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Storia del Vomero e storia di Napoli   di Antonio La Gala   Fino a poco fa si tendeva a considerare realtà complessivamente diverse quella esistente...
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Giardini di antiche ville in Campania   di Antonio La Gala     Spesso, nel visitare qualche antica villa napoletana o campana, restiamo colpiti dalla...
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WEEKEND SULLA NEVE   di Luigi Rezzuti   Tutto ebbe inizio con il weekend che Franco e Vanessa avevano deciso di fare in montagna. Partirono nel primo...
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I marittimi tornino a casa. Restiamo umani   Riceviamo dall’assessore del Comune di Procida, Rossella Lauro, e pubblichiamo il seguente...
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CALCIOMERCATO ESTIVO 2022   di Luigi Rezzuti   Il consiglio della Federcalcio ha votato all’unanimità  i termini di tesseramento per la prossima...
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BENEFICI E SVANTAGGI DEI COMPITI A CASA   di Annamaria Riccio   Il lavoro scolastico svolto a casa è sempre stato un punto nevralgico che ha investito...
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Federico Fellini, realista e visionario, di Luigi Mazzella   di Luigi Alviggi   Il sottotitolo del libro recita: “L’armoniosa complessità di un...
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Miti napoletani di oggi.84 IL TURISMO   di Sergio Zazzera   Che il turismo sia una delle più redditizie risorse economiche dell’Italia intera, è un...
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COPPA D’AFRICA   di Luigi Rezzuti   La manifestazione africana doveva tenersi un anno fa, ma venne rinviata a causa dell’emergenza Covid-19. Per...
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Articoli

La zeppola

Pensieri ad alta voce

di Marisa Pumpo Pica

 

Una favola moderna

La zeppola di San Giuseppe e i migranti

 

Il giorno di San Giuseppe, festa del Papà, si celebra con la zeppola e, poiché è noto che “il santo dura otto giorni”, scriviamo oggi, augurandoci che, vincendo ogni pigrizia, i nostri lettori possano e vogliano leggere almeno nel corso dell’intera settimana…

“I migranti vanno aiutati a casa loro”. È questo il facile slogano costruito ad arte da chi vuole sbarazzarsi facilmente di quei poveri sventurati che, per bisogno, per fame, per guerra o per quant’altro, che non sta a noi giudicare, vengono a “darci fastidio in casa nostra, sottraendo lavoro agli Italiani.” Ed è anche questa la retorica che marcia in coppia con lo slogan. Nelle more, gli emigranti, quasi “briganti”, nell’immaginario di costoro, muoiono in gran numero nelle nostre acque, con i divieti degli ultimi anni appena trascorsi e con le attuali limitazioni, imposti, gli uni e le altre, alle navi di Emergency che, tuttavia, non hanno mai smesso di prodigarsi per metterli in salvo. In tutto questo, viene fuori, ora, un patto con l’Egitto, sempre nell’ottica di aiutarli in casa loro... In qual modo, in quali termini, ancora non è dato sapere, come, altresì, ancora non si riesce ad avere giustizia, dallo stesso Egitto, sul caso di Giulio Regeni.

Pare che ci sia un progetto europeo di aiuti per 7,4 miliardi di euro per l'Egitto, destinato ai migranti.

“Ma la zeppola in tutto questo cosa c’entra?” si chiederanno, perplessi, i nostri lettori. C’entra, c’entra.

 

Tanto per cominciare anche San Giuseppe, con la sua sposa, era un migrante,

inoltre, abbiamo appena appreso dal web la bella favola delle zeppoline di don Umberto Russo, un vecchio pasticciere il quale, dopo un’intera vita di lavoro, desiderando il meritato riposo e volendo chiudere il negozio, ha pensato di rivolgersi ad una cooperativa, “Terra e Sale ”, che fa parte di un Consorzio con finalità di economia sociale (Sale della Terra) L’attività viene, quindi, ceduta ad una cooperativa di migranti, dopo aver loro insegnato come fare le sue squisite zeppoline, molto apprezzate nel circondario.

Siamo a Benevento e la storia del nostro pasticciere è tale da far coniugare tradizione e integrazione, non solo per la riuscita di una buona zeppola, ma anche per evitarne l’estinzione e dare lavoro e dignità ai migranti.

La storia inizia nel 1958, Umberto Russo ha appena dieci anni e lavora nella pasticceria Bianchini, al rione Libertà, dove comincia ad imparare l’arte della zeppola, di qui passa a lavorare presso la pasticceria D’Auria, e vi resta fino al giorno della partenza per il servizio militare. È benvoluto dal proprietario, il quale, nel salutarlo commosso, gli promette di riassumerlo, al suo ritorno, e di cedergli perfino la gestione del locale quando sarebbe venuto il momento di andare in pensione. Le cose, poi, non vanno proprio così. Al ritorno dalla leva, il proprietario non è più in vita e la vedova non può mantener fede alla promessa del defunto, avendo anche lei le sue difficoltà da fronteggiare. Fra le alterne vicende della vita, Umberto Russo continuerà sempre a lavorare, ritornando, poi, alla pasticceria D’Auria, su invito della proprietaria, fino ad aprirne una sua, in cui continuerà a sfornare dolci vari, con le immancabili zeppoline che rendono bene e lo rendono (il gioco di parole non è casuale!) anche famoso nella zona. E non solo. Ormai sono passati circa sessant’anni. Col suo lavoro e con la moglie, sempre accanto per dividere con lui, ansie, preoccupazioni e fatica, ha allevato le figlie, che si sono laureate. È tempo di chiuder bottega, di cedere l’attività. Lavorare, fin dall’infanzia, per un’intera vita, non è cosa da poco. Gli anni e la stanchezza si fanno sentire, ma non vorrebbe veder “morire” le sue zeppoline, che gli hanno dato lustro e gloria. Che fare? C’è quella cooperativa che si occupa di migranti. Insegnare loro il mestiere? Non è quello che dovrebbe fare ogni buon artigiano per non vanificare del tutto il proprio lavoro? Ed è così che si conclude la bella favola moderna. I migranti lavorano oggi le zeppoline Russo e zio Umberto va ancora, quasi tutte le mattine, a controllare, verificare che il lavoro proceda bene e che il matrimonio fra tradizione e integrazione funzioni alla perfezione, come ha funzionato il suo con l’avveduta consorte.

Come per ogni favola che si rispetti, a noi non resta che concludere “E vissero tutti felici e contenti.”

(Marzo 2024)

Le Frenesiadi

Pensieri ad alta voce

 

di Marisa Pumpo Pica

 

Le Frenesiadi - Sanremo Festival

 

Ebbene sì. I Greci, fra tanti giochi e feste, avevano le Olimpiadi, i Romani i Saturnalia e noi, oggi, abbiamo le Frenesiadi. È questo il termine che i nostri Pensieri ad alta voce in questo momento ci spingono a coniare per definire l’atmosfera che il Festival di Sanremo crea intorno a noi. Trasmissioni, programmi, conduttori radiofonici e televisivi, stampa, social, spettatori, tutti invasi da una frenesia che, per settimane e mesi, non sembra placarsi. Né prima, né durante, né dopo, col Prima, Dietro e Dopo Festival e, quest’anno, anche con l’Aristonello di Sciuri (Rosario Fiorello ndr). Tutti, o quasi, nel vortice dell’attesa.

