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«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».19

Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri

 

di Sergio Zazzera

 

Un capitolo dei Simboli della Scienza sacra di René Guénon è intitolato «Riunire ciò ch’è sparso», il che è ciò che tentai di fare, alcuni anni fa, sul periodico Il Brigante, provando a mettere insieme alcune considerazioni che facevo su avvenimenti di quel tempo, con la speranza di non avere messo troppa carne a cuocere. L’iniziativa s’interruppe giusto dieci anni fa; peraltro, essa aveva incontrato il gradimento di Marisa Pumpo Pica, che egregiamente dirige questa testata, il che m’induce a riprenderla in questa sede, conservando la numerazione consecutiva, rispetto a quella della serie precedente.

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L’indagine circa le responsabilità della “questione israelo-palestinese”, eufemismo che designa la realtà della guerra tra gli arabi di Hamas e gl’israeliani di Netanyahu, è più complessa – ma, forse, anche più semplice – di quanto non possa apparire; dunque, proviamo a compierla anche noi.

Yahweh, la divinità dell’ebraismo, è “il Dio degli eserciti”: soltanto il cattolicesimo postconciliare ha adottato la foglia di fico, che lo ha reso “il Signore Dio dell’universo”. A sua volta, il Jihād (sissignore, il sostantivo è di genere maschile) dell’Islām è vocabolo polisemico, tra i cui significati c’è quello di “guerra santa”, vale a dire, combattuta – sul modello di quella di Maometto per la conquista della Mecca (629-630) – contro gl’infedeli, tra i quali non v’è dubbio che, nell’ottica islamica, vanno annoverati anche gli ebrei.

Ciò posto, l’aggressione attuata da Hamas – organizzazione terroristica, che non può essere identificata con l’intero popolo palestinese – ai danni d’Israele ha costituito, sicuramente, una forma di Jihād, sferrata sotto l’egida di Allāh, divinità islamica, alla quale lo Stato aggredito non poteva reagire, che con le modalità ben note, attraverso l’intervento del proprio esercito, che Jahvè ha preso sotto la propria egida. A questo punto, non soltanto ogni considerazione circa la sproporzione tra offesa e difesa diventa vana, né è superfluo sottolineare il danno che Hamas ha causato al popolo palestinese, ma, addirittura, nell’iniziativa di Hamas medesimo dev’essere ravvisata quella che i penalisti definiscono “colpa con previsione”, se non finanche quello che sempre i penalisti definiscono “dolo eventuale”.

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Il Governo attualmente in carica aveva esordito, ponendo al bando l’uso dei vocaboli stranieri, in luogo di quelli della lingua italiana. Riterrei utile, perciò, che il professor Giuseppe Valditara, ministro dell’istruzione (oltre che “del merito”!) spiegasse perché il nuovo corso di studi superiori, da lui annunciato e finora non ancora istituito, dovrebbe chiamarsi “Liceo del made in Italy”.

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Ci sono cafoni in tutti gli ambienti, anche in quelli apparentemente più “elevati”; perfino nel mondo della politica (ma di che cosa vogliamo meravigliarci?). e tra una consistente parte di tutti costoro è invalso l’uso di rivolgersi ai giornalisti, che li intervistano, dandogli del tu.

Signori (si fa per dire)! il giornalista è un professionista, ma, prima ancora, un uomo e, soprattutto come tale, merita rispetto. Torna appropriato, qui, il ricordo del mio Maestro, al tempo della mia collaborazione con lui, il quale stringeva la mano al bidello, prima che a noi, e una volta ci spiegò, con la sua nota saggezza: «Se faccio così, poi lui mi rispetta».

Quanto, poi, al “tu”, sono completamente fuori strada coloro che affermano che anche gl’inglesi danno dello you perfino al re. È vero; solamente, però, che lo you equivale al nostro “voi”, mentre in Albione si è perso l’uso del thou, seconda persona singolare del pronome personale: si ricordi, fra l’altro, il racconto di Edgar Allan Poe, Thou art the man (= Tu sei l’uomo - 1844). Dunque, in realtà, in Inghilterra i padri danno del voi finanche ai figli.

