La caduta del Forte di Vigliena
di Antonio La Gala
Uno degli episodi militari che portarono alla caduta della Repubblica Partenopea del 1799, fu la distruzione del Forte di Vigliena.
Esso era sorto agli inizi del Settecento e costituiva un’isolata difesa sul lato orientale della città.
Era una costruzione di forma pentagonale, meglio attrezzata per la difesa verso il mare su cui prospettava con mura chiuse, fiancheggiate da bastioni e cannoni di grosso calibro, puntati verso il litorale.
Il Forte di Vigliena visse il suo momento di gloria - e di sangue - nel giugno del l799, quando le truppe del cardinale Ruffo, provenienti dalla Calabria, puntarono verso l’espugnazione di Napoli, per cacciarne i giacobini repubblicani.
Il forte, uno degli ultimi ostacoli per la presa della città, era difeso da 150 rivoluzionari della Legione Calabrese Repubblicana, comandati dal prete calabrese Antonio Toscano.
Allo spuntare dell’alba del 13 giugno fu assaltato dagli uomini di Ruffo: verso l’una di notte, quando questi già erano penetrati nella roccaforte, saltò in aria la polveriera.
Un fulmineo, intenso chiarore squarciò il buio della notte, accompagnato da un fortissimo boato. Nell’esplosione morirono tutti, vinti e vincitori, affratellati anche nella morte, visto che si trattava, da una parte e dall’altra, di combattenti quasi tutti provenienti dalla Calabria.
Gli studiosi non sono concordi se attribuire lo scoppio ad un errore dei difensori che, dopo aver minato il forte, non fecero in tempo ad uscirne, oppure a un deliberato gesto del comandante Toscano o, infine, all’infuriare della battaglia.
Non è facile dire veramente come andarono le cose. A qualcuno è sembrata apologetica verso i giacobini la versione di Pietro Colletta, secondo la quale il prete Antonio Toscano, comandante della guarnigione, animato dallo spirito degli Eroi delle Termopili o emulo di Pietro Micca, quando si rese conto che il forte era stato conquistato dagli avversari, si trascinò eroicamente, benché gravemente ferito, fino alla polveriera, dandole fuoco, per distruggere i nemici che vi erano penetrati.
Ferdinando, il re restaurato dalla vittoria del cardinale Ruffo, fece restaurare anche il forte, che poi, di fatto, è stato fatto sparire, definitivamente, alle soglie dei nostri giorni, dal disinteresse per le memorie storiche e dall’incuria.
(Giugno 2021)
Miti napoletani di oggi.88
IL CARRO-ATTREZZI
di Sergio Zazzera
Nato per gl’interventi di soccorso stradale (anche chi scrive queste righe ha dovuto farvi ricorso in più di qualche occasione), il carro-attrezzi fu adottato, già nella seconda metà del secolo scorso, da diversi Comuni, come mezzo per la rimozione di veicoli che causavano intralcio alla circolazione (leggi, in maniera particolare: sosta in seconda o, magari, anche terza fila).
Tra i Comuni che se ne dotarono vi fu anche Napoli e i proventi degl’interventi incrementarono le entrate della cassa comunale. Poi, a un bel momento, i carri sparirono e si disse che il loro invecchiamento li aveva resi inutilizzabili.
Ora, da alcuni giorni, il servizio è stato ripristinato dal Comune di Napoli, con l’impiego di un parco di venticinque veicoli, tre dei quali sostano in piazza degli Artisti: e a dare l’idea del mito è proprio il verbo (“sostano”) che ho adoperato. Tutt’intorno alla piazza, quando sono passato io, c’erano auto in sosta selvaggia, proprio sotto agli occhi dei conducenti dei carri-attrezzi, i quali se ne stavano, beati, a discutere fra loro, in attesa di non si capisce che cosa. Ditemi, dunque, se non è falso linguaggio affermare – come fa il Comune di Napoli sul suo sito Internet (https://www.comune.napoli.it/verificarimozione) – che «sono operativi i carri attrezzi pronti a intervenire in tutte le zone di Napoli per contrastare i fenomeni delle doppie file e della sosta selvaggia (corsivi miei), per impedire i parcheggi nelle aree pedonali o su posteggi e scivoli per le persone con disabilità».
(Giugno 2021)
La Galleria Vittoria
di Antonio La Gala
Le librerie e le bancarelle di Napoli espongono numerosi libri, di vario livello, che raccontano i fasti dei maggiori teatri antichi della città (il San Carlo, il San Carlino, il Fiorentini, il Bellini, il Mercadante, ecc.), spesso riciclando le stesse informazioni nel copiarsi a vicenda.
Ma nello scenario dello spettacolo napoletano del passato esistevano pure altre sale, rimaste meno note.