Per la verità occorre dire che, negli ultimi tempi, questo avviene per il Festival, come per molti altri eventi, che si susseguono, giorno dopo giorno, di qualsiasi natura essi siano, gioiosi, tristi o luttuosi, per i quali veniamo bombardati, in una girandola di notizie, smentite, contestazioni, polemiche, ritrattazioni e gossip senza fine. Una sorta di contagio nazionale, accentuato, ovviamente, dall’amplificazione dei media, con le ospitate e le comparsate dei più diversi personaggi, depositari sempre del fuoco sacro della Verità. Veniamo colti tutti da una smania, quasi morbosa, di sapere, cogliere i dettagli, i retroscena, approfondire. Il che non guasta. Anzi, una sana curiositas, per tornare agli Antichi, è stata sempre principio di conoscenza, nonché di vero umanesimo (Homo sum ... e tutto ciò che concerne l’uomo mi appartiene).-

Dunque, anche noi non abbiamo disdegnato il Festival. Lo abbiamo seguito per tutte le cinque serate, fino a notte inoltrata, con la sua simpatica appendice dell’Aristonello. Siamo, però, sempre quelli del giorno dopo. Amiamo seguire gli eventi. Alla vecchia maniera. E per gli eventi, seguiti minuto per minuto, leggere, scrivere e... far di conti. E i conti si fanno sempre dopo… Senza addendi non c’è somma.

Amiamo parlare quando il clamore si è attutito perché, nel momento in cui il clamore è alle stelle, nel vivo delle polemiche e delle contestazioni, la voce di ciascuno si alza più alta di quella dell’altro e, nella confusione, c’è scontro. Occorre il silenzio perché nasca la riflessione. Senza ascolto reciproco non si giunge mai al confronto. Chi è alla guida di un’imbarcazione, sia essa una nave o una piccola barca, deve tenere sempre stretto fra le mani il timone, per non essere trascinato in alto mare dai flutti. È per questo che, a Festival concluso, abbiamo voglia di capire dove va la nostra musica, i suoi percorsi, le mete, le aspettative. E dunque ci piace ascoltare, se e quando ci sono, i messaggi, gli impegni, i progetti dei cantanti e degli autori. La musica, da sempre, è questo: luogo del cuore o, come ha pur detto il maestro, Leonardo De Amicis, unguento dell’anima, ma anche, aggiungiamo noi, bisogno di comunicazione, denuncia, condivisione, come alcune canzoni dei nostri giovani ci hanno lasciato intendere.

Diodato, infatti, di cui abbiamo apprezzato, nella sua perfezione, l’esecuzione, oltre che il testo, ha opportunamente chiarito con un commento, di poche, stringate parole, rilasciato il giorno dopo il Festival, che cosa è per lui una canzone precisando che la canzone non è solo di chi la scrive o la esegue, ma anche di chi l’ascolta e ne fruisce. Ed è davvero così. Se ti prende il cuore, una canzone è tua e di tutti. E non muore mai, come è accaduto per tante canzoni, che passano di generazione in generazione.

Del resto, da sempre il Festival non è “solo canzonette”. Ha anche i suoi contenuti profondi, magari dentro una musica assordante. Fai rumore per farti sentire. Vèstiti in modo estroso per stupire. Fai salti sul palco per fermare l’attenzione di chi ti guarda. Una nota di narcisismo, tipica dell’artista, non guasta. Accadeva con Renato Zero, Zucchero, Vasco Rossi, per citare almeno qualche nome. Ed è così ancora, con i nostri giovani di oggi. Si canta e si denuncia perché il Festival, oggi come ieri, rispecchia la società, con le problematiche del momento, e viceversa. Un esempio per tutti Ghali. Con la canzone Casa mia, vuole ricordarci che, casa mia casa tua, siamo tutti sotto lo stesso cielo e che, per goderne tutti, al di là di nascita, razza, lingua, religione, è necessaria la pace. E tutti noi, piuttosto che alzare muri, fronti divisori e sollevare polemiche, con comunicati senza senso, dovremmo impegnarci per assicurarla al mondo intero.


La parola d’ordine a Sanremo è sempre la stessa: non conta vincere, ma partecipare, per cui ci saranno sempre i “vincitori” della proclamazione ufficiale dell’ultima serata e quelli “effettivi”, con le canzoni che, come si è già detto, portiamo nel cuore per non dimenticarle più. Ognuno di noi, è fuor di dubbio, vede il Festival e ascolta le canzoni a modo suo, ciascuno secondo la propria sensibilità e i propri gusti. Noi abbiamo apprezzato, oltre che Diodato e Ghali, anche Fiorella Mannoia, una vera signora della canzone italiana, che si distingue per classe e bravura. Sarebbe stata auspicabile una migliore collocazione in classifica, ma ha portato a casa un dono prezioso, il meritatissimo, prestigioso Premio Sergio Bardotti, per il miglior testo. Con la sua Mariposa, parole forti, serie, accompagnate dauna musica gioiosa, moderna, dai ritmi latineggianti, ha “dialogato” con tutte le donne, di ogni estrazione sociale. E con lei, Annalisa, Irama, Loredana Bertè (Premio della critica Mia Martini, conferitole dalla Stampa) e Mr. Rain. La sua Due altalene è lo struggente colloquio d’amore di una madre con il figlio che non c’è più. Brave le ospiti, una Gigliola Cinguetti, che festeggia i sessant’anni di carriera con la stessa grazia ed eleganza di quando, giovanissima, non aveva “l’età per cantare” e le co-conduttrici, come Giorgia e, in modo particolare, Lorella Cuccarini, nella sua fantastica e meravigliosa esibizione danzante, in apertura della quinta serata.

Un discorso a parte va fatto per Angelina Mango e Geolier, ovvero Emanuele Palumbo. i quali, molto diversi fra loro, ma accomunati dalla giovanissima età, si sono disputati il podio e la vittoria all’ultimo sangue, sarebbe il caso di dire, dividendo il pubblico, in sala e da casa, nella giornata delle cover e in quella finale.

Angelina Mango, brava, sicuramente, padrona della scena e del palco, a noi è piaciuta soprattutto nella serata delle cover, quando ha cantato, in modo commovente, la splendida canzone La rondine, in un sofferto ed ideale dialogo col padre, il compianto Pino Mango, voce eccellente della canzone italiana.


Per la serata delle cover da segnalare anche Alfa. che ha aggiunto forza e vigore giovanile alla suggestiva interpretazione della canzone Chiamami ancora amore, nel meraviglioso duetto con il grande Roberto Vecchioni. Anche qui un intenso ed ideale passaggio del testimone. E tutto ciò dimostra come sia giusto dare spazio ai giovani, ma anche quanto sia opportuno che i giovani tengano conto della “lezione” di chi li ha preceduti. Il che è possibile quando il recupero del passato avviene attraverso la contaminazione con le istanze del mondo giovanile.

È un discorso educativo che ha un grande significato solo nel riconoscere il valore dello scambio intergenerazionale.

