allofoni. È altrettanto pacifico che quello dell’arte sia un linguaggio, per di più, universale, vale a dire, che la necessità d’intermediazione rimane esclusa in ogni caso.

Da tutto ciò discende la considerazione che l’affannarsi dei cosiddetti “critici d’arte”, per spiegare il significato di certe opere di autori contemporanei, solitamente con l’impiego di circonlocuzioni ancor meno comprensibili di quelle opere, è da considerare del tutto superfluo. Con il corollario che quelle non sono opere d’arte. E sia chiaro che non lo dico io, bensì Jean Clair, accademico di Francia; e scusate se è poco.

(Febbraio 2024)

Santa Maria della Rotonda

Chiesa di Santa Maria della Rotonda

 

di Antonio La Gala

 


La chiesa di Santa Maria della Rotonda si trova al Vomero, nel collegamento fra via Saverio Altamura e via San Giacomo dei Capri, in via Undici Fiori del Melarancio.

Come la chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, anch’essa ha ereditato il titolo e qualche arredo da una chiesa abbattuta, di origine antichissima, del centro della città.

Infatti si trattava di una chiesa costruita attorno al 350 d.C. su un tempio pagano recuperato dai fedeli cristiani,presumibilmente di forma circolare, denominata “Ecclesia Sanctae Mariae ad Rotunda”, proprio per la sua forma. Alle origini era una delle sette diaconie della nascente chiesa napoletana.

Tracce del tempio pagano emersero nel corso della sistemazione della zona alta di via Mezzocannone operata dalla Società del Risanamento, demolendo l’estremità orientale del palazzo Casacalenda, tra il largo San Domenico Maggiore e via Mezzocannone. Sotto questa estremità dell’edificio vennero  alla luce due vecchie colonne scanalate su basi quadrangolari delimitanti un vano d’ingresso dove sorgeva - fino al suo abbattimento avvenuto nel 1770 per la costruzione del palazzo Casacalenda - la citata Ecclesia Sanctae Mariae ad Rotunda

Dopo l’abbattimento del 1770, la cura parrocchiale di Santa Maria della Rotonda peregrinò per varie chiese, finché non le fu assegnata nel 1808, come sede stabile, la chiesa di san Francesco delle Monache sita in via Santa Chiara, erroneamente a lungo chiamata di Santa Maria della Rotonda. Questa chiesa fu sostanzialmente distrutta nel bombardamento aereo del 4 agosto del 1943, assieme alla vicina chiesa di Santa Chiara. Oggi alcune sue reliquie si trovano distribuite fra vari musei cittadini.

La posa della prima pietra di una nuova chiesa da costruirsi al Vomero con lo stesso titolo di quella scomparsa finora raccontata, fu posata dal cardinale Marcello Mimmi il 25 aprile 1954; i lavori di costruzione cominciarono nel 1958 e si sono svolti fino al 1961. Il tempio fu aperto al culto già come sede parrocchiale il 16 agosto 1961.

Il tempio fu progettato da Ferdinando Chiaromonte, che si ispirò al tempio originario abbattuto nel 1770, conferendogli, come cifra caratteristica, una forma circolare, richiamata, all’interno da un matroneo che circonda l’aula liturgica.

Nella torre campanaria del campanile alto 40 metri, funzionano tre campane di diversa grandezza, dedicate a San Gennaro, a San Michele e alla Madonna di Pompei.

Fra gli arredi va evidenziata una statua ad altezza naturale della Madonna con Gesù Bambino, posta nel 1980, anch’essa proveniente da una chiesa demolita del vecchio centro storico.

Nel terreno su cui nel 1958 cominciò la costruzione della chiesa non c’era il collegamento fra via Castellino e via Altamura, ma il terreno si estendeva dalla chiesa fino ai palazzi che la fronteggiavano. Dopo che vi sorse la chiesa, il Comune recuperò la striscia di terreno utile per realizzare il collegamento Castellino-Altamura, poi denominato via Undici Fiori del Melarancio, una denominazione che ricorda un triste episodio avvenuto il 26 aprile 1983, quando undici ragazzi vomeresi ("i Fiori"), alunni della vicina scuola media D’Ovidio, che si trovavano su un autobus in gita scolastica, rimasero uccisi in un incidente stradale avvenuto nella galleria del Melarancio, vicino Firenze. La lapide apposta sulla recinzione della chiesa ricorda l'episodio e i nomi dei ragazzi.

Ricordiamo i primi parroci che si sono avvicendati nella guida della parrocchia. Primo parroco Antonio Assante; da ottobre 1968 Don Franco Mercurio; dal 1978 Mons. Enrico Cirillo; da ottobre 1988 Salvatore Fratellanza.

