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Miti napoletani di oggi.25

LA PIZZA

 

di Sergio Zazzera

 


C’era una volta la pizza, che qualcuno riteneva discendente delle “mense”, vale a dire quei dischi di pane che, secondo la narrazione omerica, avevano la funzione degli odierni piatti e che al termine del pranzo erano dati come avanzi ai servi. Altri, viceversa, la consideravano nata a Eleusi, col nome di πλάξ. E in principio era quella più semplice, nota col nome di “napoletana” (aglio, olio, pomodoro, origano, basilico), poi soppiantata nei gusti dei napoletani dalla celeberrima “margherita”, che Rafiluccio Esposito, marito di Giovannina Brandi, titolare della non meno celebre pizzeria di via Chiaja, inventò in onore dell’omonima regina. Altre ancora ne vennero, come l’ormai scomparsa pizza “alla mastu Nicola” (‘nzogna, caso e vasenicòla) o come il tuttora trionfante cazóne (ripieno di salame – non prosciutto –, ricotta e mozzarella, condito con sugna – non olio –), con la sua variante fritta, detta “oggi a otto”, perché acquistata a credito.

La progressiva mitizzazione della pizza cominciò con la proposta di varianti, come la “quattro stagioni” (quattro spicchi di gusti differenti) e la “capricciosa”, spuria, perché di tradizione romana, nella quale i gusti sono ben più di quattro e tutti mescolati in maniera assolutamente casuale.

Il vero e proprio mito – vale a dire, il linguaggio falso – della pizza, però, è venuto formandosi lungo diverse direttrici. La prima è quella di una nouvelle cuisine quanto mai cafona, che guarnisce la pizza con lasagna, pasta e fagioli, parmigiana di melanzane e perfino baccalà. La seconda è quella di “templi” di un tempo – e valga per tutti l’esempio di Michele al Trianon –, che l’elevato tasso di frequentazione ha ridotto press’a poco al rango di fast food, nel senso di un “mordi e fuggi”, al quale ti costringe la fila di avventori che si accalca all’ingresso, in attesa di poter occupare il tuo posto. Il tutto, anche a scapito della qualità dell’offerta, tutto sommato, ancora positiva, ma più che un tantino lontana da quella di una volta. La terza è la conseguenza dell’“espatrio” della pizza: la si può mangiare a Milano cotta in forni al kerosene, a Roma con una consistenza pari a su pani carasau dei sardi, a New York in forma di pizza pie, delle dimensioni di una ròt’’e carro (laddove quella autentica non deve debordare dai margini di un comune piatto da pietanza). Insomma, povera pizza.

(Luglio 2014)