Il caso Geolier, invece, va affrontato, in via preliminare, con una considerazione seria: il culto che bisogna avere sempre per la lingua napoletana che non può mai essere oggetto di divulgazione frettolosa ed improvvisata, come a noi è apparsa, in fin dei conti, la canzone P’me P’te, scritta in modo, a nostro avviso, inaccettabile per un Festival e, meno che mai, per una vittoria finale. A voler essere benevoli, lasciandosi trascinare dall’onda campanilistica, si potrebbe prendere atto della giovane età dell’autore, ma non si può non riconoscere in lui un tentativo maldestro, nel presentare una canzone di questo tipo. Qualcuno ha voluto trovare una giustificazione alludendo ad un presunto napoletano, scritto in un linguaggio artistico, ovvero un napoletano d’arte, di cui non abbiamo contezza, nonostante i nostri studi sulla lingua napoletana. Si è parlato di rispetto, di impegno, di coraggio. Chiamare in causa questi termini ci sembra questione di lana caprina. È la canzone napoletana, con la sua storia millenaria e, soprattutto la lingua napoletana, che meritano rispetto nel maneggiarle, impegno nell’affrontarne lo studio e, più che coraggio, tanta umiltà nell’approccio ad entrambe. Al di là di ogni eccesso campanilistico (certamente anche a noi avrebbe fatto piacere che Napoli fosse prima in classifica a Sanremo), bisogna riconoscere che, se il giovane Geolier, come ha sostenuto, voleva, con questa canzone portare in auge la lingua napoletana, il suo intento è andato in senso contrario. Il discorso, poi, si complica anche per altri motivi, che tirano in ballo, per prima cosa, la possibilità di accesso della canzone napoletana in un Festival della canzone italiana, che dovrebbe a questo punto, per par condicio, accogliere anche le canzoni scritte in altre lingue regionali. Un elemento di tipo formale che si aggiunge a tutto il resto.

Tanto rumore per nulla sarebbe il caso di chiedersi.

Vale la pena tanto clamore quando da settimane e mesi si dava già per scontata, quale risultato ultimo, la vittoria finale di Angelina Mango? La domanda sorge spontanea, per dirla alla Lubrano. Valeva la pena montare il grande baraccone del Festival, con cinque serate di ascolto di ben 30 canzoni, fino a notte inoltrata? La risposta spetta al direttore artistico, il buon Amadeus, al quale pur vogliamo bene, riconoscendogli anche l’impegno per il gran lavoro affrontato. Soltanto lui potrebbe spiegarci perché non sarebbe stata possibile una preselezione più stringente ed efficace per una migliore riuscita del Festival. Sarebbe stato preferibile portare il numero a 15, nell’interesse degli stessi cantanti. Essere ultimi su 15 non è la stessa cosa che esserlo su 30. Minori illusioni comportano minori frustrazioni. Lo dimostra il caso di Sangivanni che ha reagito, mettendo forse in discussione (vogliamo immaginare solo temporaneamente) se stesso e la carriera artistica da poco intrapresa. Non tutti hanno la forza di accettare sconfitte e rialzarsi. Noi gli auguriamo di cuore che ciò avvenga tempestivamente.

Inoltre, vorremmo chiedere ad Amadeus se non sia il caso di cambiare il sistema delle votazioni, con l’esclusione di questo televoto a cui si ricorre costantemente, anche per altri spettacoli del genere, col supposto principio democratico che, alla fine, rivela solo il suo substrato economico, a tutto detrimento della specificità culturale del voto di una seria ed appropriata giuria tecnica, che potrebbe essere la sola in grado di giudicare una canzone, sulla base di una reale meritocrazia. Il televoto è figlio del nostro tempo, del clamore, dello share, dei social, dei follower. Un programma si giudica dagli ascolti. Una persona dai follower. Dimmi quanti follower hai e ti dirò chi sei. Suona, così, oggi, ogni forma di conoscenza, ogni approccio, ogni relazione fra le persone. E chi non ama i social, chi non ha follower o non li cerca, dove resta confinato? In quale limbo? Chi si occuperà di lui? A quale destino è votato? A quale la sua canzone e la sua musica? Noi siamo quelli del giorno dopo anche per questo, perchè il giorno dopo consente di riflettere su tante cose, di superare contrapposizioni e ricucire strappi. Ci permette di isolare il bello da quel che è trash, diritornare col pensiero alle commoventi e suggestive parole di Giovanni Allevi nel momento in cui ci ha trasmesso l’ansia e la gioia di riprendere ad accarezzare, con le mani sofferenti, il pianoforte, dopo più di due anni. Una pagina alta del Festival è stata scritta quando ci ha raccontato quanto possa essere grande ed intenso l’amore per la vita, “dopo aver visto, per giorni, l’alba ed il tramonto da una camera d’ospedale”. Un monito ed una speranza per quanti devono trovare la forza di risollevarsi dopo una tremenda malattia.

Ma il Festival di Sanremo è bello perché è vario. Accanto a questo e a tanti altri momenti di intensa commozione, non è mancato anche qualche neo, comparso come sul viso di ogni bella donna, stando ad un vecchio detto. E così Fiorello ha “preteso” che un personaggio internazionale, del calibro di John Travolta, che avrebbe potuto deliziare il pubblico con una splendida danzatrice del corpo di ballo, si esibisse, invece, in corteo con lui, Amadeus ed altri, in un ridicolo “ballo del qua qua”. Umorismo sotto traccia, ironia surreale, a cui il nostro intelletto non riesce ad arrivare. E, travolto dal qua qua non è arrivato a tanto nemmeno il povero Travolta, di cui comprendiamo, ovviamente, l’irritazione, se non l’indignazione, nonchè la dichiarata rinunzia alla firma per la liberatoria. Allo stesso modo riteniamo pienamente giustificati i commenti negativi della stampa, nei giorni successivi. Sorprende, anzi, che se ne meraviglino Fiorello e lo stesso Amadeus, padrone di casa!

Post scriptum in sospeso per il successore di Amadeus. Se veramente, come oggi sostiene, non condurrà ancora lui il prossimo Festival, bisognerebbe chiedere a questo Signor X se non riterrà utile scindere le due figure, quella del direttore artistico da quella del conduttore. A noi sembrerebbe opportuno per vari motivi, che non staremo qui ad elencare.

Amadeus e Fiorello hanno chiuso questa 74a edizione con un record di ascolti (oltre il 60 per cento di share), la più seguita, la più digitale, la più effervescente che mai (con la lunga coda di polemiche e contrapposizioni di sempre). Ma, per concludere come abbiamo iniziato, con il richiamo agli Antichi, vogliamo ricordare che i due amici sono andati via felici, verso l’Aristonello, mano nella mano, salendo su un grande cocchio dorato, quello degli dei dell’Olimpo, elemento fondamentale della mitologia greco-romanaa. E qui l’ultima delle nostre domande. Metafora della chiusura di un ciclo, fine di un’epoca d’oro? Del resto, la scelta di latinizzare il suo nome da Amedeo in Amadeus, conteneva forse già gli auspici di una favola moderna, destinata a trasformarsi in una favola mitologica.