Il periodo d’oro delle sale da spettacolo fu quello della bella époque, a cavallo fra Ott e Novecento, in cui, accanto ai veri e propri teatri, grandi e piccoli, sorsero alcune strutture sui generis che, assieme a rappresentazioni teatrali, ospitavano anche altri tipi di spettacoli.
In questo articolo vogliamo ricordare, fra queste “sale” diverse, la Galleria Vittoria, un edificio costruito in forma circolare al Chiatamone, dove poi, negli anni Sessanta del Novecento, dopo i dovuti adattamenti, troveremo il quotidiano “Il Mattino”.
Inizialmente il locale era chiamato “Diorama”. In esso si succedevano, formando un giro, teloni con vedute di paesi lontani.
In un secondo momento il Diorama fu trasformato nel “Circo delle Varietà”, in cui si esibivano soprattutto, come si diceva allora, le chanteuses.
Il Circo divenne famoso, in particolare, per una danzatrice che agitava con grazia ampi veli su cui si proiettavano bellissimi disegni fantasmagorici a colori, una novità assoluta perché i giochi di luce erano creati dall’illuminazione elettrica, cosa che fece scoprire l’importanza della luce elettrica sui palcoscenici come elemento di spettacolo. La ballerina si chiamava Loje Fuller, denominata la “Regina delle luci”.
Il pubblico seguiva lo spettacolo stando seduto ai tavolini dove venivano servite consumazioni varie.
Un numero che ebbe successo era quello in cui nella sala si accendevano lentamente alcuni fuochi d’artificio, assieme al sorgere di melodie.
Successivamente il locale fu acquistato da un tedesco, Sigismondo Stern (quello che aprì nella Galleria Umberto una birreria, facendo conoscere a Napoli la birra “bavarese”).
Stern trasformò il locale nel Teatro Verdi, in cui si alternavano spettacoli di prosa e di musica.
Non staremo ad elencare i nomi degli artisti che si esibirono sul suo palcoscenico, perché oggi, a nostro avviso, direbbero poco alla maggioranza di chi ci legge.
Ricordiamo solo che una delle umili maschere del teatro, cioè gli assistenti accompagnatori in sala, fu Vincenzo Russo, l’autore di grandi canzoni napoletane, fra cui “I’ te vurria vasà”.
Con il trascorrere degli anni il teatro chiuse e l’edificio passò ad un operatore economico, che lo trasformò in un insieme di esercizi commerciali di buon tono, fra cui una elegante e rinomata sala da thè, negozi di abbigliamento, di oggettistica e di fiori. Cioè, si direbbe oggi, in una Galleria Commerciale, che, nelle piante degli anni Trenta del Novecento, troviamo indicata come Galleria Vittoria.
Nella figura che illustra questo articolo vediamo, in un cartellone pubblicitario dell’epoca, la danzatrice Loje Fuller, la “Regina delle luci”.
(Giugno 2021)
Il Medio Evo del Gambrinus
di Antonio La Gala
Il Gambrinus è una delle "glorie" riconosciute della nostra città. Anche le personalità più autorevoli che visitano Napoli non rinunciano a farvi una capatina per il caffé. Ciò conferma e perpetua la sua fama di Caffé più rappresentativo della città.
Sembra perciò inverosimile che nel suo passato ci sia stata una chiusura, una parentesi, pur se, all’epoca, qualcuno scrisse: “certo nessuno rimpiange il Gambrinus, e sarebbe inopportuno anche il più modesto elogio funebre”.
Anche il Gambrinus, quindi, ha attraversato un suo Medio Evo.
Nei primi giorni dell’agosto 1938, infatti, il locale (come recitava la stampa quotidiana), “ridotto a trascinare una vita grama che aveva fatto dimenticare il suo passato pieno di animazione e di vita”, chiuse, dopo che “tutti i tentativi fatti per infondere al locale una nuova vita riuscirono vani e non fecero che snaturare il carattere signorile del locale, screditandolo”.
Con poco rispetto per pensionati e forestieri, la pubblicistica dell’epoca si doleva che il Gambrinus “era ridotto a ritrovo di funzionari in pensione (sic!) e di qualche provinciale di passaggio”.
Probabilmente la vita anche degli altri Caffé dell’epoca doveva essere sofferta. Un redattore coevo, commentando la chiusura del locale, scriveva che “col trasformarsi delle abitudini e il moltiplicarsi dei Circoli e dei bar, i Caffé hanno perduto la fisionomia particolare che ognuno aveva un tempo. La vita moderna non consente più le lunghe soste nelle botteghe da caffé e la gente ha troppa fretta e non è più consentito oziare e perder tempo”.
