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Attilio Pratella, l'artista

 

di Antonio La Gala

 

 

Come già ho detto in un precedente articolo, mi sono proposto di dedicare a questo pittore due articoli, uno in cui ho raccontato le sue vicende biografiche, ed un altro, questo, in cui tratteggio l'artista.

Attlio Pratella, nei primi anni della sua formazione artistica, abbandonò l'Istituto di Belle Arti di Bologna, in cui aveva iniziato gli studi negli anni Settanta dell'Ottocento, per passare all'Istituto di Napoli, dove si dedicò alla figura. A Napoli assimilò, forse per influenza di Antonio Mancini, il senso del verismo. Il suo stile, fra il 1881 e 1883, oscillava fra Mancini, De Nittis e Edoardo Dalbono. Una particolare attenzione ai modi di De Nittis lo ispirerà anche negli anni successivi. Quando approdò alla sua vocazione, quella di paesaggista, queste prime esperienze lo avevano sciolto dai lacci della pedissequa riproduzione della natura, per allargare il respiro fino ad interpretare il vero attraverso il filtro della fantasia, ma senza tradire la realtà. Altri pittori disegnano, ad esempio, platani con i rami di querce. Pratella, invece, grazie alla sua solida capacità di disegnatore, costruisce un albero "vero"; toglie al paesaggio l'esatta e statica fisionomia dei luoghi ma lo lascia vero, nel momento in cui lo trasforma in astratta emozione della natura, musica degli occhi. Il suo paesaggio non è né scenografia né vedutismo, né visioni retoriche, liriche o drammatiche della natura. Il suo paesaggio è quello lieto e bonario delle spiagge, il pomeriggio dei campi assolati o reduce da recenti piogge, le vie della città fra nuvole e rivoli d'acqua, un raggio di sole dopo la pioggia, le prime luci della sera nelle campagne silenziose, le calde note di una luce nelle nebbie crepuscolari, tutte espressioni dirette della sua anima.

Come abbiamo già visto nell'articolo in cui si raccontava la biografia di Pratella, le sue prime produzioni pittoriche  furono  vedute, scene popolari, costumi, dipinti su scatole di legno per una pasticceria di Napoli, e poi su ceramiche prodotte nella fabbrica di Cesare Cacciapuoti, al Ponte della Maddalena.

Le industrie ceramiche napoletane a quei tempi producevano, con propositi artistici, oggetti di uso comune, decorati con la riproduzione di soggetti diversi, allora di moda, vedute, figure di sapore settecentesco, usi e costumi locali, ad imitazione di quelle di Capodimonte. Famosi erano i laboratori dei fratelli Cacciapuoti, dei Mazzarella, dei Campagna. Molti di questi pezzi, oggi, sono nelle mani di accorti collezionisti perché decorati per mano di artisti di alto livello, i quali non si sentivano sminuiti nel lavorare assieme ad umili maestranze di ceramisti. Ad esempio, quando Pratella lavorava per i fratelli Cacciapuoti, suoi compagni di lavoro erano Tommaso Celentano e lo scultore Francesco de Matteis.

Mentre dipingeva bomboniere e ceramiche, Pratella, però, continuava a produrre quadri, fra cui tavolette, di piacevole fruizione e perciò vendibili con facilità.

Nei primi anni di attività Pratella cercava i motivi paesistici, presi dal vivo fra il Pascone e la Marinella, la zona del Sebeto, con le sue baracche ed opifici; a Santa Lucia piena di barche, di anfore di creta e bancarelle di ostricari; verso l'allora nuova Via Caracciolo, con la Villa Comunale; oppure su caratteristiche strade urbane, come Via Foria umida per la pioggia.

Egli andava incontro alla natura con la pioggia, con il sole forte, con il freddo, con la neve, per cogliere i giochi di luce che, passati attraverso i suoi occhi e il suo animo, finivano immortalati sulla tela. Instancabile, tornato a casa, ritornava su ciò che aveva fissato sul campo, fino oltre la mezzanotte.

Nel dipingere non seguiva regole fisse ma il suo naturale impulso creativo, con spontaneità e combinando infinite tecniche.

Il suo periodo migliore viene giudicato quello a cavallo fra l'Otto e il Novecento, negli anni del sodalizio artistico ed umano con Giuseppe Casciaro. Era il Vomero ancora dominato dal verde, dalle osterie, da ogni angolo, sotto cieli sereni o foschi si dominava l’intero Golfo. Nacquero così i capolavori di Pratella: La collina dei Camaldoli, Vico Acitillo, Vomero Vecchio, le tante Salita Antignano, Il Vento, Acqua di marzo, Giornata di marzo, Vomero con la neve. Uno dei dipinti, nati in quel periodo, "Il Vento", un paesaggio burrascoso esposto a Parigi, gli guadagnò visibilità nel mondo della pittura eruropea..

Con il passare del tempo la sua pennellata diventava più robusta, gli impasti si ispessivano e compariva la spatola, si accentuavano i contrasti cromatici e la vivezza dei colori. Negli ultimi tempi, a fine carriera, iniziò anche forme di sperimentazione pittorica, nuove possibilità espressive, attraverso paesaggi più essenziali, resi con tocchi quasi plastici, con nuovi impasti. 

Per amore di verità va detto che al Pratella di alta ispirazione si affianca il Pratella che ha riempito gallerie e negozi d'arte in modo seriale e ripetitivo, di vedute di Santa Lucia, di Margellina, della Villa del Popolo, e di tanti altri angoli della Napoli scomparsa. Tuttavia va rilevato che l'artista, anche quando indulgeva ad una certa ripetitività nei soggetti, riusciva sempre ad aggiungere tocchi nuovi allo stesso soggetto, ricavandone quindi opere diverse. Anche nella mediazione con il mercato Pratella conservò la purezza della sua anima pittorica.

Di Pratella sono in giro numerosi quadretti di piccole dimensioni, ma non per questo meno pregevoli di altri. Il pittore Luca Postiglioene ebbe a dire di questi quadretti: " Mi sembra di tenere fra le dita un gioiello".

L'ambiente della committenza napoletana spesso non capiva Pratella, quando l'artista si allontanava dal volerla compiacere. Ad esempio, quando iniziò la serie dei paesaggi grigi e degli ulivi argentei di Capri, lo commentava dicendo che il pittore "aveva fatto il bucato" ai quadri.

La fortuna artistico-commerciale del Pratella è testimoniata dai tentativi di contraffazione delle sue opere, messi in atto con continuità. Un episodio, a questo riguardo, lo troviamo nelle cronache del 1937. Il Tribunale di Napoli condannò M.L. da Milano e S.L da Napoli, ciascuno a due mesi di reclusione e in solido a lire 500 di indennizzo a Pratella, per aver messo in commercio in Roma e in Milano false "marine" del pittore romagnolo-vomerese.

Ai meriti artistici di Attilio Pratella va aggiunto quello di aver documentato, nei suoi quadri, angoli, luoghi, vedute, ambienti, atmosfere, luci e colori di Napoli che le trasformazioni della città hanno poi cancellato per sempre. Forse a differenza di altri, Pratella ci ha tramandato, senza nulla togliere alla fedeltà delle sue rappresentazioni, non la parte stracciona della città, il "Ventre di Napoli", ma la sua parte più poetica, più delicata, quella parte della cui scomparsa, a differenza di altre, è comprensibile e giusto rammaricarsi.

(Marzo 2021)