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ELOGIO DELL’APOSTROFO ALLA FINE DEL RIGO

 

di Sergio Zazzera

 

Ricorderete, sicuramente, che il vostro maestro delle elementari vi segnava in blu l’apostrofo messo “in fine di rigo”, cosa che – a suo dire – non si sarebbe dovuta fare mai. Ebbene, qualora doveste incontrare quel maestro, siete pregati di segnare in blu (magari, con vernice e pennello) lui stesso.


Partiamo da una considerazione: il “rigo” altro non è, che la trasposizione in grammatica della “retta” della geometria, la quale è, per definizione, infinita: dunque, se il “rigo” – del quaderno o del foglio protocollo – s’interrompe, ciò è dovuto soltanto alla “finitezza” delle dimensioni della pagina, mentre noi dobbiamo immaginarlo nella sua naturale continuità.

Ciò posto, è corretta la collocazione dell’apostrofo alla fine del rigo, come si può vedere, oggi e di solito, negli articoli di giornali e riviste; ed è proprio qui che volevo arrivare. Ancora adesso, ma ancor più quando la stampa richiedeva la composizione a piombo delle pagine, il proto, che s’imbatteva in una sequenza del tipo «alla fine di una / altra giornata» (e qui il simbolo “/” indica la fine del rigo della minuta, scritta dal maestro di cui sopra), qualora nel comporre la pagina si fosse ritrovato quel «una» nel corpo del rigo, l’avrebbe lasciato così, pari pari; con la conseguenza che il lettore si sarebbe trovato, a sua volta, nella condizione di leggere quel testo «col bitume in bocca», per dirla con Claudio Marazzini. E non so a voi, ma a me il sapore del bitume provoca disgusto.

(Marzo 2023)