Eppure il passato del Gambrinus era illustre: nella seconda metà dell’Ottocento era il ritrovo più elegante di Napoli. Prima di intitolarsi al re della birra, si chiamava “Gran Caffé d’Europa”.
Nel 1890 ne assunse la gestione Mariano Vacca, che volle decorarlo artisticamente, affidandone l’incarico ad Antonio Curri, fantasioso architetto decoratore, che chiamò a collaborare i migliori pittori e scultori locali dell’epoca. Curri ideò i motivi decorativi in cui furono incastonate le pitture a pastello e ad acquarello di artisti di primo livello, tanto per citare solo qualcuno, come Gaetano Esposito, Vincenzo Migliaro,Vincenzo Volpe, Atttilio Pratella, Salvatore Postiglione, Vincenzo Caprile; Pietro Scoppetta, Francesco Casciaro, Vincenzo Irolli, Francesco Paolo Michetti, Eduardo Matania. Le statue che adornavano le sale erano opera di Vincenzo Alfano, Saverio Sortini, Giuseppe Renda, Francesco De Matteis. Gli stucchi erano di Salvatore Cepparulo.
Il Gambrinus per decenni diventò il centro della vita cittadina, uno dei simboli più celebrati della bella èpoque napoletana. Nelle prime ore del pomeriggio si animavano i tavolini dei politici; più tardi comparivano professori universitari e accademici. La sera il locale assumeva un aspetto mondano ed era gremito di ufficiali di cavalleria del reggimento allora di stanza a Napoli, di signore in abito da sera e della gioventù salottiera. Una saletta a parte era riservata quasi esclusivamente ad artisti e letterati. A tarda sera nel Gambrinus si riversava il pubblico elegante che usciva dal San Carlo, intrattenendosi fino a tardi per commentare gli spettacoli.
Tanta gloria, con il trascorrere del tempo, diventava sempre più ricordo del passato, fino alla chiusura, quando i suoi locali furono trasformati in un’Agenzia del Banco di Napoli.
Per fortuna dei posteri, cioè noi, le Sovrintendenze si preoccuparono della conservazione delle opere d’arte che si trovavano nello storico Caffé, vigilando sui lavori di adattamento dei locali.
Le pitture, le sculture e gli stucchi, che nel frattempo erano andati degradandosi, furono restaurati. I grandi specchi furono conservati, nascosti da pannelli di stoffa.
Ciò ha consentito, appena se ne è presentata l’opportunità, di restituire il locale alla sua antica e gloriosa funzione di ritrovo di prestigio, conservando la fisionomia originaria, seppure ovviamente aggiornata ai nuovi tempi. Dopo la riapertura del 1952, sono scomparsi gli ufficiali di cavalleria, i Migliaro e i Pratella. Ma il ricordo di quel mondo, in quelle sale, ci viene rievocata dalle figure incorniciate dagli stucchi che ci guardano mentre sorseggiamo un caffé.
(Aprile 2021)
Miti napoletani di oggi.87
COVID-19: UN RITO DI PASSAGGIO
di Sergio Zazzera
Arnold Van Gennep teorizzò i riti di passaggio, definendoli «cerimonie il cui fine è… far passare l’individuo da una situazione determinata a un’altra anch’essa determinata». Le specie più comuni di essi sono quelle legate alla nascita, al matrimonio, alla morte, all’iniziazione, ma ne esistono numerose altre, e la loro struttura consta di tre fasi: separazione (fase pre-liminale), transizione (fase liminale, caratterizzata da un momento di angoscia, di fronte a un’esperienza mai vissuta prima, e da un culmine, costituito dall’evento centrale del rito), reintegrazione (fase post-liminale).
Ora, un rito di passaggio è venuto ad affermarsi in conseguenza della pandemia da Sars-Cov2 – o Covid-19 – in atto, vale a dire, la vaccinazione.
Attesa da tutti, appena arrivata ha visto la fuga di un’elevata percentuale di persone, preoccupate eccessivamente da pericoli, più o meno uguali a quelli di numerose altre attività e vicende umane della quotidianità, dalle quali, pure, nessuno fugge. Un esempio per tutti: la paura dell’aereo è molto diffusa, ma muore più gente negl’incidenti di auto.