(Febbraio 2024)

I CAMPI FLEGREI TREMANO

I CAMPI FLEGREI TREMANO

 

di Luigi Rezzuti

 

Negli ultimi mesi le scosse di bradisismo sono in aumento e preoccupano la popolazione residente. L’attenzione è massima e la situazione sismica è costantemente monitorata. I Campi Flegrei sono in allerta gialla da anni e sono in attività costante. Il prof: Mauro Antonio Di Vito direttore dell’Osservatorio Vesuviano, autore di diverse ricerche sulla geologia dei Campi Flegrei e del Vesuvio ha detto: “I Campi Flegrei sono un vulcano attivo con fenomeni bene avvertiti dalla popolazione. I segnali che registriamo sono molto più di quelli che si avvertono, addirittura c’è un arretramento della linea di costa che avviene con la velocità di quindici millimetri al mese. Le aree maggiormente interessate sono quelle di Rione Terra ed il lungomare di via Napoli”. Fortunatamente gli eventi sono di bassa energia e molto superficiali per cui sono   amplificati dalla vicinanza e sono maggiormente avvertiti dalla popolazione. E’ una sismicità molto superficiale, alcuni fenomeni addirittura si verificano ad un centinaio di metri sotto le case. Nel biennio 1982/84 il suolo si alzò di un metro e ottanta in soli due anni, infatti fu necessaria una seconda banchina per l’attracco dei traghetti per le isole di Procida ed Ischia. Oggi i Campi Flegrei sono ad un livello di attenzione secondo il piano preparato dalla Protezione Civile di livello giallo, la Solfatara produce tremila tonnellate di anidride carbonica che è un dato molto prossimo ai vulcani a condotto aperto tipo Stromboli o Etna, quindi parliamo di un vulcano che può produrre fenomeni diversi. In generale, se dovesse essere prossima un’eruzione, si osserverebbero una serie di cambiamenti sostanziali, dichiarano alcuni vulcanologi, in primis, si sarebbero variazioni nella sismicità, ovvero “terremoti più frequenti e molto più forti. In secondo luogo, ci sarebbero delle variazioni importantissime nella deformazione del suolo, così come nel contenuto chimico delle emanazioni fumaroliche, nonché nella temperatura sia delle fumarole che del suolo, accompagnate da accelerazioni di gravità importanti. Ma questi sono dati monitorati costantemente, nessuna di queste condizioni si è verificata finora. I terremoti che siano grandi o piccoli, non si possono prevedere in nessun modo con la tecnologia e le conoscenze attuali.

(Ottobre 2023)

Giulia Cecchettin

Pensieri ad alta voce

 

di Marisa Pumpo Pica

 

La triste vicenda di Giulia Cecchettin

 

Chi ha avuto modo di seguirci saprà certamente che qui trovano posto quei pensieri che nascono dal desiderio di comunicare con i lettori e con loro condividere sentimenti, immagini, emozioni che, a ruota libera, si agitano nella mente e nel cuore.

Accade anche in questa circostanza, dinanzi alla recente storia drammatica di Giulia Cecchettin, barbaramente assassinata dall’ex fidanzato, Filippo Turetta.

Giorno dopo giorno, il turbamento emotivo, nato dalle prime notizie, fino all’epilogo agghiacciante, si traduceva in questi nostri “Pensieri ad alta voce”, vergati di getto, così come mente e cuore li concepivano, destinati a voi, cari lettori, per un pacato e libero confronto su fatti, ipotesi, commenti. Abbiamo preso tempo, però, prima di pubblicarli. Lo facciamo oggi, dopo tentennamenti e rèmore di varia natura.

Questa drammatica vicenda ci consegna diversi spunti di riflessione, non solo sul caso in sé, molto triste ed amaro, ma anche, e soprattutto, su come si vada trasformando sempre più questa nostra società, nei fatti che accadono e nei commenti che ne seguono.

Sorvoliamo sui dettagli della vicenda, che ha commosso tutti noi, che in Giulia abbiamo visto la figlia, la sorella, la nipote e le tante altre donne, vittime di femminicidio (in Italia, in questo 2023, 110, fino ad oggi). Vogliamo soffermarci, invece, su alcuni elementi che ci hanno colpito, nel tentativo di riportare questo tragico evento entro i confini che gli sono propri, giuridici, culturali e sociali. Il caso, lo abbiamo detto, ha commosso ed appassionato l’Italia, con un ampio contributo della stampa, della radio, delle emittenti televisive e degli immancabili social, che hanno incrementato dibattiti ed accese discussioni. Si è scritto e detto di tutto e di più. Forse anche troppo. Oltre misura, dinanzi al dolore di due famiglie, che hanno visto la vita sconvolta da questa tragedia. È appena il caso di sottolineare come, anche in questa occasione, siano emersi i limiti, la pericolosità e l’invadenza debordante dei social. Si è giunti ad aprire una pagina su facebook per Filippo Turetta, con pochi follower (e meno male!) e molte corbellerie come la dedica della canzone Biko, scritta da Peter Gabriel per il sudafricano, attivista antipartheid (Steve Biko, appunto), morto a causa delle torture subìte in carcere. A nessuno sfugge, senza dubbio, come ingiustificato ed incomprensibile possa essere il raffronto tra Biko e Turetta. Sempre sui social, poi, non sono mancati attacchi alla sorella della povera Giulia, la giovane Elena, accusata di sovraesposizione mediatica e, da taluni, addirittura di strumentalizzazione del suo dolore per preparare le basi di una prossima candidatura alle elezioni europee. Assurdità inaccettabili, insomma. Tali anche le parole fuori luogo di un consigliere regionale veneto, Stefano Valdegamberi, il quale, facendo riferimento alla felpa da lei indossata, parlava di simboli satanici e qualificava come frasi sovversive quelle dalla stessa  pronunziate, durante la trasmissione televisiva “Diritto Rovescio”

Ora, dopo tutto questo, sarà forse chiaro il motivo del nostro iniziale silenzio. Più che i ragguagli di una cronaca, ormai ben nota a tutti, ci sono apparsi necessari questi brevi cenni ad alcune cose fatte e dette a sproposito. Poche, per fortuna, rispetto alle tante altre belle espressioni e manifestazioni di un cordoglio, commosso e sincero, nei confronti del padre, della sorella e del fratello della povera ragazza (la madre, purtroppo, è morta nell’ottobre dello scorso anno).

Ciò detto, ritorniamo al nostro assunto iniziale: tentare di riportare il caso nell’ambito che gli compete. Il primo, naturalmente, è quello giuridico. Filippo Turetta è accusato di omicidio volontario, cui quasi certamente verranno associate le aggravanti del legame sentimentale, dato il rapporto affettivo con l’ex fidanzata; della crudeltà, per “l’inaudita ferocia” con cui si è accanito contro la vittima. Non è ancora possibile dire se verranno riconosciuti il reato di sequestro di persona e quello dell’occultamento di cadavere. Il corpo della giovane donna, come è ben noto, è stato ritrovato in fondo ad un dirupo, a circa 50 metri di profondità, rispetto al ciglio della strada, quindi difficilmente visibile, ricoperto da sacchi neri e fogliame, in una sorta di giaciglio naturale, presso il lago Barcis, in provincia di Pordenone. Sarebbe da accertare, ed è invocato e testimoniato dai familiari della vittima, anche il reato di stalking, che egli avrebbe messo in atto nei confronti della ragazza, attraverso telefonate e messaggi pressanti ed ossessivi, un vero e proprio assedio psicologico, esercitato prima e dopo la rottura del fidanzamento. In ultimo, ma non ultimo, resterebbe da considerare l’aggravante della premeditazione, come svariati elementi, significativi nelle indagini, lasciano prevedere.

L’atroce morte di Giulia Cecchettin, lo dicevamo in apertura, ci spinge a riflettere, oltre che sul caso umano, anche sugli aspetti sociali, culturali, educativi che, in questo, come in altri reati di violenza contro la donna, richiedono una reale presa di coscienza da parte di tutti noi affinché il dolore, la commozione, lo sdegno del momento non siano sempre e soltanto l’unica reazione, sporadica ed emotiva, dinanzi ad un femminicidio. Di proposito sorvoliamo sui risvolti politici, che richiederebbero più ampio spazio. per limitarci ad affrontare quanto è accaduto su quei piani a cui innanzi si accennava.

