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SEGNALIBRO a cura di Marisa Pumpo Pica   Storie che si biforcano – Wojtek Edizioni di Dario De Marco   Siamo ben lieti di occuparci, dopo molti...
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Hello Napoli

Hello Napoli

 

di Mariacarla Rubinacci

 

   Anya, dai capelli ramati, l’incarnato candido come porcellana, gli occhi del colore terso del cielo dell’Irlanda, con un volo diretto Dublino - Genova aveva raggiunto la nave da crociera, che l’avrebbe portata a Napoli.  La tappa tanto sospirata era ormai all’orizzonte. In prossimità del porto, la nave avanzava lentamente, le eliche schiumavano le acque calme dell’approdo. Affacciata al balcone del ponte su cui era la sua cabina, Anya sentiva il brivido della brezza della sera che le sfiorava le labbra e l’odore salmastro che le invadeva le narici, mentre le luci di Napoli filtravano attraverso le tende della finestra. Si era preparata a visitare la città. La cultura di cui si era alimentata era imbevuta di racconti fiabeschi, di leggende degli antichi Celti dove incantesimi trasformavano i figli del sole in cani per sorvegliare la casa del gigante. Ma lo studio di architettura all’Università le aveva fatto conoscere le chiese della Napoli Sacra e si era sentita rapita dal fascino dello stile barocco con la ricchezza dei suoi stucchi. Tra i monumenti che aveva studiato, le chiese, che le apparivano tanto differenti dalle austere cattedrali irlandesi dalle pareti in pietra e dalle guglie così alte da volere sfidare il cielo.

   Era scossa da un forte brivido di emozione. Per un’intera giornata, dal mattino dello sbarco fino alla sera, al rientro sulla nave, avrebbe visitato la città. Vista dal mare, Napoli le appariva come un libro illustrato per bambini, dove i pop-up si alzano dalle pagine per affascinare. La maestosità  del castello di Sant’Elmo sembrava volesse abbracciarla, il rosso pompeiano della Reggia di Capodimomte le invadeva lo sguardo, mentre i palazzi moderni, arrampicati sulla collina del Vomero, le facevano immaginare tanta vita.

   L’escursione era iniziata dalla piazza di San Domenico Maggiore. Svoltando a destra, ecco il palazzo di Sangro di Sansevero, dove aveva abitato il principe alchimista e scienziato che aveva lasciato alla vista dei visitatori i suoi esperimenti sul corpo umano. Il Cristo Velato le aveva imposto la necessità di pregare.

   Si era avviata, poi, tra i vicoli e le strade tortuose, che risalgono la collina come serpenti striscianti. Aveva fermato lo sguardo sulle alte facciate dei palazzi d’epoca che la guardavano come volti resi rugosi dagli intonaci scrostati da dove occhieggiava il tufo giallastro. Molti momenti di vita quotidiana le avevano offerto lo spettacolo gratuito di uno scenario ammaliante e nuovo per i suoi occhi. Una giovane donna incinta poneva nella borsa della spesa un cartoccio, grondante di pesciolini guizzanti e lucenti come l’argento, più in là un garzone era attento a non far cadere il vassoio su cui erano in bilico tazzine di caffè fumante. Mentre arrancava lungo la salita, una voce alle sue spalle l’apostrofò : “ Siete fortunata signorì che non piove, vedete, le saittelle sono appilate, quando piove qui scorre la lava…”  Le era sembrato un canto, ne aveva percepito il suono, ma non le parole.

   La giornata volgeva ormai alla fine, la guida le aveva fatto anche assaggiare la famosa pizza, tanto amata da tutti e dai turisti, che solitamente si vantano di conservarne ancora il sapore. La magia della città aveva incantato la giovane irlandese. Il cielo si stava tingendo del rosso del tramonto, il golfo era striato dalle scie delle barche, che rientravano verso il porto di Mergellina, sulla collina si accendevano le luci alle finestre dei palazzi. Sembravano lucciole nella notte. Appoggiata al parapetto del balconcino della cabina, Anya salutava la città. Il transatlantico volgeva la prua al largo. Immaginava che anche la città la stesse salutando con una leggera brezza che le scompigliava la chioma color del rame, mentre la luna, qui “sempre piena e sempre tonda”  spargeva l’argento fra le onde.