Siamo, dunque, di fronte a un vero e proprio rito, del quale vale la pena individuare le fasi:
a) separazione. All’arrivo nel luogo di somministrazione, soprattutto i più anziani (come chi scrive) sono, per lo più, accompagnati da qualcuno, al quale è vietato l’accesso. Potrebbe sembrare questo il segno della separazione, la cui sostanza vera e propria, in realtà, è costituita dal lasciare fuori tutti i non-vaccinandi.
b) transizione. Mentre si passa ai punti d’identificazione e di registrazione, ci si domanda: chissà quale vaccino m’inoculeranno; chissà dopo come mi sentirò: tutti evidenti sintomi di angoscia. Angoscia che, almeno per qualcuno, si fa più incisiva al momento del culmine, alla vista dell’ago (che, poi, penetra nel braccio, senza che ci se ne accorga), e ancora di più quando, terminata l’inoculazione, si è invitati a trattenersi in una sala per un quarto d’ora (e che cosa potrebbe accadermi? Ma poi non accade nulla).
c) reintegrazione. Dopo il quarto d’ora, si può finalmente uscire, tornare in strada, nel mondo, fra la gente – anche quella dalla quale, poco prima, eravamo stati separati –, però immunizzati (o, almeno, così si spera).
Concludo, rispondendo all’interrogativo che molti si staranno ponendo: ma questo è un mito napoletano o non, piuttosto, un mito universale? Risposta: è l’uno e l’altro, nel senso che tutto ciò avviene in ogni angolo dell’Universo; a Napoli, però, l’angoscia che connota la fase di transizione è accentuata da una serie di comportamenti, e non credo di essere l’unico ad essermici imbattuto. Il foglio dell’informativa è consegnato senza l’accompagnamento di una sola parola, né una sola parola esce dalla bocca del medico o dell’infermiere. Nella sala “del quarto d’ora”, poi, facevo una considerazione: se dovessi sentirmi male, sarò esposto soltanto alla “pubblica fede”, vale a dire, al buon cuore delle altre persone che attendono il trascorrere del tempo e che si spera che lancino l’allarme: avrò, forse, qualche problema di vista, ma non mi sembra di avere notato in quell’ambiente la presenza di personale.
(Aprile 2021)
Risanamento fine Ottocento e conservazione delle memorie storiche.
di Antonio La Gala
Gli imponenti interventi edilizi, attuati a fine Ottocento nel vecchio cuore storico di Napoli, nell’ambito del Risanamento urbanistico e igienico della città dopo il colera del 1884, comportarono lo sventramento di buona parte dell’antico centro che i secoli avevano tramandato in uno stato di gravissimo degrado, soprattutto igienico. Tuttavia, come è ovvio, questa parte vecchia, proprio perché tale, custodiva parti considerevoli della memoria storica della città. Abbatterla per risanarla significava anche disperdere memorie secolari che vi si erano sedimentate, raccontate dalle chiese, dagli edifici, dai luoghi, dai loro nomi.
Gli interventi del Risanamento erano così radicali che il rischio che scomparisse per sempre, e del tutto, il ricordo di interi momenti della storia cittadina, era una realtà, soprattutto perché gli interventi andavano a sconvolgere i quartieri Porto, Pendino, Mercato e Vicaria, i più antichi, i più ricchi di storia, cioè la zona portuale e intere zone della Napoli Angioino-Aragonese-Vicereale.
Purtroppo, a quell’epoca, ancora non era maturata quella sensibilità verso la conservazione del passato, che a noi oggi sembra del tutto scontata.
Ad esempio, nel 1861, Marino Turchi auspicava la demolizione dei vecchi muri dei chiostri e della “incomoda sporgenza della Croce di Lucca”. Nel 1873 la Sezione di Architettura degli Scienziati, Artisti e Letterati scriveva che Castel dell’Ovo “non ha più ragion di essere in piedi. Forse per qualcuno potrebbe avere solo valore il desiderio di ricordare”.
Anche gli storici ed eruditi, a cominciare da Bartolomeo Capasso, che presiedeva la commissione comunale per la salvaguardia dei monumenti, nonché gli intellettuali che, dal 1882 in poi, dettero vita alla rivista “Napoli Nobilissima”, pur lavorando molto sul versante della ricerca filologica sulle vestigia antiche della città, nei fatti sposavano in pieno l’ideologia demolitrice del Risanamento.
Gli intellettuali si chiusero a ingaggiare puntigliose battaglie per conservare isolatamente questa o quella chiesa, spostare o no, qua oppure là, un portale, e cose simili. Cioè badarono alla salvaguardia di frammenti della città, ma non alla conservazione dell’insieme.
A parziale giustificazione va, però, ricordato che le condizioni igieniche delle zone interessate dalle antichità erano così spaventose che anche nelle menti migliori prendeva il sopravvento l’idea che era necessario far piazza pulita delle “pietre vecchie”.
Bartolomeo Capasso, ad esempio, scriveva: “La Napoli antica è condannata a sparire. I supportici, che accavalcando le vie, impediscono all’aria e alla luce di liberamente diffondersi in quelle, si tolgono, i fondaci ove la gente si ammucchiava in luridi covili, si aprono, e finalmente i vichi stretti e tortuosi, si allargano in dritte strade, fiancheggiate da comode case e magnifici palagi”.