IL VIRTUALE E L'APPARIRE

Forse oggi molti di noi vivono in un mondo che non è quello reale, bensì quello virtuale e dell’apparire, fondato su un consumismo esasperato, dove predominano l’avere più che l’essere, il possedere, più che il dare, insieme ad un ego altrettanto esasperato e smisurato. Un mondo labile in cui il “dentro” e il “fuori” non sempre combaciano. Gli altri spesso ci conoscono solo nel nostro “apparire”, non per come siamo dentro, ma per come ci vedono, per come vogliamo che ci vedano. Di qui il primo dato, eclatante, in questo caso: la sorpresa, che si unisce allo sgomento dinanzi a questo delitto efferato, per cui tutti, insieme ad amici, conoscenti, familiari di lei e di lui si chiedono il perché. Non poteva immaginarlo nessuno e non se lo aspettava nemmeno la stessa povera Giulia che, nei vocali trasmessi dal programma “Chi l’ha visto?”, confidandosi con le amiche, si chiedeva cosa fare e, nella grande generosità del suo cuore, temeva per lui. “Vorrei sparire dalla sua vita”, diceva, e, in un altro, “Vorrei che sparisse. ma ho paura che possa farsi del male.” E… invece Filippo Turetta agiva molto diversamente… Ecco “l’apparire”. Siamo diversi da come gli altri ci conoscono, da quel che pensano di noi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un ventiduenne, un giovane universitario, un “bravo ragazzo, un ragazzo esemplare, che non aveva dato mai problemi, (eppure ne aveva! n.d.r) un ragazzo quasi perfetto”, stando alle parole del padre, si rivelasse nella sua vera identità, attraverso questo crimine spaventoso. Se vogliamo capire a fondo il perché di questo gesto insano, al di là di estreme generalizzazioni o frettolose semplificazioni, dobbiamo riconoscere che il tema dell’evento specifico, oggetto di discussione, si espande dall’individuo alla società, ampliandosi ed articolandosi in varie problematiche che investono la famiglia e, all’interno della stessa, il rapporto genitori - figli, la scuola, la formazione, i modelli culturali e sociali, la comunicazione. Sono tematiche che coinvolgono tutti noi, nella riflessione e nel dolore, oltre ai familiari, di lei e di lui, per chiederci tutti insieme come questa tragedia possa essere accaduta, in che cosa si sia sbagliato, che cosa si sarebbe potuto fare e che cosa ancora si può fare per evitarne di simili. Risposte adeguate a tali angosciosi ed inquietanti interrogativi, a nostro avviso, possono arrivare solo da una riformulazione dei modelli culturali, educativi e sociali.

IL MOVENTE

Nella ricerca del movente, dunque, il nostro bisogno di verità. Nello sforzo di capire fino in fondo questo delitto, riflettori puntati su famiglia, scuola, società.

Il problema, infatti, come abbiamo detto, si amplia nella ricerca delle cause e dello sfondo culturale e sociale che ritroviamo spesso in delitti del genere. Ma non è detto assolutamente che lo sfondo socio-culturale debba essere sempre e soltanto di degrado o sottocultura, può essere anche di apparente normalità. E lo è stato, infatti, anche per tanti altri femminicidi. Su tutto questo, acceso è stato il dibattito. Tante le voci, tante le ipotesi, le ricostruzioni. Noi ne proponiamo una, tentando di fornire un quadro d’insieme, attraverso l’analisi del profilo dei due giovani, della compatibilità di tali profili e del tipo di relazione da loro vissuta. E mentre scrivevamo, ponendoci mille interrogativi, andando avanti, sulla falsariga dei nostri pensieri, i fatti, che via via venivano resi noti, sembravano darci ragione. La nostra ricostruzione è risultata confermata da quanto è successivamente emerso.

Abbiamo cominciato a riflettere, per prima cosa, sul profilo dei due giovani. Lei, che è entrata nel cuore di tutti noi, era una ragazza sempre sorridente, solare, estroversa. “Eterna bambina”, la definisce la sorella, aggiungendo e precisando che la caratterizzava “un senso gioioso della vita, un amore grande per la vita. Eterna bambina, per questo, ma non infantile, anzi sempre decisa e determinata.” Lui, già in parte da noi innanzi descritto attraverso le parole del padre, è un ragazzo che sembra vivere nella normalità di un’esistenza tranquilla. Un po’ introverso, divide il suo tempo tra lo studio e l’amore per lo sport, per la montagna e per la “sua” ragazza, verso la quale si mostra geloso e possessivo, come raccontano gli amici comuni, fornendo dati significativi: “sempre mano nella mano con Giulia e braccio sulla spalla di lei”, a sottolineare il possesso, il concetto padronale dell’amore, aggiungiamo noi. Un profilo piuttosto contorto o, quanto meno, problematico, quello di Filippo Turetta nel quale, stando a queste testimonianze e ai fatti accaduti, sembrerebbero affiorare tratti di un narcisismo non superato. nella ricerca esasperata di valorizzazione del proprio ego, con tendenziali note manipolatrici. È da chiarire che egocentrismo e narcisismo sono tratti naturali nella fase dell’infanzia, che vengono, poi, superati nelle fasi successive del processo evolutivo, quando consapevolezza, responsabilità e maturità di pensiero devono fornirci le armi necessarie ad affrontare le sfide a cui la vita ci sottopone. D’altra parte, se non ponessimo attenzione al profilo del ragazzo, non si spiegherebbe il tentativo incessante di riallacciare una relazione, da lei chiusa, ma da lui mai accettata. Né sarebbe comprensibile, se non in un tale soggetto, l’ulteriore, assurdo tentativo di distoglierla dal conseguimento della laurea, ormai imminente.

Un giovane, con questo profilo, fragile, problematico, non può e non sa accettare rifiuti, ostacoli e, meno che mai, la rinunzia alla parossistica volontà di possesso, di controllo estenuante dell’altro, che porta alla manipolazione.

“Un manipolatore di affetti, fatti e persone”, lo ha definito, infatti, la criminologa, Roberta Bruzzone.

Molto si è parlato, poi, di gelosia e frustrazione. E conveniamo che questi siano stati elementi fondamentali nella dinamica del delitto. Ci sembra, però, semplicistica e riduttiva l’interpretazione che vede Filippo agire sotto la spinta di una frustrazione, dovuta al fatto che la fidanzata giungesse alla laurea prima di lui. La frustrazione c’è, sicuramente, ma è di altra natura e agiva già dentro di lui dal momento della rottura della loro relazione. Si lega al temperamento del giovane, al tipo di amore che egli nutre per Giulia, fondato, appunto, sulla gelosia e sul sentimento nevrotico del possesso. E non si può escludere che alla frustrazione, derivante da questi sentimenti, non si sia aggiunta anche una reale sofferenza: il senso di vuoto totale per la perdita definitiva dell’ex fidanzata. Giulia, infatti, amava disegnare, voleva diventare illustratrice di libri di fumetti per bambini e aveva un progetto ben determinato: frequentare una scuola di fumettistica a Reggio Emilia. Dinanzi ai progetti della ragazza, Filippo più che depresso, come qualcuno ha detto, si sente represso, in quanto privato di quel controllo, finora esercitato su di lei. La sua ragazza andrà lontano da Padova. Andrà altrove e in quell’altrove non ci sarà più posto per lui. Una fuga, un tradimento, agli occhi di Filippo e lui, questo, non poteva assolutamente permetterlo. Per quel sentimento di gelosia ossessiva, parossistica, morbosa che lo divorava, non poteva accettare che lei uscisse alla luce, in piena autonomia, da quel circuito chiuso, buio, in cui, col suo pressing psicologico, aveva pensato di poterla tenere bloccata.