   Sulle labbra una tremula parola : “ …ritornerò…

(Ottobre 2020)

Federico Fellini, realista e visionario

Federico Fellini, realista e visionario, di Luigi Mazzella

 

di Luigi Alviggi

 

Il sottotitolo del libro recita: “L’armoniosa complessità di un genio del cinema”. Definizione sintetica ma perfetta che ben si sposa alla seconda parte del titolo nel definire l’uomo e il carattere di Federico Fellini (Rimini,1920 – Roma,1993), uno dei più grandi registi italiani del quale ricorre quest’anno il centenario della nascita. La caratteristica della produzione – 22 film - è stata la capacità di partecipare fantasie e sogni personali - affollanti l’irrazionale di ogni essere umano –, accomunandoli in un patrimonio visivo godibile per la stragrande maggioranza degli spettatori. Gli aspetti più impressivi delle sue opere si agganciano a quel fondo, misterioso e affascinante, che si adagia sopito dentro ciascuno, animandosi quando, adeguatamente stimolato, trova modo di svelare la sua esistenza. Un’altra delle grandi doti di questo Maestro indiscusso è stato il saper trasfigurare i minimi ricordi, giovanili e non, per fare di essi la direttrice di una affascinante condivisione dell’epoca e del contesto sociale relativi, riportati in immagini di rara efficacia.

Luigi Mazzella, scrittore di narrativa e di saggi in vari campi, è uomo poliedrico avendo rivestito vari e importanti incarichi pubblici al massimo livello. Questo lavoro approfondisce con precisa ampiezza di dettagli l’opera del Maestro, fornendo una sintesi del complesso panorama artistico.

Il fiabesco è l’antidoto felliniano indispensabile per sfumargli dentro una nostalgia, impossibile da dominare. Sua costituente principale il non esser più un ragazzo, malessere che la sindrome di Peter Pan ha poi generalizzato per tanti. A riguardo, l’estrema dolcezza della poetica elegiaca di “Amarcord” (1973) - in una Rimini grondante memorie degli anni ’30 mai impallidite, sature di rimpianti e amori - è forse il vertice. Poi ancora, nostalgia di essersi allontanato (fuggito?) per presunzione, magari mai perdonata nell’intimo, dai luoghi che l’hanno visto felice come lo si può essere solo nella prima gioventù, irripetibile negli anni a seguire. Per questo aspetto citiamo “I vitelloni” (1953), soprannome che, nella zona, indica i giovani che passano al meglio i giorni nullafacenti. Nel film, l’odissea dell’incoerente Fausto – un alter ego perfetto - e la fuga verso un diverso futuro di Moraldo, unico tra i cinque capace di osare tanto (lo stesso Fellini?) proietta sullo schermo gli aspetti celati di un uomo che non ha ancora trovato se stesso.

Il Mazzella individua sagacemente, nella vena ispiratrice del regista, tre momenti con fonti ben distinte. Il primo - quello delle produzioni iniziali (1950-57) - contraddistinto dalla maggiore comunione sociale e relazionale del soggetto. Il giovane non si è ancora chiarito l’universo interno e rivolge maggiore attenzione al circostante: è la presa di coscienza graduale, da parte del provinciale arrivato a Roma, della vita e dei suoi attori nel girone capitolino. Sarà il periodo delle salutari scoperte. legate alla maggiore disponibilità e apertura verso l’esterno. Il secondo è quello dei capolavori (1959-64). L’uomo si è conosciuto, avverte meno la necessità del collettivo ma si volge piuttosto ad approfondire le geniali impronte personali. È incoraggiato ad attingere alla smisurata creatività, pur non svalutando il debito inestinguibile verso gli apporti sociali. È la fase della migliore fecondità, ancora lontana da quelle divagazioni, pur sempre testimonianza di arte ai più alti livelli, lontane dal comune sentire e dunque obbliganti a un’assimilazione più analitica. La terza fase si avvicina fortemente alla “commedia dell’arte” per tecnica di improvvisazione e afflato creativo, che svicola o addirittura trascende i limiti di una sceneggiatura per lasciar campo libero alla situazione in sviluppo e agli attori che in essa agiscono. È quanto accadeva con i grandi comici del passato, per citarne solo uno, sommo: Totò. Coll’avanzare degli anni tali impulsi divengono sempre più forti sino a prendere il sopravvento e giungere alle dinamiche imprevedibili delle ultime realizzazioni: “L’intervista” (1987) e “La voce della luna” del 1990.