La Matilde Serao del “Ventre di Napoli”, criticando l’aspetto estetico dei nuovi edifici, tuttavia li accettava per come essi erano perché, precisava, occorreva vederli “con gli occhi ancora offesi della sozzura antica della Napoli morente” Da questo contrasto fra le esigenze del Risanamento e della conservazione delle vestigia storiche della città, emerge ancora una volta la contraddittorietà di una città in cui la storia ha sedimentato e intrecciato situazioni e problemi in un connubio inscindibile e inestricabile di miseria e nobiltà.
(Marzo 2021)
Miti napoletani di oggi.86
IN TEMPO DI COVID-19
di Sergio Zazzera
La premessa è sempre quella della reiterazione del rito che produce il mito; e questa volta l’applicazione del principio è fatta al tempo del Covid-19, nuova manifestazione della locuzione medioevale tempore pestis.
Il rito (anzi, i riti): Lungomare (e non soltanto) invaso da pedoni, molti dei quali privi di mascherina e non distanziati; ristoranti, bar e baretti affollati da avventori, anche qui senza l’osservanza delle distanze e senza l’uso della mascherina (come si può sorbire il caffè con la mascherina? = ogni scusa è buona); occupazione delle scuole per protestare contro la d.a.d. (una volta tanto, un acronimo non anglofilo, corrispondente a “didattica a distanza”).
Il mito: l’intenzione più evidente è quella di esorcizzare la pandemia; un’esorcizzazione da “Trionfo di Bacco e Arianna” di lorenziana memoria («chi vuol esser lieto, sia», anche se, questa volta, del “doman” si può dire che vi siano elevatissime probabilità di “certezza”). Una considerazione, in particolare, va fatta, però, a proposito della protesta degli studenti, i quali per decenni hanno occupato le scuole con i pretesti più diversi, con la reale finalità di ostacolare le attività didattiche: ebbene, ora, in maniera quanto mai singolare, protestano per ottenere il contrario.
Come che sia, tutti questi comportamenti non fanno altro che aggravare la situazione sanitaria, già di per sé tutt’altro che leggera; e il nucleo essenziale del mito è proprio questo.
(Marzo 2021)
La tradizione del culto francescano in Campania
di Antonio La Gala
San Francesco, durante i suoi viaggi, passò anche per la Campania, dove visitò le prime piccole comunità di suoi seguaci che, in quegli anni, vi stavano nascendo.
Come avvenne per il resto della cristianità, la devozione per il Santo di Assisi durante i secoli crebbe, alimentandosi anche del culto dei vari santi dell’Ordine da lui fondato, appartenenti ai diversi rami in cui, nel tempo, l’originario albero del francescanesimo si andava articolando.
Fra le devozioni più sentite nella religiosità popolare campane, in particolare nell’area napoletana, occupano un posto privilegiato quelle per San Francesco e Sant’Antonio di Padova.
Queste due particolari devozioni sono testimoniate dall’uso esteso dei nomi Francesco e Antonio nelle famiglie napoletane e campane, nonché dal numero elevato di chiese e di conventi francescani e dalla infinità di cappelle ed edicole devozionali, edificate in onore dei due santi, in ogni luogo, nelle strade, nei cortili, negli aggregati urbani e nelle campagne. Senza parlare delle statue e dei quadri dei due santi presenti in tutte le chiese, di qualsiasi titolo od ordine, sempre onorate da numerosissime luci accese.
Inoltre, chiunque si soffermi ad osservare nei mercatini di antiquariato le raccolte dei “santini”, cioè di quelle piccole immagini sacre tascabili, che da secoli vengono distribuite presso i fedeli, accompagnandoli in tanti momenti della loro vita, costaterà il posto di rilievo che hanno i santi francescani.
Fra le altre testimonianze ricordiamo l’usanza, diffusa in passato, di vestire alla francescana i bambini, in particolare per devozione e riconoscenza a Sant’Antonio.
Questa usanza, pur risalendo a molti secoli fa, è sopravvissuta, presso i ceti meno abbienti, nei quartieri popolari, nei paesi e nelle campagne, fino a quasi metà Novecento. I fanciulli erano vestiti con un saio, con tanto di cappuccio e di cordone.
Il fervore religioso verso i santi francescani in passato veniva espresso anche nelle tavolette votive, toccanti testimonianze di fede, raccolte un po’ in tutti i santuari e, in misura rilevante, nel Santuario della Madonna dell’Arco.