Dall’analisi del profilo dei due giovani alle riflessioni sulla loro relazione e sul tipo di amore che viene vissuto, all’interno di questa relazione, soprattutto, da Filippo, il passo è breve.

LA RELAZIONE. IL CIRCUITO CHIUSO

Proviamo ad entrare nel vivo di questa relazione Una relazione d’amore come un’altra, quella di Giulia e Filippo, ma forse solo apparentemente e magari agli inizi, quando, come tutti i giovani, vanno incontro alla primavera del loro amore con gioia ed entusiasmo. Essi, però, probabilmente la vivono, lo abbiamo appena accennato, come in un circuito chiuso: frequentano lo stesso corso di laurea, Ingegneria biomedica, nella stessa Università, quella di Padova, studiano spesso insieme, anche a casa. Inizialmente, l’amore riempie la vita dei due ragazzi, che si chiudono nel loro mondo, dal quale gli altri sono esclusi o quanto meno lontani dal loro orizzonte, figure sullo sfondo. E così deve essere, per Filippo, ma probabilmente non per Giulia.

Infatti, ad un certo punto, il circuito chiuso si interrompe. Spazio e tempo, vissuti fino a quel momento all’unisono, in piena sintonia, in perfetta simbiosi, non sono più gli stessi per entrambi. Lei sta per laurearsi ed è determinata a chiudere, una volta per tutte, questa relazione, già finita ad agosto, e a proseguire i suoi studi a Reggio Emilia. Dopo la rottura del fidanzamento, è un altro anello di una catena che si spezza. Lui ha ancora degli esami da sostenere. Vede nella laurea di Giulia e nel suo successivo allontanamento un addio alla ragazza che, nel suo amore nevrotico e possessivo, è stata al centro della sua vita, punto di riferimento unico, fondamentale. In questo suo amore distorto, il giorno imminente della laurea segnerà la rottura definitiva non solo della loro relazione d’amore ma anche del loro legame affettivo, un legame che, forse, egli sperava potesse anche permanere sotto altra forma, magari di semplice frequentazione o amicizia. Per chi ha vissuto l’amore come totalizzante la rottura non può essere definitiva. Questo non può e non deve accadere. Il tentativo di distoglierla dal presentarsi alla seduta di laurea è, per Filippo, l’ultima chance. E gioca, infatti, l’ultima carta, proponendole di accompagnarla allo shopping pre-laurea nel centro commerciale. È la trappola, il tranello, pianificato con lucida freddezza, come ritengono molti e come taluni indizi portano a sostenere o, in un primo momento, soltanto l’ultimo, disperato tentativo di non perderla e convincerla a non rinunciare a lui? L’ultimo appuntamento, sfuggito al suo controllo e degenerato in un litigio furibondo e in un delitto senza pietà, con le venti e più coltellate inflitte alla povera Giulia? È questo l’interrogativo terribile, il nodo che dovrà essere sciolto. Compito che, ovviamente, toccherà alla magistratura.

È evidente che questa nostra analisi non vuole ancorarsi a cavilli giustificativi perché nulla e nessuno potrà mai giustificare questo insano delitto. È soltanto il tentativo di capire cosa sia realmente accaduto in quella terribile sera del 10 novembre. Abbiamo cercato unicamente di scavare nel buio insondabile dell’io, in quel sottobosco oscuro nel quale si nascondono le nostre pulsioni, per quel poco che può emergere dalle sabbie mobili della coscienza.

AMORE TOTALE E AMORE TOTALIZZANTE

E a questo punto il nostro pensiero va ai giovani, ragazzi e ragazze, perché possano intendere l’enorme distanza che intercorre fra l’amore totale e l’amore totalizzante e sappiano tenersi lontano da quest’ultimo, che non può dare gioia, anzi procura sofferenza a chi lo gestisce come a chi lo subisce. Sul terreno in cui la gelosia ossessiva attecchisce e cresce, come gramigna, non sboccerà mai il fiore dell’amore. L’amore è dono di sé, non desiderio di possesso e meno che mai di annientamento dell’altro. Alle ragazze, soprattutto, vogliamo ricordare di non scambiare la gelosia per amore. “Mi ama veramente, sapessi come è geloso!”, confidano spesso, compiaciute, alle amiche. Nulla di più errato. Tenetevi lontano da questo tipo d’amore. A genitori ed educatori, poi, tocca il compito di insegnare ai giovani che nella relazione di coppia è importante che la donna non sia mai costretta a rinunziare alle sue aspirazioni, ai suoi progetti, alle sue possibilità di realizzazione, in una parola, alla sia libertà.

L’amore totale per la persona amata, infatti, è quello che ci fa desiderare che l’altro possa realizzare sempre tutti i suoi sogni, che non sia prigioniero dei nostri incubi o delle nostre ossessioni, in una parola, che sia libero e felice. Quando, invece, l’amore, da sentimento forte, che dona sicurezza, che offre protezione e certezze, nella condivisione di un progetto di vita, si trasforma in amore totalizzante, che sottrae e non aggiunge, che pretende e non offre nulla in cambio, finisce col rivelarsi come un amore malato. Un amore tossico, velenoso, che tarpa le ali alla persona amata. Dinanzi a questo amore oppressivo, l’altro fugge via, insofferente, e prende le distanze da questo sentimento che non dona felicità.

Nelle belle parole, scritte su un post dal padre di Giulia, terribilmente provato da questa tragedia, è racchiuso il vero significato dell’amore, totale e non totalizzante, l’amore coma valore e non come ossessione e morte.

Citando i versi di Gaia Maritan, egli scrive “L’amore vero non umilia, non delude, non calpesta, non tradisce, non ferisce. L’amore non picchia, non urla, non uccide”.

QUANDO L'AMORE DIVENTA FOLLIA

Questa è una storia che viene da lontano. Nasce, come si è visto, nell’atmosfera irrespirabile, derivante da un amore malato, fatto di gelosia, divieti ed imposizioni. In questo amore tossico, che avvelena entrambi i protagonisti, c’erano già un carnefice ed una vittima, ancora prima di quella sera del 10 novembre al Centro commerciale. Nell’amore paranoico del giovane, infatti, c’era già il desiderio inconscio di una forma di annientamento psicologico dell’altro e, quando l’altro fugge e non vuole più far parte di quel mondo soffocante, chi ama di un amore totalizzante cerca una forma di compensazione in gesti negativi. È un modo di pensare distorto, ovviamente, che tende all’annientamento non più soltanto psicologico, ma totale dell’altro. Ed è qui il preludio di quella tragedia della quale colui che è stato il regista di questa relazione ossessiva ha già segnato le tappe e l’ultimo atto, con l’orribile epilogo. Con o senza pianificazione. Nel desiderio di possesso, se l’altro sfugge a questo amore e ne prende le distanze, non resta che il ricorso alla sopraffazione, alla violenza, alla morte, come nei tanti altri casi di femminicidio. Non resta che l’ambiguità di un atteggiamento che potremmo definire storico, una vera e propria rappresaglia: “Se mi lasci la faccio finita, mi uccido” o il classico aut aut: “O mia o di nessun altro.” L’ambivalenza è tipica di queste due frasi. Nella prima, il ricatto, nella seconda, la minaccia dell’annientamento dell’altro. Tornando a ripensare ai vocali di Giulia, trasmessi da “Chi l’ha visto?” ce ne rendiamo perfettamente conto. In quella ricerca di un consiglio alle amiche, si nasconde la richiesta di un aiuto. La ragazza appare sola e smarrita, forse anche disorientata ed impaurita. “Vorrei sparire” e, nell’altro audio, “Vorrei che sparisse”. È l’eco di quegli occulti aut aut. In Filippo la trama dell’annientamento dell’altro. In Giulia il desiderio di non esserci più per lui, di reagire e liberarsi per sempre da questo amore soffocante che la disorienta e le devasta l’animo, il desiderio di andare incontro ai suoi sogni, ai suoi progetti di vita e respirare vento di libertà.