L’“arzdora” romagnola, la “reggitrice della casa” non è una figura esplicita nel raffinato mondo felliniano ma certo implicita nell’elemento femminile dominante in ogni suo prodotto. Ricordiamo che Fellini – uomo non esempio di fedeltà coniugale - è stato sposato con la straordinaria attrice Giulietta Masina (1921 – 1994). Moglie e musa insostituibili, hanno accomunato intimamente tantissimo: insieme per mezzo secolo di matrimonio e sette film girati.

Nel marzo 1993 Sophia Loren e Marcello Mastroianni – nella cerimonia di proclamazione degli Oscar sul palco del Kodak Theatre a Hollywood - annunciarono a Fellini la vittoria dell’Oscar alla Carriera. Sullo schermo retrostante apparvero le parole: “L’unico vero realista è il visionario”, pilastro della parabola artistica, confermato in ogni espressione professionale dallo stellare regista. La mescolanza di sogno e realtà ha imbevuto nell’intimo la sua vita e produzione. Fu il quinto Oscar ricevuto dopo i quattro precedenti dati a suoi film come miglior film straniero: “La strada” (1957), “Le notti di Cabiria” (1958), “8½” (1964), “Amarcord” (1975).

Fellini sarebbe morto a Roma il 31 ottobre successivo, la Masina l’avrebbe seguito a breve.

                                                                                    

Luigi MAZZELLA: Federico Fellini, realista e visionario

Prefazione di Antonio Filippetti

Istituto Culturale del Mezzogiorno, 2019 – pp. 128 - € 30,00

 

(Ottobre 2020)

Il Papa prega

Il Papa prega per i giornalisti

 

di Luciana Alboreto

 


6 maggio 2020: dalla Cappella di Santa Marta giunge la preghiera del Pontefice ai Giornalisti. Papa Francesco, evidentemente provato per l’attuale gravità dell’emergenza sanitaria mondiale, dona continuamente momenti di elevata spiritualità, confortando e sostenendo, attraverso le sue celebrazioni ed i suoi interventi mediatici, un’umanità sconvolta dalla pandemia. Sempre intellettualmente aperto ed accogliente, tenero nelle espressioni ma fermo nelle posizioni, stanco nel volto ma disponibile a sovraccaricarsi di impegni, il Pontefice veglia con la sua presenza sulla collettività, affinchè nessuno smarrisca il filo saldo della Fede o si disorienti nel rispetto delle regole dettate dal Governo. Dall’inizio del lockdown, la sua preghiera di affidamento al personale sanitario è stata costante, sempre ricca di gratitudine per tutti coloro i quali, in prima linea, curano i malati di coronavirus, al punto di sacrificare la propria vita. Ed oggi le sue parole di elogio e speranza si sono rivolte alla categoria dei Giornalisti ai quali, anche in passato, ha più volte espresso stima per un lavoro di grande responsabilità, che merita ogni riguardo sociale ed umano. “Preghiamo oggi per gli uomini e le donne che lavorano nei mezzi di comunicazione. In questo tempo di pandemia rischiano tanto e lavorano tanto. Che il Signore li aiuti in questo lavoro di trasmissione sempre della verità”. Sempre sua questa dichiarazione passata che, si ricongiunge, perfettamente, all’attualità. “Il giornalista umile è un giornalista libero. Libero dai condizionamenti, libero dai pregiudizi e per questo coraggioso. La libertà richiede coraggio. Abbiamo bisogno di un giornalismo al servizio del vero, del bene, del giusto, che aiuti a costruire la cultura dell’incontro”. Nello scorso febbraio, all’imprevedibile vigilia della pandemia, l’Unione Cattolica della Stampa Italiana aveva elaborato il testo, “Le Beatitudini del giornalista”, mai come ora un decalogo imprescindibile, cui riferirsi, nella comunicazione.

