GIUSTIZIA E POLITICA
di Sergio Zazzera
Il sistema statunitense di amministrazione della giustizia – che non saprei dire se possa essere definito “ordinamento giudiziario” – è fondato sul carattere elettivo delle magistrature, sia requirente, che giudicante. Dal che discende la “necessità”, avvertita dagli eletti, di chiedere e, rispettivamente, di pronunciare la condanna di quanti più malcapitati sia possibile, per assicurarsi le simpatie della propria base elettorale, che, al momento opportuno, si tradurranno nella loro rielezione.
In Italia, viceversa, l’ordinamento giudiziario (questo, sì, meritevole di tale definizione) è fondato sull’accesso alle magistrature mediante concorso pubblico, il che, in uno con l’indipendenza dagli altri poteri dello Stato, non determina la sussistenza della “necessità” di cui sopra.
Tale ultima considerazione, però, sembra sfuggire ai magistrati italiani, e soprattutto a quelli del pubblico ministero, i quali arrestano e chiedono condanne a tutto spiano, nel corso e/o al termine d’indagini condotte, non di rado, “a senso unico” – trascurando, cioè, di seguire tutte le possibili piste –.
Tale linea di comportamento, poi, favorisce quella parallela, adottata, ormai da tempo, dal mondo politico, di chiedere le dimissioni del proprio avversario, appena divenuta nota la circostanza della sua sottoposizione a inchiesta giudiziaria. E devo dire che, fino a tempi recentissimi, trovavo condivisibile tale orientamento, in sintonia con la motivazione espressa in proposito dal presidente dell’A.N.M., Piercamillo Davigo, il quale adduce l’esempio del vicino di casa inquisito per pedofilia, al quale, anche nella fase iniziale dell’inchiesta, egli non affiderebbe mai il proprio figlio.
A farmi ricredere, ora, è intervenuto l’esito della vicenda che ha avuto per protagonista l’(ormai ex-)sindaco di Roma, Ignazio Marino, la cui amministrazione fu fatta cadere, addirittura, dalle dimissioni collettive dei suoi assessori, ma oggi egli è stato scagionato dalle accuse rivoltegli. E preciso che nei confronti di Marino non ho mai nutrito particolari simpatie.
Con ciò non intendo affatto sostenere che l’inquisito non debba dimettersi, bensì che tale suo dovere morale può trovare giustificazione soltanto in una fase più avanzata dell’inchiesta, quando, cioè, risulteranno acquisiti elementi di prova, nei suoi confronti, che possano lasciar prevedere fondatamente un esito processuale sfavorevole per lui. Ciò che, viceversa, intendo sostenere è la necessità che i magistrati – e soprattutto quelli del pubblico ministero – si convincano della differenza che esiste tra la loro condizione e quella dei loro colleghi made in U.S.A. e che non perdano di vista, per prima cosa, il loro dovere di acquisire anche le prove a favore dell’indagato/imputato.
(Ottobre 2016)