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Lo stile “floreale”   di Antonio La Gala   Nell'intera Europa, a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento, e poi nel primo Novecento, più o...
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Articoli

L’ARMONIA PERDUTA

Miti napoletani di oggi.93

“L’ARMONIA PERDUTA”

 

di Sergio Zazzera

 

Sono sempre stato convinto che Raffaele La Capria abbia costituito, già di per sé stesso, un mito e, tuttavia, poiché egli non è più fra noi, non è di questo che intendo scrivere qui; due parole, però, sulla sua concezione dell’“Armonia perduta” da Napoli vorrei dirle, a dimostrazione di quanto anche questa sua tesi costituisca un mito. Credo, infatti, che di quell’“armonia”, che egli assume “perduta” dalla città, dopo i noti avvenimenti del 1799 e a causa di essi, in realtà, la città stessa non abbia mai goduto, né prima, né dopo.


Riflettiamo un momento: a differenza di quasi tutti i centri del Nord d’Italia, i più grandi e i più piccoli, tutto il regno di Napoli non ha attraversato l’esperienza dei liberi Comuni, né quella delle Signorie, bensì si è retto, almeno fino al 1806, su un regime feudale (meglio: è stato retto da esso). Ciò significa che già le monarchie che vi hanno governato – e, sotto sotto, perfino quella Aragonese, che passa per essere stata la più illuminata – hanno favorito la formazione di un carattere antagonisticamente classista della società. Peraltro, anche quell’esperienza, essa pure fallimentare, della “Serenissima Real Repubblica” del 1647 (gli avvenimenti dei quali fu protagonista Masaniello, per intenderci) fu un’operazione orchestrata dalla classe dei togati, rispetto alla quale il popolo vascio non fu nulla più che uno spettatore.

Dunque, la rivoluzione borghese del 1799 aggiunse soltanto ll’uόglio ‘ncopp’ô peretto (come dicono a Oslo) ai più che tesi rapporti tra le classi della società napoletana, né un vero riscatto vi fu nel 1943, col pur glorioso episodio delle Quattro Giornate, quando la (cosiddetta) nobiltà napoletana si mantenne fedele al re, fuggito a Brindisi, al punto che, tre anni dopo, il risultato del Referendum costituzionale al Sud fu nettamente favorevole a lui, a differenza di quanto avvenne nell’Italia centro-settentrionale.

Attribuire, dunque, al 1799 la responsabilità della “perdita” dell’“Armonia” da parte di Napoli costituisce un errore di datazione, ovvero un falso linguaggio, ovvero un mito. C.v.d.

(Ottobre 2022)

Storia del Vomero e

Storia del Vomero e storia di Napoli

 

di Antonio La Gala

 

Fino a poco fa si tendeva a considerare realtà complessivamente diverse quella esistente sulla collina vomerese e quella della città storica di Napoli, come se queste non avessero alcun retaggio storico comune, una diversità anche d’identità sentita da entrambe le parti e su cui nell’immaginario collettivo è fiorita una quantità di luoghi comuni. 

Effettivamente quasi fino a tutto l’Ottocento il Vomero ha vissuto di fatto separatamente dalla città storica, e quindi fino a quell’epoca la sua realtà (Certosa e Castel Sant’Elmo a parte, ma presenze isolate e a se stanti), la sua storia, era quasi estranea a quella della città.

Ciò perché il Vomero costituiva una periferia disabitata, lontana e di difficile accesso, composta da piccoli nuclei abitativi rurali, dei villaggi, più o meno gravitanti sulla strada che dai tempi dei Romani collegava la zona flegrea con la città partenopea, passando per la collina vomerese, la Via Puteoli-Neapolim per colles.

Tuttavia, nonostante che la vita della collina vomerese e quella della città antica si siano svolte per secoli piuttosto separatamente, non si può comprendere la storia del Vomero dal Novecento in poi se non la si collega alla storia della parte storica della città, quando alla fine dell’Ottocento le vicende dei due luoghi cominceranno a fondersi. Da quel momento il seguito della vita, la realtà, della collina verrà determinato dalle conseguenze della storia della città vecchia.

Com’è ampiamente noto, quando a fine Ottocento l’abnorme sovrappopolazione e la congestione urbanistica di Napoli arrivarono a un livello di insopportabilità che sfociò nel colera del 1884, fu deciso di alleggerire il sovraffollamento della città trasferendo masse di napoletani sulla collina vomerese, allora non urbanizzata e quasi disabitata, fondandovi il Nuovo Rione Vomero, cominciato a costruire nel 1885.