Un gesto folle, senza dubbio, quello di Filippo. Un amore totalizzante non costruisce. Distrugge se stesso. Ma, sia ben chiaro, definire folle il gesto non vuol dire che sia folle chi lo compie, come di solito invocano gli avvocati con le richieste di perizie psichiatriche, nel tentativo di ridurre la pena ai loro assistiti. Gesti folli, insani, la storia ce lo insegna, sono compiuti, spesso, anche da persone perfettamente sane di mente, quando “il sonno della ragione genera mostri”.

Nell’attesa del processo ci chiediamo, non senza sgomento, se, soprattutto per quanto concerne la premeditazione, si arriverà mai alla verità, quella ancora chiusa nei labirinti dell’io. Ci si può aspettare che Filippo Turetta ci racconti la verità, quella vera, che egli solo conosce, di quella terribile notte o avremo, piuttosto, anche qui, una manipolazione del vero, magari attraverso i suggerimenti della difesa? Pianificazione del delitto o pianificazione difensiva?

Noi ci auguriamo di cuore che Filippo possa trovare la via del riscatto, che sappia meritare, attraverso una confessione piena e un pentimento sincero, quel sentimento di commozione che, come noi in questo momento, può provare ogni altra madre, dinanzi ad un giovane di appena ventidue anni che, nel distruggere la vita dell’ex fidanzata, ha finito col distruggere anche la sua e quella dei suoi cari.

IL DISCORSO EDUCATIVO

Come già detto innanzi, abbiamo evitato di affrontare il discorso sotto il profilo politico per comprensibili motivi di spazio, ma anche per non scivolare verso facili strumentalizzazioni di una vicenda così triste che vede distrutte due famiglie e, sia pure in modo diverso, la vita di due giovani.

Non possiamo rinunciare, però, al discorso educativo, che più da vicino ci riguarda.

Ci limiteremo, tuttavia, all’essenziale e soltanto a qualche breve annotazione, ripromettendoci di sviluppare tali note in altro momento.

Partiamo, in premessa, dalle parole del padre di Filippo, Nicola Turetta, il cui dolore pur commuove e richiede rispetto e considerazione da parte nostra. Quando parla del figlio, al di là della descrizione che, come padre, ne fa e che noi abbiamo innanzi riportato, egli si chiede “Non so in che cosa abbiamo sbagliato (…) un figlio al quale abbiamo dato tutto quello che potevamo dare.” Estrapoliamo questa frase dal suo primo commento sui fatti, perché è qui il punto nodale del discorso educativo, è qui, proprio in queste parole, la chiave di lettura di quanto accaduto. Volendo limitarci all’essenziale e senza alcuna intenzione di infierire contro questi genitori, che tanto stanno soffrendo, o contro i genitori di oggi e di sollevare dubbi sulla qualità del loro rapporto con i figli, della loro capacità di dialogo e di confronto, rimandiamo il lettore a quanto abbiamo innanzi accennato circa quei modelli culturali e sociali dominanti. Quei modelli, che si fondano sul consumismo esasperato, sull’apparire, sulla gratificazione di un ego altrettanto smisurato, sono sicuramente da rivedere e superare. Riconosciamo che, in una società come la nostra, ciò non è facile e aggiungiamo soltanto che educare è compito arduo e ricade sulla famiglia e sulla scuola, che, insieme alla società, intesa come un complesso di relazioni, sono gli organi deputati alla formazione. Ciò, nella più stretta e costruttiva collaborazione. I fatti di cronaca più recenti ci dicono, invece, che questo rapporto, scuola-famiglia, oggi, è spesso terreno di aspra dialettica, quando non diventa addirittura di scontro aperto in cui si assiste anche a violenze inaudite, verbali e non solo, di genitori ed alunni contro i professori. Educhiamo, invece, ogni giorno, i nostri figli al dialogo e al confronto, pacato e sereno, cercando di essere per loro sempre un modello attivo e propositivo, senza mai dimenticare che dialogo e confronto sono componenti fondamentali nelle relazioni umane e sociali. Con “I no che aiutano a crescere” (come già anni or sono ci suggeriva Asha Phillips, autrice dello splendido libro così intitolato), facciamo in modo che essi si rendano conto, fin da piccoli, che la vita è fatta anche di ostacoli e che le difficoltà, che possono incontrare, oggi o nel futuro, non sono insormontabili, ma vanno superate con l’impegno  e la volontà. Ricordiamo loro che occorre obbedire alla ragione, ma anche al cuore. Educhiamoli all’affettività, ai sentimenti, alle emozioni, quelle positive, come quelle negative (gioie o dolori). Dinanzi ad esse devono sviluppare un senso di responsabilità per gestirle, metabolizzarle e, attraverso questo percorso, poter superare quei momenti difficili che la vita, prima o poi, potrà presentarci. Un medico, un giorno, in un dibattito televisivo, chiuse il suo discorso con parole che, da sole, potrebbero sintetizzare il compito dei genitori, dinanzi alle incognite della vita. “Non lasciate che i vostri figli vivano sempre in pianura, teneteli anche ai bordi del burrone, sull’orlo dell’abisso.” Conveniamo pienamente con questa metafora educativa ma, naturalmente, occorre anche, sorvegliare attentamente, in attesa che facciano le loro scelte e raggiungano, pur con qualche nostro suggerimento, consapevolezza e responsabilità. Soltanto così potranno assaporare il senso e il valore della libertà.

Anche il padre di Giulia, che ha commosso tutti e che tutti ormai chiamano papà Gino, ci offre un ultimo spunto educativo. Con le sue parole, ma soprattutto col suo esempio, ci ha mostrato come si può metabolizzare un dolore così grande e come si può trovare, proprio in questo dolore profondo, la forza di testimoniare e di lottare perché non si verifichino più tragedie come queste, perché non si vedano più tante lacrime sul volto e nel cuore di migliaia di persone, come è accaduto ai funerali di Giulia.

(Dicembre 2023)

Matrigna Rai

Pensieri ad alta voce

di Marisa Pumpo Pica

 

Matrigna Rai

 

Lottizzazione Repulisti Rottamazione o Epurazione?

 

Tanto rumore per nulla.

Per giorni e giorni, nei corridoi di Viale Mazzini, si è a lungo bisbigliato dei grandi cambiamenti ed innovazioni che avrebbero dato un diverso assetto al palinsesto, dopo il cambio di guardia con i nuovi vertici Rai. E, mentre i giorni passavano e le notizie si accavallavano, s’infittiva il mistero del nuovo palinsesto, dal quale sarebbero scomparsi nomi e programmi consueti, ma purtroppo ritenuti, forse, desueti, dal nuovo staff dirigenziale (Direttore generale, Amministratore delegato e company).