BEATO IL GIORNALISTA CHE…

  1.  Non cerca il successo o l’interesse personale e che al centro del racconto non mette mai se stesso;
  2. che non si nasconde all’ombra del potere, ma è voce di chi non ha voce, occhi di non vede, orecchie per chi non è ascoltato da nessuno;
  3. che non alimenta paure e chiusure, ma nutre fiducia e speranza;
  4. che non si accontenta di notizie scritte a tavolino;
  5. che ascolta la coscienza e non tarpa le ali alla libertà;
  6. che denuncia tante cose che non vanno, per rendere la vita migliore;
  7. che cerca sempre la verità e mai il compromesso, anche quando c’è un prezzo da pagare;
  8. che ama la pace e la giustizia e che diventa sale, lievito e luce di comunità;
  9. che riesce a raccontare buone notizie che generano amicizia sociale;
  10. che è un artigiano della parola, ma conosce il valore del silenzio.

(Maggio 2020)

Leonardo Pica

Leonardo Pica

IL MONDO E’ DEI BAMBINI

(CHE POI DIVENTANO GRANDI)

Cosmopolis Edizioni Napoli


di Luciana Alboreto

 

Si vive e ci si lascia vivere facendo fluttuare, rapidamente, il vortice degli eventi che scandiscono, nel tempo, le nostre routinarie abitudini. La razionalità, la concentrazione, la determinazione prendono il sopravvento sulla sfera emozionale, perché la vita ogni giorno ci presenta un conto da saldare, per non soccombere. Il desiderio di soffermarsi e di idealizzare resta a lungo sopito nei meandri dell’anima. Non c’è tempo per sognare.

Improvvisamente e, per un imperscrutabile motivo, ci si può fermare. Accade qualcosa che lo consente e si può mettere tutto in discussione.

E’ quanto si è verificato nel corso dell’attuale emergenza sanitaria mondiale.

Nella solitudine della pandemia in molti si sono smarriti e disorientati, altri si sono ritrovati e ritemprati nel silenzio, alcuni, come l’autore del libro, il magistrato napoletano Leonardo Pica, si sono immersi in riflessioni profonde, interrogandosi su come potrebbe germogliare un mondo nuovo dalle ceneri di un disastro globale.

Un mondo nuovo, immaginato dall’autore, popolato solo di bambini, unici superstiti della veemenza di un virus letale. Come si formeranno senza la guida maestra degli adulti che ne curino educazione, istruzione e spiritualità? Cresceranno sognatori o inariditi dall’imprevedibile intreccio delle vicende umane? Sapranno gestire e discernere la dicotomia tra il bene e il male? La generosità e l’altruismo vinceranno sull’egoismo e sull’insana prevaricazione? L’amore puro trionferà o sarà minacciato dall’ombra del tradimento?

Dell’uomo rispondono la sua natura e volontà interiore. Sarà homo faber fortunae suae oppure homo homini lupus nel divenire di un nuovo corso storico? E’ scritto nella legge della vita l’arbitrio di volgere al bene l’intelligenza ed ogni capacità. Si potrà vivere come immersi in una favola, se ne potranno prendere secolari distanze o si potrà affermare che le favole non esistono.

«Non lo so, disse Peter Pan, l’uomo è sempre stato malvagio, ad ogni latitudine, in qualunque epoca, con tutti i regimi. E’ qualcosa a cui dobbiamo rassegnarci. Io non posso farci niente. E neanche tu. So anche, però, che ci sono sempre state, e ci sono anche tra noi, tante persone generose ed altruiste. Seguendo il loro esempio, il mondo si salverà. Anche noi finora siamo sopravvissuti aiutandoci l’un l’altro. Questa è l’unica cosa che so».

(Luglio 2020)

La grande Illusione

 La grande Illusione

 

di Alfredo Imperatore

 


Marx ed Engels hanno formulato una dottrina che rappresenta l’evangelo dei “protestanti comunisti”.

Questa dottrina prese l’avvio dal pensiero che si venne a formare nella cosiddetta “sinistra hegeliana”, il cui più notevole pensatore fu Federico Feuerbach. Materialista ad oltranza, egli tentò di distruggere ogni forma metafisica di pensiero ed ogni ideologia nella storia della sua evoluzione, proponendosi “di porre l’uomo sui propri piedi, mentre prima era stato posto sulla testa”.

Nel determinare la sua dottrina, attaccò la religione che disse destinata a essere soppiantata dalla filosofia, la quale, a sua volta, doveva cominciare ad avere un unico compito: quello di “mondanizzare l’idea”, di trasformarsi in antropologia. E inasprendo la sua teoria, schiettamente materialistica, giunse a scrivere: “La teoria degli alimenti è di grande importanza etica e politica. I cibi si trasformano in sangue; il sangue in cuore e cervello, in materia di sentimenti e pensieri: l’alimento umano è il fondamento della cultura e del sentimento… L’uomo è ciò che mangia”.