L’immagine che accompagna questo articolo documenta la regale inaugurazione dei lavori avvenuta dove ora si trovano le scale che portano alla funicolare di Montesanto.

La storia del nuovo quartiere vomerese quindi nasce dalla storia della congestione della città vecchia. Le due storie si congiungono.

Nei primi decenni successivi alla fondazione, sotto l’aspetto socio-economico, identitario, la vita della collina continuerà comunque, in qualche maniera, a svolgersi diversamente da quella della Napoli antica perché vi saliranno, a scopo principalmente residenziale, ceti borghesi e abbienti.

In sostanza il quartiere Vomero, non avendo fino ad allora ereditato dai secoli precedenti, per il suo contesto territoriale, i problemi di Napoli, inizialmente si può sviluppare, urbanisticamente e socio-culturalmente,come un quartiere moderno, “normale”, con strade larghe, “addirittura” alberate, abitazioni decorose, vie senza bassi, senza scugnizzi, ecc. E proprio perché normale è stato subito avvertito dall’immaginario collettivo di una città non proprio normale, come una realtàdiversa (in seguito rievocato come “il Vomero di una volta”), diventando un mito invidiato e ambito, un oggetto letterario, nonché un’occasione di discutibile supponenza snobistica da parte di qualche collinare.

Anche nel corso della successiva espansione fra le due guerre del Novecento, il Vomero si svilupperà con l’immissione, anch’essa per lo più di natura residenziale, di una borghesia, forse di livello meno alto, ma sempre tale da mantenervi una vita, un’identità, avvertite ancora, in un certo modo, appartate da quella del resto della città. Il Vomero continuerà a essere “il Vomero di una volta”.

La frase dei vomeresi “vado a Napoli” per indicare il recarsi nella città storica, oltre a riferirsi a una discontinuità nello spostamento fisico, sottintendeva anche un “viaggio” in una realtà, “altra”. Una città nella città.

La poca incidenza e lo scarso coinvolgimento del Vomero nella storia di Napoli, sotto alcuni aspetti fino a oltre metà Novecento, viene dimostrata dall’osservazione che in cinque volumi della “storia fotografica di Napoli”, che racconta i principali eventi avvenuti in città dal 1922 al 1985, fra circa 1.400 fotografie, quasi non esistono foto ambientate al Vomero, se non qualcuna relativa alle Quattro Giornate del 1943.

Una certa qual diversità fra Vomero e Napoli vecchia si è trascinata, andando a esaurirsi progressivamente, anche lungo la seconda metà del Novecento, quando la tracimazione in collina di popolazione dal centro storico vi ha importato, attraverso una vorace speculazione edilizia, un’analoga congestione urbanistica e vi ha importato i problemi irrisolti ereditati dalla storia difficile della città vecchia, imponendo, gradualmente, anche buona parte delle conseguenti connotazioni identitarie.  

Infine lo sviluppo dei collegamenti ha sostanzialmente completato sotto ogni aspetto la saldatura fra le due parti.

Del “Vomero di una volta” resta il mito e la nostalgia di qualche sempre più raro sopravvissuto di quelli che hanno potuto intravedere gli ultimi momenti di quel mondo.

(Ottobre 2022)

ICONOGRAFIA DEL VOMERO

L’ANTICA ICONOGRAFIA DEL VOMERO

 

di Antonio La Gala

 

Le vecchie immagini di un luogo sono uno strumento per la conoscenza di quel luogo, dei processi storici, economici, culturali che vi si sono svolti. Leggere le immagini di un luogo significa leggerne la storia

Ciò diventa molto difficile nel caso delle alture vomeresi, cioè dei quartieri Vomero e Arenella, perché l’antica iconografia che ce ne è stata tramandata, in effetti stampe, è molto scarsa, semplicemente perché fino a tale data il Vomero, pur avendo una “sua storia”, era visto, escludendo San Martino, come una realtà di sola campagna. L’iconografia è poi rimasta scarsa anche per i primi decenni successivi alla sua prima urbanizzazione iniziata a fine Ottocento, quando il compito di documentare la realtà era stato assunto dalla fotografia. Vediamo perché.