(Gennaio 2024)

Chiesa della Madonna Assunta

Chiesa della Madonna Assunta in via San Giacomo dei Capri 

 

di Antonio La Gala

 


Nel 1962 le suore Passioniste che erano allocate nelle stanzette di un conventino vicino alla cappella ottocentesca della Madonna del Carmine di via San Giacomo dei Capri 20, trasmigrarono in un nuovo complesso religioso, composto da vari edifici (il ritiro delle suore, un centro scolastico, una chiesa), che troviamo nella stessa via San Giacomo dei Capri, più in alto, con ingresso attraverso una rampa, al civico 78.

Contestualmente, nel 1962, fu aperta al culto l’annessa Chiesa dedicata alla Madonna Assunta. Il passaggio dal conventino al nuovo complesso e il trasferimento della sacra Pisside è così raccontato da un testimone dell’epoca: “Caldo pomeriggio di autunno 1962. Una processione Eucaristica attraversa lentamente la stretta e ripida stradina di allora una folla di cittadini genuflessi e un gran numero di padri Passionisti e di Sacerdoti locali che accompagnavano le suore, ricoperte con un lungo velo nero, che pregando e cantando, scortano il sacerdote che stringeva al petto, sotto il rituale baldacchino, la sacra pisside con le Ostie consacrate per il trasferimento del ‘Gran Bene’ dal vecchio al nuovo monastero”.

Le suore Passionistefanno parte dell’Istituto della Religione della S. Croce e Passione di Gesù Cristo, fondato da San Paolo della Croce che nel 1771 aprì a Tarquinia il primo monastero di Claustrali Passioniste (il ramo femminile) della Congregazione.

La Chiesa della Madonna Assunta in cielo è a navata unica, coperta da una volta a botte, e ha un’abside semicircolare. Dell’arredo sacro interno segnaliamo un statua di San Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti, un quadro dell’Assunta (che dà il nome alla chiesa), sull’altare maggiore, copia dell’Assunta di Tiziano; sugli altari laterali sono raffigurati Santi e Sante Passionisti. Il simbolo dei Passionisti raffigurato sul pavimento della chiesa lo notiamo anche all’ingresso del complesso.

Le suore di questo convento furono protagoniste nel marzo del 2015 di un divertente episodio in occasione della visita di Papa Francesco a Napoli, raccontato da Antonio Rungi  in un articolo de “Il Mattino” del 24 marzo 2015, intitolato “Le Monache passioniste che hanno abbracciato Papa Francesco”: “Le immagini in diretta Tv, le interviste e questa sera anche il Tg1 della Rai hanno portato le monache passioniste del Convento di San Giacomo dei Capri in Napoli al centro e all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per il gesto spontaneo di affetto e rispetto che hanno fatto nei confronti di Papa Francesco, nella sua visita a Napoli, il 21 marzo scorso. Scena vissuta nel Duomo di Napoli, all’inizio dell’incontro del Papa con i sacerdoti e i religiosi, lì convenuti. È la madre  Giuliana, […] a raccontarlo.

(Febbraio 2024)

Nostra Signora del Sacro Cuore

Parrocchia di Nostra Signora del Sacro Cuore

 

di Antonio La Gala

 

 

A metà di via Simone Martini, in una breve traversa cieca, in via Scala, fra i palazzi del “Parco Mele”, troviamo la parrocchia di Nostra Signora del Sacro Cuore, realizzata su un suolo donato nel 1955 alla diocesi, assieme ai soldi per realizzarla, dalla signorina Anna Maria Mele, proprietaria di una grande area nella zona.

La costruzione del tempio iniziò nel 1957, fu ultimata alla fine del 1961 e la chiesa fu aperta al culto all’inizio dell’anno successivo. È stata ristrutturata nel 2001. Le anime curate dalla parrocchia sono circa 25.000. Il primo parroco fu Antimo Sodano, a cui subentrò don Filippo Strofaldi dal 1985 al 1993, quando gli successe Michele Schiano.


La chiesa è a pianta rettangolare, presenta una navata centrale affiancata da sei arcate laterali per ognuno dei due lati. All’interno, le strutture semplici in cemento armato, la sobrietà decorativa dell’arredo sacro, le pareti disadorne e la particolarità cromatica della fioca illuminazione che viene dalle finestre, creano una raccolta atmosfera suggestiva. L’abside semicircolare è dominata dalla statua della Vergine tra due angeli. Negli altarini laterali vi sono alcune tele che raffigurano San Gennaro, il Sacro Cuore di Gesù, la Madonna di Pompei, Santa Rita, Sant’Antonio e San Ciro.

Le immagini che accompagnano questo articolo raffigurano l’interno e l’esterno della chiesa visti nel 2021.

(Dicembre 2023)

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