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Articoli

strade napoletane

Le antiche denominazioni delle strade napoletane

 

di Antonio La Gala

 

La toponomastica napoletana nasce formalmente alla fine del Settecento, ma di fatto è l'Ottocento il primo secolo a ufficializzare denominazioni dei luoghi.

Per quanto riguarda i termini che, nell'Ottocento, indicavano le "categorie" attribuite a strade e spazi pubblici di Napoli, essi non coincidevano con quelli usati oggi.

I percorsi principali, oppure le rare vie più ampie, venivano chiamati "strade". Le traverse venivano classificate "vichi", oppure "vicoletti", se si trattava di passaggi piccoli, e "strettole" se proprio di dimensioni veramente minime. I vichi poi, se erano coperti da un arco, erano chiamati "supportici".

Si definiva "fondaco" una specie di cortile chiuso o di via cieca, su cui si affacciavano abitazioni per il popolo più minuto. Quasi sempre erano luoghi affollati e sporchi tant’è che il nome fondaco è passato alla storia come l'habitat preferito dai vibrioni del ricorrente colera. Tuttavia il nome fondaco non era un termine dispregiativo perché non definiva una invivibilità del luogo ma la forma di cortile chiuso. Un esempio di fondaco "decente" è il fondaco Cancello di Ferro, al Vomero, un raggruppamento di vecchie abitazioni che sopravviveva da ultimo giapponese, fino a poco fa, in via Beniamino Cesi.

La denominazione "via" nell'Ottocento compare molto poco, mentre resisteva la forma "rua", equivalente francese di via, di origine angioina. Gli spazi liberi casualmente esistenti fra gli edifici, non frequenti e comunque di dimensioni quasi sempre modeste, venivano chiamati "larghi", nome con il quale si indicavano anche quei larghi, raramente"più larghi", che poi diventeranno piazze.

L'appellativo "piazza" era riservato, invece, agli spazi dedicati ai mercati. 

Interessante la distinzione fra le vie in pendenza; “Le vie erte son dette salite, se menano verso l’esterno della città, calate se conducono alla vecchia città; gradoni se hanno scaglioni; rampe se hanno più branche.” In qualche pianta o documento troviamo per le erte anche la denominazione "discesa". Per la verità la distinzione fra discese, salite e calate può suscitare qualche perplessità, perché ogni percorso ha sempre due sensi opposti, cioè una via in pendenza è contemporaneamente una discesa (sinonimo di calata), e una salita. In mancanza di ulteriori precisazioni, riteniamo che, per fare degli esempi concreti, il Petraio, i Cacciottoli e la Pedamentina erano salite perché menavano a zone oggi diventate centrali (Corso Vittorio Emanuele), ma allora esterne alla città, mentre Calata San Francesco conduceva alla vecchia città (Arco Mirelli).

La configurazione orografica di molte zone di Napoli, in particolare delle colline e dei villaggi attorno alla città, in passato rendeva frequente il nome "cupa". Nell'Italia centro-meridionale questo nome ancora oggi viene riferito a strade strette, incassate, per lo più nel tufo (ad esempio Cupa Gerolomini), oppure stradine anguste e disagevoli (ad esempio Cupa San Domenico, Cupa Camaldolilli),

Il nome cupa ricorda la concavità, la profondità (dal vocabolo latino cupa, botte, ciotola), e anche la connessa scarsità di luce (un aggettivo derivato è cupo).

Un'a denominazione che s'incontra nel mondo delle strade napoletane dell'Ottocento, per lo più riservata alle strade in pendenza, é "Imbrecciata". Il vocabolo ricordava l'uso di pavimentare questi percorsi con ciottoli, detti in dialetto vrecce o brecce.

A proposito delle pavimentazioni, a margine di queste notizie sui nomi, ricordiamo che le strade di Napoli nel Cinquecento venivano pavimentate con mattoni, abitualmente fabbricati e cotti nell'isola di Ischia. Dopo un non riuscito tentativo di usare i breccioni di fiume (come si usava a Roma), verso la metà del Seicento cominciò ad entrare nelle abitudini napoletane la pavimentazione con pietra vesuviana, i cosiddetti "basoli".