La fotografia nei suoi primi tempi, cioè nella seconda metà dell’Ottocento, era considerata come semplice supporto e complemento della pittura. Ciò accadeva per i ritratti come per la descrizione dei luoghi. In questo secondo ambito la produzione fotografica sostituiva le immagini pittoriche che erano cercate dai viaggiatori - soprattutto stranieri - che dalla fine del Settecento, sempre più numerosi, scendevano in Italia per effettuare il “Gran Tour”, alla scoperta delle sue bellezze naturali ed artistiche.


Questi viaggiatori amavano tornare con immagini a ricordo delle cose viste. Dapprima le immagini erano necessariamente pittoriche, ma quando la fotografia cominciò ad essere uno strumento sufficientemente maturo per sostituire acquerelli e stampe, iniziarono ad operare fotografi che però affrontavano la descrizione dei luoghi con lo stesso animus del pittore, cercando cioè il pittoresco, la nota di costume. Napoli con i suoi dintorni costituiva una delle mete più frequentate del Gran Tour, e di conseguenza, fotograficamente, si resero molto attivi fotografi di primissimo piano, primi fra tutti gli arcinoti fratelli Alinari e Giorgio Sommer, il quale, in particolare, compilò un album che spaziava fra il 1875 e la fine del secolo, annotandovi anche delle didascalie. La produzione di queste immagini, essendo riservata ad una ristretta élite intellettuale era sempre di altissimo livello, sia tecnico che culturalmente interpretativo della realtà riprodotta, umana, sociale, ambientale.

Il Vomero-Arenella, non avendo un significativo peso turistico, fu quasi ignorato da questo tipo di produzione fotografica. E fu ignorato per lungo tempo anche dalla produzione delle sorelle povere delle immagini per turisti, cioè dalle cartoline illustrate, circostanza che spiega perché è così difficile reperire cartoline del Vomero e dell’Arenella, eccezion fatta per San Martino.

Al di fuori poi della produzione per i turisti, a Napoli, fin dall’inizio, anche la fotografia che documentava ambiente e società si occupò quasi esclusivamente del vedutismo paesaggistico, pittorico, folkloristico (Vesuvio col pino, Posillipo, il mare, Via Caracciolo, Santa Lucia, gli scugnizzi, i pescatori, l’ostricaro), ignorando la città non folkloristica, quella industriale, borghese, proletaria. Ciò rispecchiava la situazione di Napoli, una città “diversa” dalle altre grandi città europee dell’epoca. E poiché di folkloristico, all’epoca, al Vomero non c’era niente, il quartiere fotograficamente continuò ad essere del tutto ignorato.

Infine pure i pochissimi primi fotoamatori dilettanti non trovavano alcun motivo per riprendere le strade e le nuove costruzioni del Vomero, e le imprese stesse che realizzavano le opere non avevano l’abitudine di documentarne la costruzione. Né il quartiere era teatro di manifestazioni pubbliche o di fatti di cronaca: lo testimonia la sua totale assenza dalle “storie fotografiche di Napoli”. Perciò le poche immagini del Vomero del passato spesso sono quelle che sbucano dalle “foto ricordo” degli album familiari, talvolta sotto forma di elemento ambientale, complementare, come sfondo. Ma è difficilissimo reperire queste fotografie e purtroppo gran parte di esse, come ho constatato, con amarezza, sono destinate all’oblio, man mano che vengono disperse dal tempo e dalla insensibilità dei molti che, nello svuotare i cassetti degli anziani, “si liberano” degli “inutili” loro ricordi personali.

Il materiale fotografico del periodo di cui stiamo parlando è stato però integrato, in misura limitata, dalla pittura dell’epoca, quando il clima artistico della città era orientato verso forme di pittura aderenti alla realtà, portando il cavalletto in campagna. La pittura non poteva non essere attratta dal fascino ambientale della collina, considerando che il paesaggio era uno dei suoi temi preferiti, acquisendo il grande merito di aver rappresentato, si può dire in esclusiva, la parte migliore di quel Vomero-Arenella scomparso e decantato, suffragando ciò che la fotografia di quei tempi andava ignorando.

Molti pittori hanno poi scelto il Vomero anche come loro luogo di vita, circostanza che ha propiziato una loro maggiore attenzione al paesaggio del posto.

Fra questi ultimi vanno ricordati, in maniera particolare, come benemeriti della pittura vomerese, Attilio Pratella e Giuseppe Casciaro, vomeresi di adozione e per scelta artistica.