In esse si può rilevare che i santi francescani sono stati invocati nelle circostanze più disparate, in contemporanea con la Madonna dell’Arco. Ad esempio in una tavoletta del Cinquecento un condannato a morte graziato e la moglie ringraziano la Madonna dell’Arco e Sant’Antonio, rappresentato in alto a destra, in ginocchio e con le mani giunte, per farsi intermediario con la Vergine.
In una tavoletta del secolo successivo viene mostrata una scena di tarantella, animata da un giovane guarito dal tarantolismo, in cui appaiono, assieme alla Madonna, San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola.
Questi sono solo alcuni esempi, perché i santi francescani, assieme peraltro ad altri santi, come San Giuseppe, San Gennaro, ecc. popolano moltissime tavolette in cui compaiono le eruzioni del Vesuvio, le imboscate dei briganti, le cadute da cavallo o dai carri agricoli e, in genere. tutte quelle situazioni in cui è naturale invocare l’aiuto del soprannaturale.
A conclusione di questa veloce e sommaria rievocazione di un aspetto così importante della vita dei nostri antenati, della nostra cultura, non solo popolare, esprimiamo rammarico nel costatare che le residue testimonianze di tanta devozione sembra non interessino quasi più nessuno, nemmeno a titolo puramente di documentazione storica, tant’è che esse, in concomitanza con l’affievolirsi del senso del religioso che le aveva prodotte, attraversano una fase di dispersione.
È troppo poco affidare le testimonianze di queste devozioni ai collezionisti dei “santini”, che frequentano i “mercatini delle pulci”, come, ad esempio, i santini sparsi (peraltro poco rispettosamente) sui gradini della scalinata sotto la Posta Centrale.
(Marzo 2021)
Miti napoletani di oggi.85
EVEMERISMO NAPOLETANO
di Sergio Zazzera
Evemero di Messene del Peloponneso è un mitografo, vissuto fra il IV e il III secolo a. C., sostenitore della dottrina, secondo cui gli dei altro non sarebbero, che uomini eccezionali, divinizzati dai loro contemporanei e dai posteri, proprio per tale loro eccezionalità.
Non si pensi, però, che tale fenomeno fosse peculiare dei suoi tempi: ancora oggi, infatti, a Napoli ci s’imbatte in episodi di “santificazione laica”, quanto meno, sconcertanti, ai principali dei quali intendo fare cenno qui di seguito.
1.- Totò. Del “Principe della risata” mi sono già occupato, per altro verso, da queste (web-)pagine. La considerazione “evemeristica” del personaggio dev’essere ravvisata, non tanto nelle manifestazioni di isterismo collettivo che ne accompagnarono il funerale napoletano, celebrato nella basilica del Carmine Maggiore, quanto in quello “finto” – a bara vuota –, svoltosi nel suo quartiere della Sanità e nella sua “santificazione laica”, mediante pseudoedicole devozionali: sarebbe stato preferibile – perché più serio – affidarne la memoria cittadina a monumenti, come quello del Rione Alto, e a quel museo, che non si sa se vedrà mai la luce.
2. Pino Daniele. Non v’è dubbio che il grande merito del musicista, prematuramente scomparso, sia stato quello d’innovare la musica napoletana, mediante composizioni che rivestono di note d’ispirazione americana i testi dialettali (diversamente da James Senese, che “napoletanizza” musiche dalla struttura autenticamente americana). Ciò non toglie che pretendere di collocare il suo enorme ritratto, progettato dall’artista Jorit, sulla facciata del palazzo delle Ferrovie, in piazza Garibaldi, opera di Pierluigi Nervi, avrebbe snaturato un’opera architettonica che, per quanto non sottoposta a vincolo, ha pur sempre una sua connotazione complessiva, alla quale qualsiasi commistione (foss’anche mediante un’opera di Leonardo o di Michelangelo) potrebbe soltanto nuocere.
3. Maradona. Anche del campione recentemente scomparso mi sono già occupato, per altro verso, da queste (web-)pagine. Individuo la sua esaltazione evemeristica negli episodi verificatisi nei giorni immediatamente successivi alla sua dipartita; e non tanto negli assembramenti nei pressi dello stadio, con deposizione di fiori, lumini e quant’altro possa assicurare, nell’immaginario popolare, il suffragio ai defunti, quanto, soprattutto, nella celere intitolazione a lui dello stadio medesimo, sostituendo il suo nome a quello di Paolo di Tarso. In proposito, si rifletta: gli assembramenti si sono svolti in assoluta violazione dei protocolli anticovid; l’intitolazione ha violato, a sua volta, la normativa sull’osservanza dei termini in materia. E mi si consenta di ricordare che a Milano gl’incontri di calcio si giocano nello stadio “Meazza - San Siro”: dunque, che cosa vi sarebbe stato di male a dare a Napoli uno stadio “Maradona - San Paolo”? Tanto più che il santo passò dalle nostre parti, per recarsi a Roma, a subire il martirio; il campione, viceversa, venne – e si fermò – per “fare soldi” (come si dice dalle nostre parti).
