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Il paesaggismo napoletano

 

di Antonio La Gala

 

La pittura napoletana prodotta fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento viene  biasimata da alcuni per essersi attardata su temi e modi stilistici definiti "arretrati".

Limitiamoci in questo articolo ad esaminare le critiche sui temi oggetto delle raffigurazioni pittoriche, ritenuti prevalentemente temi di carattere localistico.

Tra quelli biasimati c'è il tema del paesaggio, il cosiddetto "paesaggismo".

Mentre non si può disconoscere che la tematica vedutistica, anche quando non scade nell'oleografico, è pur sempre un fatto ripetitivo, incline al manierismo, tuttavia nel caso dei pittori napoletani credo vadano distinti i pittori, talvolta per scopi commerciali, dediti alla rappresentazione "vedutistica", alla ripetizione di temi oleografici (vista del Golfo, Vesuvio, pino, ecc.) trattati con maniere formali consolidate dall'abitudine, dai pittori invece nelle cui opere la rappresentazione del paesaggio è vista come espressione di sensazioni che solo gli artisti di grande sensibilità colgono negli innumerevoli brani della natura (una campagna, un pollaio, una stradina umida di pioggia), nelle vibrazioni di luce e di colore, nel "sentimento" del paesaggio visto e rappresentato liricamente, cioè "paesaggisti" intesi nel senso nobile del termine.

La bellezza del paesaggio napoletano è insieme selvaggia e soave, perche in esso si armonizzano l'asprezza della costiera amalfitana, di Capri, la loro eco portata dal mare, le agavi ed i fichi d'India, le sfumature dei roseti e pergolati; le aspre lave vesuviane, ulivi ed agrumi.

Questa bellezza che canta, ha creato, a partire da Giacinto Gigante, una tradizione che attraverso il filtro di successive sensibilità ha decantato una tradizione che è diventata prestigio di scuola.

Allora è proprio da biasimare la resistenza dei nostri pittori di un secolo fa cancellare questa tradizione per tentare sperimentazioni che teorizzavano il dipingere con il cervello invece che con gli occhi e il cuore?

Al biasimato paesaggismo napoletano andrebbero riconosciute, almeno, benemerenze storiche nel campo dell'innovazione artistica, perché si può affermare che nel primo Ottocento esso ha anticipato di decenni la "rottura" con i modi accademici.


Fu Giacinto Gigante a rompere i vetri chiusi dell'Accademia per rinnovare l'aria, uscire all'aperto, collocarsi di fronte alla natura, una scoperta che solo decenni dopo faranno i Macchiaioli e dopo altri decenni ancora faranno gli Impressionisti.

In effetti già nei primi decenni dell'Ottocento circolavano a Napoli mestieranti rimasti sconosciuti che fissavano in piccoli quadri, su tela, carta, ad olio o a tempera, le bellezze del Golfo, del paesaggio campano, spiagge incantate, ruderi archeologici, scorci di isole, il Vesuvio in fiamme, mare, campagne. Li vendevano per pochi soldi ai turisti, souvenir di luoghi sereni, istantanee di ore felici, per rivivere a casa, con nostalgia, le cose godute. Questi pittori erano artigiani della pittura senza ambizione, senza studi alle spalle. Liberi da ogni tradizione accademica disegnavano con tutta schiettezza le loro emozioni, all'aperto, attenti a come rappresentavano gli stessi paesaggi i numerosi pittori stranieri in transito. Sono essi che ispireranno i padri fondatori della scuola di Posillipo e quindi della tradizione paesaggistica napoletana.

L'immagine che accompagna questo articolo è di Giacinto Gigante, una veduta da Posillipo.

(Aprile 2022)