Recentemente la corrente di pensiero estetico che sta alterando l'aspetto della nostra città con un arredo dissonante con il contesto, ed estraneo alla nostra tradizione urbana, la corrente "à la page" che si ispira con disinvoltura alle patinate riviste di architettura contemporanea che illustrano i nuovi quartieri delle grandi città del mondo tutto, sta sostituendo i basoli con piastrelle di materiale artificiale. Un uso che toglie alle nostre strade storiche il loro aspetto caratteristico, e, cosa peggiore, sostituendo il solido manto lapideo ad incastro con la fluida posa di elementi artificiali, complice anche una non sempre buona esecuzione dei lavori, realizza pavimentazioni “a tastiera di pianoforte”, di durata effimera e anche con la sofferenza di chi le percorre, specialmente quando piove.

(Dicembre 2021)

IL RAGU'

Miti napoletani di oggi.90

IL “RAGU’”

 

di Sergio Zazzera

 

Quello che piaceva a Eduardo «’o ffaceva sulo mammà»; a casa mia, una vecchia zia di mio padre, che viveva con noi. Sia chiaro: quello napoletano non è quello bolognese, fatto con la carne macinata e il trito di cipolla, carota e sedano, né quello francese, il ragoût (“stracotto”, in italiano), dal quale discende la nostra storpiatura onomastica. A Napoli il ragù si fa col braciolone (grosso involtino) di maiale, rigorosamente legato con lo spago, ovvero, per i meno abbienti, con le tracchiulélle, spuntature delle costole del suino, più ossa, che carne, e con la conserva di pomodoro; il tutto fatto cuocere a fuoco lentissimo (pippià’), per almeno quattro ore, in un tegame di coccio, e adoperato per condire le “candele spezzate”.

Il mito relativo è il frutto della concomitanza di più dati: a) in quale casa napoletana si fa più la conserva?   b) chi ha più la pazienza di rimestare il tutto per quattro ore, per evitare che si attacchi al fondo del tegame?   c) chi usa più il tegame di coccio?   d) Si vendono più le “candele”? e c’è più chi abbia voglia di spezzarle?   

Dunque, continuare a chiamare ragù quel sugo che può ricordare soltanto alla lontana il vero ragù napoletano è falso linguaggio, cioè mito. E quella roba che esce dalla pentola – di alluminio o di acciaio inox, che sia – e condisce le penne rigate o i tortiglioni corrisponde in maniera esatta all’eduardiana «carne cu ‘a pummarola».

(Novembre 2021)

THE PASSENGER

Miti napoletani di oggi.89

“THE PASSENGER”

 

di Sergio Zazzera

 

Vi fu un tempo in cui il concetto di “Guida” evocava immediatamente il Baedeker – e, magari, subito dopo, la “Guida rossa” del Touring  Club  Italiano –; poi, vennero quelle che io definii “preguide”, vale a dire, letture preparatorie di un viaggio, che consentivano, non soltanto d’individuare che cosa vedere, dove alloggiare e dove (e di che cosa) cibarsi, ma anche di farsi un’idea del “materiale umano” col quale ci si confronterà, prima di mettersi in cammino.

In tempi recenti, però, quello stesso concetto ha subìto un ampliamento (o, forse, una distorsione), che impone di ascrivere delle (cosiddette) “Guide” al mito. E una di queste è quella di Napoli della serie The Passenger, edita da Iperborea (Aa. Vv., The Passenger. Napoli, Milano 2021).

A dire il vero, nel caso che ci riguarda il mito – costituito dalla definizione di “Guida” – non è stato creato dagli autori o dall’editore, bensì da alcuni recensori, i quali, perciò, non hanno reso un buon servizio a quelli. Ora, non v’è dubbio che sulla discontinuità qualitativa dei contenuti eserciti sempre la propria incidenza la redazione “a più mani” di qualsiasi opera; qui, però, quello che in buona parte manca – e che quei recensori mostrano di non avere colto – è l’offerta, non dico dell’“accompagnamento per mano” attraverso la città, ma finanche di quell’aiuto preliminare alla comprensione di cose e di persone, alla quale ho fatto cenno più sopra.