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Come si sarebbe dovuta attendere ogni persona avvezza a guardare oltre il proprio naso (che, come dice mio figlio, non è neppure quello di Cyrano de Bergerac), giunti alla scadenza del secondo mandato, fissato dalla legge come limite massimo di eleggibilità, presidenti di Regione e sindaci, affezionati alla loro poltrona, premono – e protestano –, perché sia consentito loro di aspirare al terzo. Ciò mi ricorda le modalità della transizione delle città italiane, tra Medioevo e Rinascimento, dall’esperienza dei Comuni a quella delle Signorie, nelle quali fu stabilizzata e divenne ereditaria la premiership (sì, se l’inglese lo usa il ministro, voglio usarlo anch’io) dei Capitani, fin allora eletti dal popolo dei primi. Dunque, honi soit (come sopra: comincio a prenderci gusto) che pensa che la storia non si ripeta.

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Le premesse per il gemellaggio tra il Vomero e Appenzell, città della groviera, si stanno consolidando, tra voragini già aperte e altre ventilate (se non altro) dai geologi. Mi piacerebbe sapere che cosa ne penserebbe Georges Ivanovič Gurdjieff, il filosofo armeno, maestro di René Guénon, che ho citato in apertura dell’articolo, dal momento che fra i cardini del suo pensiero c’è la formula “come sopra così sotto”, sia pure riferita all’intero Universo.

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Il napoletano non sarà una lingua (non è vero che tale lo abbia definito l’UNESCO) e potrebbe non essere neanche un dialetto – in un mio recente volumetto l’ho definito “parlata” –, però è innegabile che esso abbia un suo corpus di regole grammaticali e sintattiche, al pari della lingua italiana; e, quanto a quest’ultima, la violazione di quelle regole da parte degli studenti ha sempre subìto le impietose sottolineature rosse e blu da parte dei professori. Viceversa, la violazione delle regole del napoletano da parte di Geolier, cantante (?!) esibitosi al recente festival di Sanremo, ha incontrato l’assoluzione per opera finanche di qualificati docenti: unica voce di spessore, levatasi a protestare, è stata quella di Maurizio De Giovanni, presidente (ora dimissionario) del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano della Regione Campania.

Ricordo che, alcuni anni fa, Aldo Oliveri tentò di accreditare un sistema di “lessigrafia” del napoletano, molto simile al modo in cui è scritta la canzone sanremese di Geolier, ma fu contestato da un folto manipolo di studiosi – tra i quali, modestamente, anche il sottoscritto –, intervenuti alla presentazione; e ricordo, in particolare, la violenta filippica del compianto Raffaele De Novellis.

Bene, non mi sarebbe dispiaciuto che altrettanto fosse accaduto oggi; ma, viceversa – De Giovanni a parte –, nessuno si è fatto sentire; io stesso lo sto facendo soltanto ora, che mi se n’è presentata l’opportunità.

Bene, sono stufo di dover leggere frasi, che sembrano scritte in polacco (quattro o cinque consonanti di seguito, senza una sola vocale) e, viceversa, vorrebbero esserlo in napoletano: non bastavano i manifesti pubblicitari e quelli funebri, ora ci si mette anche la canzone.

Bene, dal Nord d’Italia hanno protestato contro Geolier, non per il modo di scrivere (suo e degli altri ben sei autori!) il testo della canzone in sé, ma per contestare la presenza di Napoli e della sua “parlata” al festival. Allora, mettiamola così: voglio prenderla come una ipotesi di eterogenesi dei fini.

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È pacifico che, da Democrito, almeno fino a Ernst Cassirer, al linguaggio è stato sempre riconosciuto carattere convenzionale, vale a dire, che la sua comprensione non necessita dell’intervento d’intermediari, fatta salva l’ipotesi di dialogo tra soggetti allofoni. È altrettanto pacifico che quello dell’arte sia un linguaggio, per di più, universale, vale a dire, che la necessità d’intermediazione rimane esclusa in ogni caso.

Da tutto ciò discende la considerazione che l’affannarsi dei cosiddetti “critici d’arte”, per spiegare il significato di certe opere di autori contemporanei, solitamente con l’impiego di circonlocuzioni ancor meno comprensibili di quelle opere, è da considerare del tutto superfluo. Con il corollario che quelle non sono opere d’arte. E sia chiaro che non lo dico io, bensì Jean Clair, accademico di Francia; e scusate se è poco.

(Febbraio 2024)