(Gennaio 2021)
Meno male che il santo c’è
di Antonio La Gala
I recenti preoccupati commenti sul mancato miracolo di San Gennaro di metà dicembre,hanno fatto ricordare che i napoletani hanno sempre considerato e venerato il loro Patrono, San Gennaro, come un costante punto di riferimento nelle non poche loro difficoltà, un santo che da secoli assicura e promette la sua protezione. Tralasciando la vexata quaestio dal punto di vista teologico sul famoso miracolo, ci limitiamo a rilevare sull’argomento solo qualche curiosità storica.
Nel Cinquecento, a Napoli, la venerazione per San Gennaro già vantava una tradizione millenaria, da quando agli inizi del V sec. i napoletani avevano traslato i resti del santo da Pozzuoli alle catacombe vicino Capodimonte. Quando, nel 1526, tanto per cambiare, Napoli visse un anno difficile, fra l’assedio dei Francesi e un’epidemia di peste, i napoletani invocarono proficuamente San Gennaro, facendogli poi voto di costruire una cappella in suo onore per custodire più degnamente le sue ossa, che, nei secoli precedenti, avevano girovagato più volte per vari luoghi di sepoltura.
Infatti nell’831, tranne le ampolle e il cranio, erano state spostate da Capodimonte a Benevento e, circa tre secoli dopo, nel santuario di Montevergine, dove restarono fino a metà Quattrocento, quando gli Aragonesi le riportarono di nuovo a Napoli.
Torniamo alla pestilenza del 1526.
Ricevuta la grazia, a gennaio dell’anno successivo, i napoletani, per sciogliere il voto, stipularono un atto notarile con il santo a proposito della cappella promessa nel voto. Si vede che, anche a quei tempi, l’esecuzione di opere pubbliche andava per le lunghe: i lavori per la costruzione della cappella del Tesoro di San Gennaro, decisi nel 1527, iniziarono nel 1608. Essi furono curati dalla Deputazione, un’apposita istituzione di natura comunale, deputata anche alla custodia del sempre più crescente Tesoro e a garantire l’intangibilità delle sacre ampolle e delle reliquie del santo.
Nel Seicento le cose a Napoli non andarono meglio del secolo precedente, anzi quello fu un secolo horribilis, fra 11 eruzioni (la più grave fu quella del 1631), tre terremoti, due carestie, la rivoluzione di Masaniello del 1647 e la grave epidemia di peste del 1656.
L’eruzione del 16 dicembre 1631, la peggiore dopo quella che seppellì Pompei nel 79 d.C., arrivò dopo ben 492 anni di riposo del vulcano, essendo la precedente avvenuta nel 1139, cioè l’anno dell’ingresso a Napoli dei Normanni. L’eruzione del 1631 procurò, nella discesa della lava fino al mare, 18.000 morti e rappresentò uno dei momenti di maggiore rischio per la città, che, anche in quella occasione, trovò conforto nell’aiuto del suo santo, che ringraziò elevandogli una guglia in piazzetta Riario Sforza, opera di Fanzago.
Anche dopo la peste del 1656 i napoletani ringraziarono il santo, con la costruzione di un ospizio per i poveri, chiamato, appunto, San Gennaro dei Poveri.
Nel Settecento il numero delle eruzioni fu superato: se ne contarono 19, numero anch’esso superato nell’Ottocento, quando se ne contarono 26 (in media una ogni 4 anni), sebbene meno tragiche di quella del 1631.
Una delle prime eruzioni del Settecento fu quella del 31 luglio 1707: mentre la città festeggiava la fine della dominazione spagnola e la venuta del suo nuovo padrone - gli Austriaci - le case tremarono e il Vesuvio cominciò improvvisamente ad eruttare fiamme, fumo e lapilli.
Anche in questa occasione San Gennaro mostrò la sua benevolenza.
Nella città in preda al terrore, una processione uscì dalla Cattedrale, poco prima di mezzanotte, capitanata dall’arcivescovo Pignatelli e dal nuovo viceré, stavolta austriaco, conte di Martinitz. La statua del santo fu trasportata a Porta Capuana, di fronte al Vesuvio. Si narra che, dopo pochi minuti, l’eruzione cessò, il cielo si schiarì e apparvero le stelle. Fu allora eretto, vicino alla chiesa di Santa Caterina a Formiello, un monumento al santo, che non è quello che si vede oggi, perché è stato rifatto nel 1793.