Se, infatti, positivo è il contributo di Paolo Macry alla intelligibilità delle testimonianze attuali di passate gestioni amministrative particolarmente caratterizzate (Lauro, Bassolino, De Magistris; ma già mi manca Valenzi), viceversa, quello di Cristiano de Majo fa di tutto per non far capire che cosa è il Vomero, mentre quello di Francesco Abazia sulle nuove proposte musicali si rivela troppo tecnico per un pubblico composto in maggioranza da non addetti ai lavori. Perfino lo scritto più osannato dai recensori – quello, cioè, di Carmen Barbieri sui cimiteri – si risolve, in buona sostanza, piuttosto che in una panoramica della realtà cimiteriale napoletana, nella narrazione (peraltro, condotta con scaltrita mano affabulatoria) di una realtà genealogico-famigliare del tutto personale. E ciò, soltanto per soffermarsi sugli esempi più evidenti.

Mi permetto, dunque, di suggerire a quei recensori che sarebbe il caso di soppesare le parole, e d’inquadrare i concetti ch’esse esprimono, prima di plasmare definizioni di natura mitologica.

(Ottobre 2021)

Lo sciaraballo

 

Gli sciaraballi

 

di Antonio La Gala

 


Nell'Ottocento, fino all'avvento della ferrovia, lo stato dell’arte nel campo dei trasporti per via di terra non era sostanzialmente dissimile da quello dei millenni precedenti, durante i quali per spostarsi o per trasportare cose, l’uomo non aveva trovato di meglio che sfruttare la forza degli animali asserviti: il cavallo, il mulo, l’asino, i buoi. Babbo Natale oggi usa ancora la renna.

In quel secolo, nella Napoli dei Borbone come si muovevano i nostri antenati?

I collegamenti a lunga percorrenza, cioè per località fuori città, per chi non disponeva di mezzi propri, erano effettuati con diligenze, gestite da privati, per il cui servizio esistevano regolamenti ed "orari ufficiali", i quali fornivano anche consigli su come affrontare i disagi e i pericoli del viaggio.

Il trasporto urbano, sempre per chi non disponeva di mezzi propri, avveniva mediante noleggio di carrozzelle e carrozze. Esistevano cioè degli affittacarrozze, sempre privati, che scarrozzavano la gente per la città, con clientela fissa o saltuaria o a richiesta, chi "in regola" e chi abusivamente, per una o più persone.

Un periodico del 1833 descrive queste carrozze, definendole "carrettoni", "carri bislunghi che non sono nè bighe né quadrighe, perché tirati da tre ineguali ronzini". Sostanzialmente si trattava il più delle volte di diligenze di città "a panche", ciò che i francesi chiamavano "Char à bancs", e che i napoletani tradussero in "sciar a ball", quindi "sciaraballo".

Occorre ricordare che le strade della città, in cui gli sciaraballi e gli altri veicoli portavano in giro la gente, erano i vicoli della Neapolis greco-romana, città ampliata nei secoli successivi con i vicoli dei quartieri dentro e fuori le mura. Gli sciaraballi, quindi, si muovevano nei vicoli dei quartieri spagnoli, delle zone del Porto, del Mercato, dei borghi Stella, Vergini, Sant'Antonio Abate, ecc. Non proprio dei boulevard.

Le condizioni di traffico migliorarono con Ferdinando II, che promosse alcune significative sistemazioni viarie, fra cui la sistemazione della strada dei Fossi, oggi Corso Garibaldi (strada divenuta importante dopo la costruzione della stazione della ferrovia Napoli-Portici), la definitiva sistemazione di Via Foria, l'apertura di Corso Vittorio Emanuele, l'allargamento di Via Duomo.

Per quanto riguarda il numero dei mezzi di trasporto circolanti a Napoli,  nel 1845 si contavano circa 25 sciaraballi-omnibus, oltre a quasi ottocento carrozzelle da noleggio, fra chiuse ed aperte.

A titolo di curiosità annotiamo, fra i mezzi di trasporto censiti in quell'anno, anche sedici portantine, più quelle che i teatri riservavano agli artisti.

