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APPUNTI DI GUERRA

 

di Luigi Rezzuti

 

Una domenica pomeriggio, dopo pranzo, non avendo nulla da fare, mi soffermai a guardare le foto di mio fratello in abito militare.

Con grande commozione ricordai che mio fratello era riuscito ad evadere da un campo di  prigionia tedesco.

Egli aveva raccontato poco dell’avventura, relativa alla sua fuga, insieme ad altri commilitoni, per far ritorno a casa. Quindi iniziai a cercare di ricostruirne i particolari.

Oltre alle fotografie, trovai anche un piccolo quadernetto di appunti, con annotazioni scritte a matita, che riguardavano proprio la vita nel campo tedesco e la sua fuga.

Riuscii, con enorme difficoltà, a  decifrare la sua pessima grafia e ricomporre la sua storia: la coraggiosa fuga da un campo di concentramento nazista in Germania.

La maggior parte dei prigionieri erano stati catturati mentre erano ignari dell’armistizio e della deposizione di Mussolini da parte del Re.

Gli altri, dopo la repubblica di Salò, furono deportati al campo come unica alternativa al combattere a fianco dei tedeschi.

I soldati italiani che rifiutavano di combattere furono rinchiusi nei campi, obbligati a compiere diversi lavori per i tedeschi, come quello di riparare le linee elettriche e telefoniche che i bombardamenti alleati mettevano a rischio.

Intanto gli alleati stavano liberando l’Italia e avanzavano verso le Alpi, i russi sfondavano ad est e gli americani ad ovest.

Il lavoro era massacrante, ogni giorno si usciva dal campo, sotto il controllo delle guardie, per procedere alla riparazione delle linee interrotte.

In questi campi di prigionia si mangiavamo lumache crude e pomodori,  fatti crescere nello sterco umano.

Ma nella tragedia, alle volte, c’è anche posto per situazioni comiche: i prigionieri facevano i loro bisogni dietro un muretto, circondato da qualche albererello. Mio fratello gettò volontariamente il sacchetto col contenuto al di là del muro, dove stava passando un soldato tedesco, il quale, colpito in pieno, scaricò il suo mitra in direzione di mio fratello, che riuscì a filar via da una vendetta sicura, strisciando carponi e protetto dagli alberelli.

Fu allora che decise di darsi alla fuga dal campo, parlò con tre compagni e disse : “Noi prigionieri  siamo in tanti, i tedeschi, che ci controllano, sono pochi. Qui è giunta la notizia da parte degli ultimi arrivati che la situazione per i nazisti è ormai tragica, gli americani sono già a ridosso delle Alpi e quindi i tedeschi dovranno lasciare il campo, retrocedere ed organizzarsi su altre linee difensive. A questo punto, secondo me, ci faranno fuori tutti, sarebbe troppo rischioso per loro lasciarci in vita ed in libertà, fosse solo per paura di ritorsioni da parte nostra. Vada come vada, ci conviene tentare la fuga”.

La notte successiva si mise in atto il piano di fuga: si sarebbero ritrovati dietro il muretto dei bisogni, protetti anche dagli alberelli.

In fondo si intravedeva il bosco, una volta raggiunto, si sarebbe aperta qualche consistente speranza.

E fu così che il gruppetto scivolò furtivamente dal campo, eludendo  la sorveglianza delle sentinelle. Raggiunsero il bosco e poi via, in una corsa a perdifiato tra cespugli, rami, sterpaglie, tronchi sempre più fitti, fino a cadere, stremati, al suolo.

Troppo stanchi per decidere i turni di guardia, caddero in un sonno profondo.

Forse qualcuno sognò il latrare dei cani, sempre più vicini, oppure, qualche altro,  di essere già sulla soglia di casa per abbracciare le persone care.

All’alba, il primo che si svegliò si mise a gridare: “Siamo salvi- Ce l’abbiamo fatta”.

Gli altri sollevarono il naso fuori da una coltre neve farinosa.

Era la prima neve dell’autunno, che aveva coperto le loro tracce e neutralizzato i cani.

Proseguendo il cammino, trovarono anche uno zaino con dentro un binocolo, una bussola ed una mappa della zona.

Così riuscirono a dirigersi, con sicurezza, verso il confine italiano.

Passarono per vie solitarie ed impervie, tra le creste dei monti, trovando perfino aiuto da parte di una famiglia contadina, che diede loro cibo e fiducia.

Il confine era ormai vicinissimo e passava da un bivio che si rivelò miracoloso.

C’erano quattro biciclette appoggiate al muretto di un cascinale. Era proprio quello che ci voleva.

Senza farsene accorgere, le rubarono e giù, a tutta velocità, lungo i tornanti di una ripida discesa.

Mio fratello andava decisamente più forte, da spericolato e gli altri lo ritrovarono in un cespuglio. La sua bici aveva i freni rotti.

Ormai erano in Italia. La guerra era finalmente finita e si trovarono in un paese liberato dagli alleati. Dovettero, però,  continuare ad attraversare l’Italia per arrivare al fronte degli alleati, ad Anzio.

Erano trepidanti ed ansiosi di completare l’ultima parte del viaggio, ma erano in dubbio su quale strada prendere e su come aggirare le pattuglie tedesche e i campi  minati.

Lungo la strada del rientro, infatti, sotto una pioggia torrenziale, dovettero attraversare carponi un campo minato.

Una volta superatolo, furono attaccati da una pattuglia tedesca, che sparò alcuni colpi di mitra senza colpire nessuno dei fuggitivi.

Sessantacinque anni dopo, quella domenica pomeriggio, ero seduto alla mia scrivania a  ricomporre  gli appunti di guerra di mio fratello e la storia della sua fuga.

Credo che del gruppo si salvarono tutti, ma mettere insieme i pezzi di quello che accadeva durante e dopo quella fuga da un campo di concentramento tedesco, non fu una cosa semplice.

Mio fratello, comunque, si era salvato e la gioia di tutti noi fu grande, insieme ad una forte commozione.

Ricordo che arrivò a casa magrissimo, ancora con gli abiti da militare, tutti a brandelli.

(Giugno 2019)

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