Che il bello al Vomero oggi sia scomparso, almeno quello pittorico di tipo tradizionale, è testimoniato anche dalla scomparsa di pittori che lo ritraggano: è difficile immaginare che il Vomero del secondo dopoguerra possa essere fonte di ispirazione per un qualche pittore.

(Settembre 2022)

Il Banco di Napoli

Miti napoletani di oggi.92

IL BANCO DI NAPOLI

 

di Sergio Zazzera

 

C’era una volta – e, precisamente, dal 1539 – il Banco della Pietà, istituzione benefica che, dalla sua sede di via San Biagio dei Librai, erogava il prestito su pegno a interessi zero. Poi a Napoli nacquero, progressivamente, altre sette banche: il Banco dei Poveri (1563), il Banco della Santissima Annunziata (1587), il Banco del Popolo (1589), il Banco dello Spirito Santo (1590), il Banco di Sant'Eligio (1592), il Banco di San Giacomo e Vittoria (1597) e, infine, il Banco del Salvatore (1640). Tutte queste istituzioni furono accorpate, nel 1794, in un unico Banco Nazionale di Napoli, poi divenuto, dopo il Decennio francese, Banco delle Due Sicilie e, finalmente, dal 1861, Banco di Napoli, con funzione anche di banca di emissione, che poco dopo prese sede, dapprima in Palazzo San Giacomo e, poi, in via Toledo e fu annoverato fra gl’istituti di credito di diritto pubblico, il che ne impediva l’assoggettamento a procedura fallimentare.


Dopo il 1991-92, a seguito di una grave crisi economica nazionale – oltre che di una politica interna errata –, l’istituto fu svenduto nel 1997 alla Banca nazionale del lavoro e all’INA., che, due anni dopo, lo cedettero al gruppo Sanpaolo-IMI. Da quel momento, esso prese la denominazione di Sanpaolo Banco di Napoli s.p.a. e, dopo la fusione di quel gruppo con Intesa, fu incorporato in Intesa Sanpaolo, assumendo questa denominazione; ovvero, il Banco di Napoli non fu più tale e, in quanto società commerciale, perse anche il privilegio di non poter essere dichiarato fallito.

E già qui emerge un primo mito, quello delle insegne sulle filiali, che, per quanto destinate alla sostituzione, recano ancora la ditta(-falso linguaggio) “Banco di Napoli”. Ma, come se ciò non bastasse, l’edificio realizzato negli anni trenta del secolo scorso da Marcello Piacentini, che ne costituiva la sede centrale, è stato oggi convertito – con tanto di bar e di ristorante sulla terrazza – in sede delle “Gallerie d’Italia”, trasferite, a loro volta, dal Palazzo Zevallos Stigliano, che sorge poco più avanti e che aveva accolto, in precedenza, la sede napoletana della Banca Intesa (già Banca Commerciale Italiana). Peraltro, a proposito di quest’ultimo edificio, si parla di una nuova destinazione a centro commerciale. Sic transit gloria mundi, ovvero: c’era una volta il prestito gratuito su pegno agl’indigenti. Altro che la via Merulana di Carlo Emilio Gadda: davvero un “pasticciaccio” bruttissimo!

Ed è proprio questa l’“altra metà” del mito: i napoletani continuano a chiamare il palazzo progettato da Piacentini “’o Banco ‘e Napule”, trascurando la considerazione che non soltanto esso non è più tale, ma addirittura non è nemmeno più “banco”.

(Settembre 2022)

VIAGGIO IN CAMPER

IL NOSTRO VIAGGIO IN CAMPER

 

di Luigi Rezzuti

 

Questa estate abbiamo programmato un viaggio in camper visitando le località italiane di Portovenere e Lerici.

Siamo partiti da Napoli quasi all’alba e siamo arrivati a Portovenere dopo circa dieci ore. Volevamo fare la sosta pranzo in un autogrill ma era talmente affollato che abbiamo preferito restare nel camper per un fugace pranzo.

Arrivati a Portovenere non è stato possibile trovare un parcheggio per camper, siamo in piena estate, e abbiamo parcheggiato nei pressi del porto.


Portovenere è un borgo marinaro che si affaccia nel golfo di La Spezia, detto anche “golfo dei poeti”.

Alla fine di questa penisola si trovano tre piccole isole: la Palmaria, il Tino e il Tinello, solo l’isola Palmaria, che sorge proprio di fronte al borgo di Portovenere al di là di uno stretto braccio di mare, è in   piccola parte abitata.