Il Vesuvio si ripresentò l’8 agosto 1779. Quando il giorno successivo l’eruzione s’intensificò, una processione portò una statua del santo fino al ponte della Maddalena. Narrano i cronisti che l’eruzione cessò quasi per incanto.
Il Settecento vulcanico nei primi anni dell’Ottocento dette il cambio eruttivo al nuovo secolo. E fu di nuovo San Gennaro a porre rimedio, perdonando uno sgarbo dei napoletani, che in quella occasione dovettero pensare che chi lascia il santo vecchio per il nuovo, sa il santo che lascia ma non sa quello che trova.
Infatti,poco prima di un’eruzione di inizio Ottocento, i napoletani avevano licenziato San Gennaro dall’incarico di patrono e lo avevano sostituito.
Perché lo avevano esonerato? Che aveva combinato?
Quando nel 1799 Napoli cadde in mano ai Francesi e ai Giacobini, il santo fu chiamato alla resistenza contro l’invasore. I preti addetti avevano assicurato che il primo sabato di maggio il santo, per protesta contro i Francesi, non avrebbe fatto il miracolo. Poiché, però, il popolo credeva che un’assenza del miracolo comprometteva la prosperità della città, scoppiarono tumulti.
Alle otto di sera di quel sabato di maggio, quando una turba di gente inferocita cominciava a diventare pericolosa per l’ordine pubblico, i Francesi intimarono al santo, armi in pugno, di fare il miracolo.
Non glielo intimarono direttamente, anche perché essi, figli della Rivoluzione, dei Lumi e devoti solo alla Ragione, con i santi avevano rotto i rapporti. Si rivolsero, come si fa in diplomazia, a intermediari, agli addetti ai lavori, al prete che doveva officiare la cerimonia, concedendogli dieci minuti per fare accadere il miracolo, allo scadere dei quali sarebbe stato fucilato.
Forse non sentendosela di far fucilare il poveretto, il santo fece il miracolo.
Apriti cielo. I napoletani lo accusarono di aver fatto un endoserment agli occupanti. Accusato di collaborazionismo con il nemico, fu destituito dall’incarico di patrono, sostituito, e una sua scultura fu gettata in mare.
Quando, poco dopo, partiti i Francesi, si presentò un’altra eruzione, i napoletani, delusi dai santi neoassunti, si pentirono, e ritenendo che solo San Gennaro, secondo tradizione, sarebbe riuscito a fermare la lava, mandarono dei sub a recuperare la statua del santo. Ma non fu trovata. Intanto la lava avanzava. In zona Cesarini venne in aiuto un’altra statua del santo, portata in processione sul ponte della Maddalena, che andò incontro alla lava a braccia spalancate.
Al fermarsi della lava, gli ingrati napoletani, pentiti come la Maddalena del ponte omonimo, reintegrarono il santo nelle sue secolari funzioni di sperimentato protettore. I Borbone fecero erigere, in ricordo dell’evento e per ringraziamento, una guglia vicino alla chiesa di Santa Maria di Portosalvo.
Chi lascia il santo vecchio per il nuovo….
(Gennaio 2021)
Miti napoletani di oggi.84
IL TURISMO
di Sergio Zazzera
Che il turismo sia una delle più redditizie risorse economiche dell’Italia intera, è un postulato che non necessita di dimostrazione; che, però, il modus in rebus di oraziana memoria debba pur sempre trovarvi applicazione, è un principio da non accantonare mai – e neppure sottovalutare –.
Fatta questa premessa, diamo uno sguardo a Napoli – che, poi, è ciò che, in questa sede, più c’interessa –.
Proprio le motivazioni economiche hanno contribuito a determinare l’accoglienza positiva del turismo, soprattutto dagli ultimi anni a questa parte, benché un’altra motivazione particolarmente incisiva sia ravvisabile nell’apporto che esso è in grado di fornire alla valorizzazione del patrimonio culturale, che per la nostra città ha una dimensione di tutto rispetto.
Però – e qui viene il mito, cioè (non dimentichiamolo mai) il falso linguaggio – la configurazione autentica della città (quella, cioè, che, applicando il pensiero di Marc Augé, la fa configurare come un “luogo”) è offerta dalla presenza dei suoi abitanti e, più particolarmente, dalla fruizione da parte loro di quel patrimonio. Il rischio, dunque, è che il turismo possa indurre i servizi in genere (beni culturali, trasporti, commercio, strutture ricettive) a indirizzarsi, per le già ricordate ragioni economiche, soprattutto verso il soddisfacimento delle esigenze del turista, a danno della popolazione residente. Per intenderci, il ritorno economico per la città resterebbe riservato a pochi, a detrimento di molti.
(Dicembre 2020)