• Stampa

LE FATE DELLE COLLINE

di Antonio La Gala

 

I meno giovani di noi ricordano che, quando non erano ancora diffuse le lavatrici elettriche domestiche, nelle case dove non c’era una cameriera “notte e giorno”, si svolgeva il rito settimanale della venuta in casa di una lavandaia.

In tempi ancora anteriori si davano i panni da lavare a lavandaie che li ritiravano dalle case dei clienti, li portavano dove poterli lavare, prevalentemente dalle parti delle proprie abitazioni, per poi riportarli, lavati, ai clienti.

Fra le lavandaie operanti a Napoli erano particolarmente apprezzate, e numerose, quelle che scendevano dai villaggi e dalle contrade collinari del Vomero e di Posillipo.

Alcune trasportavano i panni, all’andata e al ritorno, in ceste o in “mappate” in equilibrio sulla testa, aiutandosi con armoniosi movimenti del collo.

Altre facevano uso di asinelli e altre ancora si avvalevano di carrettini. Erano caratteristici quelli azzurri della zona di Posillipo, che facevano la spola con i casali di Angara, Migaglia e Santo Strato.

Il mestiere di lavandaia si tramandava da madre in figlia ed occupava molta “mano d’opera” femminile, ben retribuita, mestiere che spesso le donne alternavano ai lavori agricoli. Una relazione di un parroco del Vomero di fine Ottocento recitava: “il sesso femineo è dedito a lavare i panni “.

Molto spesso le giovani donne si dedicavano al lavoro delle lavandaie  per farsi la dote e il corredo, che probabilmente si incrementava anche di qualche capo di biancheria non ritirato dai clienti.

Le lavandaie venivano chiamate anche “fate”, forse per il loro scomparire e ricomparire fra le lenzuola stese ad asciugare che svolazzavano.

La loro abbronzatura, il loro viso allegro, l’odore di pulito, le movenze flessuose dei loro corpi, ispiravano pittori ed autori di poesie e canzoncine.

Per quanto riguarda le canzoni, le lavandaie non erano solo oggetto di creazione altrui, ma autrici loro stesse di “testi” che, in un certo senso, appartengono alla letteratura napoletana.

Infatti i loro canti fanno parte del patrimonio storico canoro della città e alcuni ritengono che ne rappresentino le più antiche testimonianze. Forse il popolo recitava questi versi a mò di nenia già nella prima metà del Duecento, ai tempi di Federico II.

I luoghi, dove i panni raccolti a domicilio venivano lavati, erano quelli che offrivano la possibilità di avere acqua a disposizione, cioè pozzi e ruscelli. Essi richiamavano più lavandaie, che stando vicine, assieme, durante il lavoro intonavano i canti.

Fra gli argomenti dei canti l’amore era uno dei motivi più ricorrenti.

Qualche esempio: una donna abbandonata per un’altra donna prega Cupìdo di fingersi confessore per indurre il traditore a tornare all’antico amore:

          “Caro Cupindo famme nu favore,

            dincello che core ha ‘vuto de m’abbandonare;

            non ce la dare l’assoluzione

            si nun te dice ca pace vo’ fare”.

Spesso compaiono suore “pentite” di non essersi accasate:             

           “M’ha mannato a chiammà na munacella.

             Me risse ‘nchiusa cà dinto non ce pozzo stare,

             I’ patisco de parpete de core

             Me sarrìia maretata, e starria bona”.

Talvolta gli spasimanti implorano l’amata a non prendere la tonaca:

             Dici ca munacella te vuò fare;

             Pecché me la vuo’ rà ‘ sta scuntentezza?

             Si monaca te fai, cchiù fuoco attizze;

             I’ vengo de notte e te scasso la cella”.

Una giovanetta presenta una richiesta spregiudicata:

           “Siéntelo mamma, ca passa cantanno

             lu guappetiello de lu core mio.

            Affàcciate  à fenesta e va lu chiamme,

            dincello si cà ‘ncoppa  vò saglire”.

Non mancano severe critiche all’istituto matrimoniale:

           “Quanno na nenna s’ha da maretare,

             dice ca sape tessere e filare,

             Po’, arrivato ca s’è mmaretata,

             nun sape fa nu lucigno e ‘na lummera”.

           “Povero Giuvanniello ca s’è nzurato,

            meglio si jeva a scrivere ‘ngalera”.

          “Chi se ‘nzora se mette dint’ a ‘e guaie,

            cu’  ‘o chiappo ‘nganna e cu’  ‘o fierro ò pere”.

Il “fatturato” delle lavandaie era legato alla presenza del sole, tant’è che il loro canto più famoso, ripreso da Roberto De Simone per la sua Gatta Cenerentola, è l’invocazione al sole di uscire dalle nuvole:

            Jesce sole, Jesce sole

            nun te fa cchiù suspirà

            siente maie che le figliole

            hanno tanto da prià?

Immaginiamo la scena in cui si intonavano questi canti, sole, allegria, voci in coro, con alternanze di strofe a botta e risposta.

Ricordiamocene quando sentiamo il “canto” meccanico della lavatrice.