Per questa strada, aperta da Feuerbach, Marx ed Engels proseguirono, andando ben oltre il punto raggiunto dal loro maestro.

Essi sostennero che la religione rappresenta per gli uomini una forma di “autolacerazione, di autoalienazione in un regno fissato nelle nuvole”.

Abolizione della religione, quindi, anche perché “La rivoluzione comunista è la più radicale rottura con i rapporti tradizionali di priorità; nessuna meraviglia che nel corso del suo sviluppo si rompa con le idee tradizionali nella maniera più radicale”. Essi vollero andare oltre anche su di un altro punto fondamentale della teoria del Feuerbach. Questi si era limitato a interpretare il mondo, mentre a loro avviso il problema era quello di mutarlo completamente.

Così, mentre per Feuerbach l’uomo, considerato quale individuo singolo, rientrante nella società umana, è legato da vincoli naturali agli altri individui, per Marx ed Engels gli unici vincoli che ci legano sono quelli del lavoro, in quanto l’uomo è essenzialmente “prassi produttiva”.

Attraverso questa concezione Marx arrivò al cosiddetto materialismo storico. Per lui il fattore determinante della storia di un popolo e di tutti i popoli in genere è dato dall’attività economica, ovvero dalla produzione dei beni materiali, per cui l’unica cosa che distingue gli uomini dagli altri animali è il fatto che essi producono da sé medesimi i loro mezzi di sostentamento.

Quanto a moralità e religione, arte e scienza, diritto e politica, questi sistemi rappresentano solo degli accessori nell’evoluzione dell’umanità e sono il riflesso dell’unica genuina realtà umana: la struttura economica. Pertanto le suddette ideologie non sarebbero altro che sovrastrutture.

Questa concezione marxista, che costituisce una vera e propria mutilazione dell’uomo e di tutta la sua storia, apparve eccessiva allo stesso Engels, il quale cercò di mitigarla. Infatti, in un suo scritto affermò: “La situazione economica è la base, ma i differenti elementi della sovrastruttura sono creati dalle varie classi a battaglia vinta”.

Ora, in breve, cerchiamo di valutare il significato economico e morale della dottrina comunista-marxista. Per Marx la storia umana può essere distinta in quattro epoche: la patriarcale, l’epoca della schiavitù, quella feudale e quella capitalistica.

In queste varie tappe si è assistito ad un aumento progressivo della ricchezza disponibile per l’uomo in conseguenza dei miglioramenti tecnologici e per uno sfruttamento razionale della natura; ma, d’altro canto, è venuto restringendosi sempre più il numero delle persone alle quali questa ricchezza è stata distribuita, col conseguente aumento del numero dei poveri.

Per illustrare in qual modo il capitale sia andato accumulandosi nelle mani di poche persone, Marx espose la teoria del plusvalore.

Per comprensibili motivi non entriamo nello specifico di tale teoria. Semplificando al massimo, ci limitiamo a dire soltanto che il lavoratore ha il diritto di ricevere una retribuzione pari al lavoro necessario per trasformare la materia prima in prodotto finito. Ne consegue che il valore effettivo di un determinato prodotto deve essere commisurato alla quantità del lavoro che esso richiede. Quindi, se un operaio lavora 10 ore al giorno, la paga che l’imprenditore deve corrispondergli dovrà essere l’equivalente di 10 ore, ma, trovandosi dinanzi ad una sovrabbondanza di mano d’opera, egli retribuisce l’operaio ad un prezzo inferiore. A tal proposito si legge nel Manifesto: “Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario del lavoratore. Dunque quello di cui l’operaio si appropria mediante la sua attività è sufficiente soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza”.

In altre parole, se un determinato oggetto richiede 10 ore di lavorazione e l’imprenditore, invece, impone all’operaio una paga di 6 ore, egli lo defrauda di 4 ore di lavoro. Queste ore lavorative non pagate costituiscono il profitto dell’imprenditore, cioè la defraudazione che riceve l’operaio. Questo profitto, ovvero questo plusvalore, corrisponde alla quantità di lavoro non retribuito. Un vero furto ai danni dell’operaio. La sovrabbondanza della mano d’opera determina anche una spietata concorrenza che i capitalisti, a loro volta, si fanno reciprocamente, per cui, secondo le previsioni di Marx, le piccole imprese sono destinate a soccombere e ad essere assorbite dalle imprese più potentemente attrezzate.