Un giorno di settembre del 1860 i napoletani videro comparire Garibaldi, e subito dopo una nuova amministrazione “forestiera”, ma per qualche anno ancora nulla videro cambiare nel mondo degli sciaraballi: il trasporto pubblico continuò ad essere basato sul rilascio di licenze per singoli sciaraballi e per singole carrozzelle.

Con gli anni, però, la domanda di trasporto pubblico andava crescendo. Attorno al 1863 si cominciò a sentire l'esigenza di regolamentare diversamente la materia: per gli sciaraballi cominciò un'altra era, poi correranno su binari, ma prima di staccare per sempre i cavalli dai "carrettoni", passeranno ancora decenni.

(Novembre 2021)

Una giornata particolare

Una giornata particolare

 

di Antonio La Gala

 

 

Una giornata particolare è il titolo di un film di Ettore Scola che racconta una giornata, particolare sotto l’aspetto esistenziale, personale, vissuta da due personaggi (interpretati da Sophia Loren e Marcello Mastroianni) sullo sfondo della giornata particolare vissuta a Roma per la visita di Hitler, nel 1938.

A quei tempi giornate particolari, “segnate dal destino” o “dalla Storia”, erano frequenti.

Una di esse fu quella vissuta a Napoli, in particolare a Fuorigrotta (“la storica zona Flegrea risorta per il genio di Mussolini”), il 9 maggio del 1940, sullo sfondo festosamente osannante a un regime che, appena un mese dopo, avrebbe  fatto precipitare gli osannanti nell’immane tragedia bellica.

Già da tempo in città c’era “una vibrante attesa” per l’imminente inaugurazione di importanti opere pubbliche.

Il primo maggio un treno della Cumana, con a bordo Prefetto, Podestà, Federale, autorità e tecnici vari, aveva inaugurato il nuovo tratto di linea sotterranea a Fuorigrotta, costruito per disimpegnare dalla vecchia linea in superficie la zona dove era sorta la Mostra Triennale d’Oltremare. Lungo il nuovo tratto di 1880 metri di galleria artificiale erano sorte ex novo due stazioni, quella di Leopardi e quella Oltremare.

L’8 maggio fu inaugurata la funivia da Fuorigrotta a via Manzoni.

La giornata veramente “particolare” fu il 9 maggio: ricorreva l’annuale della fondazione dell’Impero tornato sui colli fatali di Roma. La società di trasporto SEPSA decise significativi miglioramenti economici ai suoi dipendenti “in occasione del 9 maggio per solennizzare la data di fondazione dell’Impero che per volontà del Duce segna una tappa del più fervido sviluppo di Napoli”. La Commissione toponomastica “con voto unanime propose di denominarsi Galleria 9 maggio la galleria di Piedigrotta ricostruita”. “Autorità visitarono nuove opere sorte per un’imponente e degna sistemazione del Dopolavoro Ferroviario di Corso Garibaldi 394”.

Furono aperte moderne filovie da piazza Vittoria al Capo di Posillipo e da piazza Vittoria a Piazza S. Luigi, “dando un primo notevolissimo apporto alla invocata e opportuna sistemazione del servizio autofilotranviario cittadino”.

Inoltre furono inaugurate la nuova sede del Banco di Napoli in via Roma, il Collegio della GIL (Gioventù Italiana del Littorio) Costanzo Ciano (poi sede della Nato di Bagnoli), l’Istituto Motori, ma soprattutto la Mostra Triennale d’Oltremare, inaugurazione alla quale intervenne anche il Re, da poco anche Imperatore. L’evento sanciva il ruolo della città e del suo porto, come punto di riferimento delle allora recenti conquiste coloniali dell’Italia in Africa.

Per la verità questo punto di riferimento si risolse nell’essere, da lì a qualche mese, il punto di partenza di migliaia di militari, inviati al macello in Africa, e il punto-bersaglio dei feroci bombardamenti alleati.

Oggi, meno ambiziosamente ma più utilmente, la Mostra serve per esposizioni e vaccinazioni anticovid.

I virgolettati di questo articolo sono ricavati dall’osannante quotidiano Roma di quei giorni.

(Ottobre 2021)

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