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Invisibili in una classe separata

 

di Antonio La Gala

 

Il Vomero visse il ventennio fascista né più né meno di come lo visse il resto della città, la quale aderì pressoché totalmente al regime. Il consenso era dovuto a vari fattori. Le gerarchie cattoliche locali non potevano non appoggiare un uomo inviato dalla Provvidenza. Le conquiste coloniali, il movimento delle navi nel porto, alimentavano la speranza di diventare (come recitava il bigliettino di battesimo della Mostra d’Oltremare), la capitale del Mediterraneo. Inoltre urbanisticamente la città si andava trasformando, presto e bene, dando lavoro all’unica industria locale, l’edilizia, e molti erano lieti del fatto che i treni viaggiassero in orario.

Le foto vomeresi dell’epoca, quelle della processione di Pasqua, mostre d’arte, prime Comunioni e funerali, sono piene di fez, gambali, divise, centurioni, gente fisicamente insignificante romanamente impettita, attempati camerati travestiti da improbabili guerrieri, tutti marionette del regime.

Cambiato il clima, affondata la nave, pare che sulla nave vomerese non ci sia stato mai nessuno. Anzi al Vomero la nave non c’era stata proprio. Scomparsa assieme a sciarpe littorie, distintivi, attestati, giornali, documenti e foto. Una provvidenziale amnesia collettiva, all’unanimità, ha archiviato tutto. La narrazione vomerese ricorda solo le Quattro Giornate.

E ritengo che nessun vomerese (o quasi), sappia che in collina si consumarono anche nefandezze legate all’applicazione delle leggi razziali, nefandezze temperate, e molte disinnescate, dalla ricchezza di umanità del carattere dei vomeresi.

Due esempi di nefandezze avvenute.

Quasi alla fine di via Sanfelice, in contiguità con la villa di Scarpetta, nello stesso periodo in cui sorse la villa del commediografo, sorse Villa Herta, quella in cui spicca il classicismo delle colonne dell’atrio. In questa villa fra il 1910 e il 1914 il proprietario, uno scienziato svizzero, impiantò, nei livelli sottostanti la villa, un istituto vulcanologico, un centro allora all’avanguardia nel settore. Ma lo scienziato svizzero aveva un gravissimo difetto, non era ariano, ma “addirittura” di razza ebraica: dovette levare mano ed emigrare.

Il secondo esempio è addirittura odioso.

Nel settembre del 1938, il ministro Bottai decretò l’esclusione dall’insegnamento in tutti i tipi di scuole di “persone di razza ebraica”, sia docenti che discenti.

Per quanto riguardava le iscrizioni di alunni ci furono due esperimenti unici in Italia: a Trieste e a Napoli.

A Trieste la comunità ebraica formò delle scuole autonome, con propri insegnanti, che funzionarono fino ai rastrellamenti tedeschi.

A Napoli, nella scuola Vanvitelli, il direttore (a cui va il nostro apprezzamento), per far studiare anche i bambini ebrei, riuscì ad ottenere l’istituzione di una classe speciale in cui includere bambini ebrei di tutte e cinque le classi. Per formare la classe i bambini dovevano essere almeno 10, ma quelli che rientravano come età erano nove. Il direttore (lodevolmente) infilò allora anche un bimbo più piccolo del dovuto.

L’istituzione della pluriclasse speciale consentiva ai bambini di studiare, ma a condizione di essere invisibili: dovevano entrare e uscire da un ingresso secondario di via De Mura, in orari sfalsati rispetto ai coetanei “ariani”, entrare prima degli altri e uscire dopo; saltavano la ricreazione e dovevano usare servizi separati.

La maestra della classe speciale era anch’essa ebrea e sulle pagelle era costretta a scrivere “razza ebraica”.

Questo episodio e questa classe sono ricordati da una lapide apposta nell’ingresso della scuola.

(Dicembre 2019)

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