Inoltre, con il progresso produttivo, occorrono strumenti sempre più complessi e costosi, talché si restringerà vieppiù il numero delle aziende che ne possono disporre. Ciò porterà all’accumulo del capitale nelle mani di una ristretta minoranza e, parallelamente, intensificherà lo sfruttamento della classe lavoratrice, con conseguente impoverimento e disoccupazione dell’operaio, che diviene proletario. La sua unica ricchezza, infatti, è la prole ed il salario gli consente il minimo indispensabile per la sussistenza sua e dei figli.

Al culmine di tutto ciò scaturirà inevitabilmente quella rivoluzione da lui preconizzata. Quando lo sfruttamento del proletariato,  da parte della borghesia. avrà toccato l’acme, sarà ineluttabile l’urto tra le due classi ed esso porterà all’espropriazione degli espropriatori.

Questo, ben s’intende, avverrà in modo cruento e sanguinoso. “I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti solamente col rovesciamento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno che da perdere le loro catene: hanno un mondo da guadagnare”.

Inoltre, l’abolizione della proprietà privata porterà, di conserto, all’abolizione della società in classi.

Ma l’errore sta proprio nel fatto che si è voluto guardare solamente agli effetti negativi della concorrenza e non al lato positivo, anch’esso molto importante, in quanto la concorrenza porta a un miglioramento del prodotto, a una maggiore produzione, al calo del suo costo, alla maggiore vendita e quindi al maggiore impiego di mano d’opera.

È certamente questo il motivo per cui l’URSS, mentre competeva con gli Stati Uniti d’America per la conquista degli spazi interplanetari, non riusciva a costruire delle utilitarie, a un prezzo accessibile ai suoi cittadini!

Il datore di lavoro tenta sempre di migliorare le condizioni dei suoi operai per migliorarne il rendimento e lo stesso operaio non vedrà costantemente nella borghesia uno spietato despota, perché egli stesso spera di divenire, migliorando, un borghese.

Sta di fatto che le classi non potranno mai essere eliminate, perché, se ciò avvenisse, si formerebbero nel loro seno miriadi di altre classi e conseguenti corporazioni, ciascuna per un determinato tipo di lavoro, dall’artigiano all’operaio, dal medico all’avvocato, etc., capaci di provocare, a loro volta, lacerazioni forse ancora più profonde fra i membri della comunità.

E …  si sarebbe potuto riflettere con queste discussioni accademiche ancora per molto, se un uomo geniale, tuttora in vita, Micail Gorbacev, non fosse comparso sulla scena politica. Questi, da studente universitario, si iscrisse al Partito Comunista dell’Unione Sovietica e, attraverso una rapida carriera, nel marzo del 1990 venne nominato Presidente dell’Unione Sovietica.

Con lui il mondo occidentale conobbe due parole russe di grande importanza: perestrojka = riorganizzazione politico-economica e glasnost = libertà di espressione, tanto che, nell’ottobre di quello stesso anno, gli venne attribuito il Premio Nobel per la pace.

Nel dicembre del 1991, attraverso complesse vicende, rassegnò le dimissioni da Capo di Stato. Ma, ormai, già si era avuto l’allentamento della presenza militare sovietica nell’Est europeo, che fece risvegliare i sentimenti di indipendenza nelle repubbliche dell’URSS e nei paesi satelliti.

Il risultato di tutto ciò fu l’aumento della migrazione di centinaia di migliaia di tedeschi dalla cosiddetta “Repubblica Democratica” verso Ovest, la qual cosa portò, nel novembre del 1989, all’abbattimento del “muro di Berlino” e, con esso. all’affermazione di governi non comunisti nell’Est europeo, all’unificazione delle “due Germanie” e quindi alla vera libertà, quella libertà dei popoli, tanto auspicata dal marxismo-leninismo e dalla quale rifuggivano tutti coloro che l’avevano provata e assaporata.

Finì finalmente un’impossibile uguaglianza tra tutte le genti del mondo, ove nessuno può distruggere la propria storia nel sogno di una … grande illusione.

(Maggio 2020)

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