Il nome del borgo (Portus Veneris) derivava da un tempio dedicato alla dea Venere Ericina.

Il nome era probabilmente legato al fatto che, secondo la tradizione, la dea era nata dalla spuma del mare, proprio sotto quel promontorio.

Il borgo è abitato da antichi pescatori per poi nel periodo estivo riempirsi di turisti italiani e stranieri.

Apprezzata località di villeggiatura, tra i suoi visitatori più celebri vi fu Lord George Gordon Byron. Ancora oggi una metaturistica di punta del panorama spezzino e ligure.

In due giorni a Portovenere abbiamo potuto vedere molti punti di interesse compreso lo spostamento in traghetto alla Palmaria, una delle tre isole che compongono l’arcipelago situato di fronte.

Abbiamo passeggiato tra le casette coloratissime che si affacciano sul mare, creando una sorta di barriera meravigliosa.

Parallelamente al lungomare si apre il centro storico di Portovenere.

Ci siamo arrivati dalle ripide scalinate che partono da via Calata Doria.

Nel centro storico avviene la vita commerciale del borgo, con negozi di souvenir, botteghe artigiane, panetterie, bar e friggitorie.

A proposito di friggitorie, dopo un quarto d’ora di coda, ci siamo portati via un delizioso cono (coppetiello) di pesce fritto buonissimo.

Prima di salire al castello, abbiamo visitato una delle due chiese principali del paese.

La chiesa di San Lorenzo costruita dai Genovesi nel 1130, si presenta a tre navate, con grandi arcate supportate da colonne di pietra nera locale.

All’interno della chiesa abbiamo ammirato diverse opere, tra cui il dipinto della Madonna Bianca, protettrice del borgo.

Camminando, camminando, abbiamo raggiunto il Castello che si presenta come una fortezza maestosa, è stato edificato dalla Repubblica di Genova in difesa  dagli attacchi nemici.

Sinceramente ci aspettavamo di più dalla visita, che si è rivelata soltanto un’occasione per ammirare il Golfo dei Poeti dall’alto.

Riprendiamo il nostro camper e ci spostiamo per un giorno a Lerici tra castelli e mare.


Anche se le previsioni del tempo a Lerici non prevedevano nulla di buono, siamo partiti ugualmente.

A fine giornata  avevamo avuto modo di vedere i colori del mare in diverse condizioni meteo: prima con il cielo nuvoloso poi con pioggerellina e infine con il sole.

Nonostante tutto siamo stati fortunati perché ha piovuto solo per qualche ora.

In questo borgo in passato ci hanno abitato diversi letterati tra cui il poeta inglese Percy Bysshe Shelley.

La spiaggia Venere Azzurra è stato il punto di partenza per esplorare questo gioiellino di borgo.

Abbiamo parcheggiato il camper a circa 150 metri dalla spiaggia, da qui ci siamo diretti verso il centro di Lerici e più precisamente nella piazza principale piena di bar e ristoranti.

Questa piazza ha una vista sul mare e sul porticciolo davvero strepitosa.

E’ il cuore pulsante del paese, e qui si affacciano molte case colorate e si snodano stretti carruggi.

A Lerici abbiamo visto la Torre di San Rocco, di epoca romana, e visitato la chiesa di San Francesco d’Assisi.

Dopo aver pranzato ci siamo diretti a visitare il  Castello di Lerici, il Castello di San Giorgio simbolo del paese, accessibile a piedi oppure tramite un comodo ascensore.

Il Castello è situato sul punto più alto di un piccolo promontorio e da lassù si gode di una vista mozzafiato.

Purtroppo non abbiamo visitato l’interno perché alle 15,30 il castello era chiuso ma dev’essere davvero di notevole bellezza.

Ci siamo limitati ad una passeggiata sul perimetro esterno, con soddisfazione enorme per aver potuto scattare molte fotografie.

In pomeriggio siamo andati alla scoperta di San Terenzo fermandoci sulla spiaggia, abbiamo noleggiato un ombrellone e due sdraio e fatto un tuffo nelle acque di un mare trasparente trascorrendo alcune ore di relax.

Non potevamo partire senza aver visitato il Castello di San Terenzo, detto Bastia.

Lasciamo Portovenere e Lerici e salutiamo la Liguria, è stata una vacanza indimenticabile, partiamo per Napoli ma sicuramente  torneremo anche la prossima estate.

(Settembre 2022)

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