 

Il caso Fiorello

Su qualche testa già appariva certa la mannaia. Per qualcuno era probabile. Il destino di qualcun altro era in bilico, come nel caso di Fiorello

“Fiorello. Chi era costui?” si chiederebbe il povero Don Abbondio, timoroso perfino dei ciottoli che incontrava lungo il suo percorso. Figuriamoci dinanzi alle macerie di Mamma Rai, che lo avrebbero turbato ancor di più. Ma noi lo rassicuriamo subito. Rosario Fiorello appartiene, da anni, al mondo della Televisione. Uno bravo, sì, senza dubbio, ma, nessun timore, non è un Bravo, di manzoniana memoria, di quelli che con le loro minacce, le hanno procurato tanta paura. Un po’ di sicumera, un po’ di boria, un po’ di arroganza, come quelli, sì, ma sono piccoli difetti disseminati, anche questi un po’, dovunque nel nostro piccolo mondo e possiamo perdonarli a lui, come agli altri. Stia calmo, povero Don Abbondio. Non c’è ragione di temere. Sarebbero ben altre le cose da temere oggi.

Ci sono state fughe dolorose” ha dichiarato, contrito, l’AD, Sergio Rossi. Un eufemismo? Un venticello di ipocrisia? Un autogoal, che nasconde la grande voglia dei nuovi vertici (Rai e governativi) di produrre una scossa di assestamento, di fare, insomma, piazza pulita (anche in Rai come a La 7?).

Sono fuggiti, è vero, alcuni volti storici della Rai, come Fabio Fazio, Luciana Littizzetto, Lucia Annunziata, Bianca Berlinguer, che hanno rassegnato le dimissioni.  Ma lei lo sa bene, caro Don Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare. Quando si ha paura, si fugge...E se poi la paura è quella di non poter lavorare né esprimersi in piena libertà, la fuga si trasforma in una ritirata a gambe levate. Ma non tutti sono andati via. Ci sono anche quelli che al trasloco non pensano affatto, conduttori inossidabili, come le poltrone, alle quali restano saldamente e tenacemente attaccati, paghi di assaporare, felici, qualunque vento, vecchio o nuovo, spiri intorno a loro. Tranquilli, però, cari telespettatori. Abbiate fede. Come annunzia l’AD, ci saranno tanti altri nuovi programmi, talk show, spettacoli e fiction e molti altri giovani talenti. Un nuovo fronte della gioventù per una Tv di informazione e di formazione? Avremmo voluto chiederlo, ma non eravamo presenti alla conferenza stampa per il nuovo palinsesto Rai. L’abbiamo seguita, tuttavia, dagli schermi televisivi, dove sono apparsi molti “confermati” e raccomandati, gongolanti per non aver subìto la rottamazione Tra questi, una scintillante Milly Carlucci che, anche per il prossimo anno, proporrà sicuramente il suo “Ballando con le stelle” con il groviglio di polemiche assordanti dei giurati, fra loro e con i concorrenti, magari con qualcosa in più, come nella stagione appena trascorsa, che ha segnato anche uno strascico giudiziario, relativo alla contestata validità dei conteggi finali, per l’elezione del vincitore della kermesse. Ma tant’è… D’altra parte “Ballando con le stelle” è suo in tutti i sensi perché pare, se ci hanno ben informati, che lei ne sia anche produttrice (con probabile rigonfiamento degli introiti, come per qualcun altro). Tra l’altro dovremo forse sorbirci anche quell’effimero e melenso “Cantante mascherato”, nonostante il forte calo di ascolti, registrato nella stagione che si è appena conclusa.  

Nel nuovo palinsesto, come si è accennato, resta, invece, in bilico Fiorello, con il suo “Viva Rai 2”, da molti acclamato e pluripremiato quale migliore spettacolo televisivo dell’anno. Il programma si annunciò, prima ancora di partire, tra polemiche e lamentele, come un fulmine a ciel sereno per alcuni giornalisti dell’informazione che, considerata la fascia oraria, si vedevano scalzati da un programma che li avrebbe “surclassati”, anticipando i loro sevizi notizie. Nel clamore generale, lo prese in carico Rai 2.

Dunque “Viva Rai 2” nasceva in un orario scomodo, alle 7 e mezza del mattino, in Via Asiago e tuttavia quegli elementi, che sembravano di segno negativo, ne decretarono, invece, il successo. Noi lo abbiamo seguito nella replica serale su Rai 1 e ci sentiamo di dire che non ci è apparso di quel livello tanto esaltato da tutti. Vi abbiamo ritrovato il Fiorello di sempre, con la sua arguzia e la sua ironia, alimentate, più che in altre occasioni, da urla, suoni e schiamazzi mattutini. E qui veniamo al punto, ovvero alle ragioni per le quali non figura nel nuovo palinsesto, nonostante la dichiarazione dei Dirigenti di volerlo “a tutti i costi”. I condomini di Via Asiago si sono ribellati protestando vivacemente ed invocando pulizia per la loro strada e quiete per le loro giornate. Si è bisbigliato, nei corridoi e negli uffici Rai, di un indennizzo per ridurre al silenzio i condomini agguerriti. Quando si vuole si può...ma qui proprio non si poteva... La Rai è un servizio pubblico e non si possono prevedere indennizzi ai privati con i soldi pubblici. Fiorello voleva a tutti i costi Via Asiago e nessuna diversa location, ma, dinanzi alle reiterate proteste del Comitato “Liberiamo Via Asiago” ha dovuto cedere, accettando, se si farà, un’altra sede e i vertici Rai stanno pensando già ad un’altra strada o piazza. Il tutto si è concluso con le sue scuse ai condomini di Via Asiago.

Ma, caro Fiorello, tu, che sei un fiore del nuovo campo verde della Rai, perché non ti fai assegnare uno studio bello e confortevole, come quello che hanno riservato a Nunzia De Girolamo per il suo “Ciao maschio”, uno studio che, ad ogni nuova stagione, si amplia e si arricchisce? E perché non farti riservare, anche tu, come gli altri “confermati” che si rispettano, una bella poltrona con borchie inossidabili? Ed ora un suggerimento. Il programma, per ripetere il successo, potrebbe intitolarsi “Viva Matrigna Rai”.

In ultimo, un consiglio. Le strade, le piazze lasciale a quelli che vogliono protestare, se ne sentono il bisogno, per le cose che non vanno.  

Tanto rumore per nulla, caro Don Abbondio, ma forse per nulla proprio no. Siamo dinanzi ad una rivoluzione. È morta Mamma Rai. L’hanno sepolta in questi giorni e si è insediata Matrigna Rai e, come nelle vecchie favole, la Matrigna, spocchiosa ed arrogante, vuole che non si parli più della vecchia Mamma Rai né dei suoi protagonisti. C’è stata troppa lottizzazione. In suo luogo sarà opportuna una buona rottamazione. Un repulisti, come qualcuno ha sottolineato. Una epurazione? Forse sì. Lasciamo scegliere al lettore il termine giusto. Come sempre. Per una buona pulizia bisogna ripulire ogni angolo, diceva una vecchia domestica. Ma non lo diceva anche Stalin?

Un’osservazione conclusiva, non senza amarezza, non possiamo non farla.

I libri, oggi, si scrivono in gran quantità, ma si vendono molto poco e si leggono ancor meno. Anche i giornali si vendono molto poco e si leggono ancor meno. In compenso alcuni giornalisti, per fortuna non tutti, si lasciano vendere e comprare. Altri vanno via in “fughe dolorose”. Tutto rientra nei piani di Matrigna Rai.

(Luglio 2023)

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