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…QUEL CH’E’ DI CESARE   di Sergio Zazzera   La Costituzione della Repubblica italiana afferma, all’articolo 7, comma 1°, il principio secondo cui...
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SI E’ CONCLUSO IL GIRONE D’ANDATA DEL CAMPIONATO DI CALCIO   di Luigi Rezzuti   Ad aggiudicarsi il girone d’andata è stata, come da previsioni, la...
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Articoli

Risanamento fine Ottocento

Risanamento fine Ottocento e conservazione delle memorie storiche.

 

di Antonio La Gala

 

Gli imponenti interventi edilizi, attuati a fine Ottocento nel vecchio cuore storico di Napoli, nell’ambito del Risanamento urbanistico e igienico della città dopo il colera del 1884, comportarono lo sventramento di buona parte dell’antico centro che i secoli avevano tramandato in uno stato di gravissimo degrado, soprattutto igienico. Tuttavia, come è ovvio, questa parte vecchia, proprio perché tale, custodiva parti considerevoli della memoria storica della città. Abbatterla per risanarla significava anche disperdere memorie secolari che vi si erano sedimentate, raccontate dalle chiese, dagli edifici, dai luoghi, dai loro nomi.

Gli interventi del Risanamento erano così radicali che il rischio che scomparisse per sempre, e del tutto, il ricordo di interi momenti della storia cittadina, era una realtà, soprattutto perché gli interventi andavano a sconvolgere i quartieri Porto, Pendino, Mercato e Vicaria, i più antichi, i più ricchi di storia, cioè la zona portuale e intere zone della Napoli Angioino-Aragonese-Vicereale.

Purtroppo, a quell’epoca, ancora non era maturata quella sensibilità verso la conservazione del passato, che a noi oggi sembra del tutto scontata.

Ad esempio, nel 1861, Marino Turchi auspicava la demolizione dei vecchi muri dei chiostri e della “incomoda sporgenza della Croce di Lucca”. Nel 1873 la Sezione di Architettura degli Scienziati, Artisti e Letterati scriveva che Castel dell’Ovo “non ha più ragion di essere in piedi. Forse per qualcuno potrebbe avere solo valore il desiderio di ricordare”.

Anche gli storici ed eruditi, a cominciare da Bartolomeo Capasso, che presiedeva la commissione comunale per la salvaguardia dei monumenti, nonché gli intellettuali che, dal 1882 in poi, dettero vita alla rivista “Napoli Nobilissima”, pur lavorando molto sul versante della ricerca filologica sulle vestigia antiche della città, nei fatti sposavano in pieno l’ideologia demolitrice del Risanamento.

Gli intellettuali si chiusero a ingaggiare puntigliose battaglie per conservare isolatamente questa o quella chiesa, spostare o no, qua oppure là, un portale, e cose simili. Cioè badarono alla salvaguardia di frammenti della città, ma non alla conservazione dell’insieme.

A parziale giustificazione va, però, ricordato che le condizioni igieniche delle zone interessate dalle antichità erano così spaventose che anche nelle menti migliori prendeva il sopravvento l’idea che era necessario far piazza pulita delle “pietre vecchie”.

Bartolomeo Capasso, ad esempio, scriveva: “La Napoli antica è condannata a sparire. I supportici, che accavalcando le vie, impediscono all’aria e alla luce di liberamente diffondersi in quelle, si tolgono, i fondaci ove la gente si ammucchiava in luridi covili, si aprono, e finalmente i vichi stretti e tortuosi, si allargano in dritte strade, fiancheggiate da comode case e magnifici palagi”.

La Matilde Serao del “Ventre di Napoli”, criticando l’aspetto estetico dei nuovi edifici, tuttavia li accettava per come essi erano perché, precisava, occorreva vederli “con gli occhi ancora offesi della sozzura antica della Napoli morente” Da questo contrasto fra le esigenze del Risanamento e della conservazione delle vestigia storiche della città, emerge ancora una volta la contraddittorietà di una città in cui la storia ha sedimentato e intrecciato situazioni e problemi in un connubio inscindibile e inestricabile di miseria e nobiltà.

(Marzo 2021)

IN TEMPO DI COVID-19

Miti napoletani di oggi.86

IN TEMPO DI COVID-19

 

di Sergio Zazzera

 
 

La premessa è sempre quella della reiterazione del rito che produce il mito; e questa volta l’applicazione del principio è fatta al tempo del Covid-19, nuova manifestazione della locuzione medioevale tempore pestis.

Il rito (anzi, i riti): Lungomare (e non soltanto) invaso da pedoni, molti dei quali privi di mascherina e non distanziati; ristoranti, bar e baretti affollati da avventori, anche qui senza l’osservanza delle distanze e senza l’uso della mascherina (come si può sorbire il caffè con la mascherina? = ogni scusa è buona); occupazione delle scuole per protestare contro la d.a.d. (una volta tanto, un acronimo non anglofilo, corrispondente a “didattica a distanza”).

Il mito: l’intenzione più evidente è quella di esorcizzare la pandemia; un’esorcizzazione da “Trionfo di Bacco e Arianna” di lorenziana memoria («chi vuol esser lieto, sia», anche se, questa volta, del “doman” si può dire che vi siano elevatissime probabilità di “certezza”). Una considerazione, in particolare, va fatta, però, a proposito della protesta degli studenti, i quali per decenni hanno occupato le scuole con i pretesti più diversi, con la reale finalità di ostacolare le attività didattiche: ebbene, ora, in maniera quanto mai singolare, protestano per ottenere il contrario.

Come che sia, tutti questi comportamenti non fanno altro che aggravare la situazione sanitaria, già di per sé tutt’altro che leggera; e il nucleo essenziale del mito è proprio questo.

(Marzo 2021)

Evemerismo

Miti napoletani di oggi.85

EVEMERISMO NAPOLETANO

 

di Sergio Zazzera

 

Evemero di Messene del Peloponneso è un mitografo, vissuto fra il IV e il III secolo a. C., sostenitore della dottrina, secondo cui gli dei altro non sarebbero, che uomini eccezionali, divinizzati dai loro contemporanei e dai posteri, proprio per tale loro eccezionalità.

Non si pensi, però, che tale fenomeno fosse peculiare dei suoi tempi: ancora oggi, infatti, a Napoli ci s’imbatte in episodi di “santificazione laica”, quanto meno, sconcertanti, ai principali dei quali intendo fare cenno qui di seguito.

1.- Totò. Del “Principe della risata” mi sono già occupato, per altro verso, da queste (web-)pagine. La considerazione “evemeristica” del personaggio dev’essere ravvisata, non tanto nelle manifestazioni di isterismo collettivo che ne accompagnarono il funerale napoletano, celebrato nella basilica del Carmine Maggiore, quanto in quello “finto” – a bara vuota –, svoltosi nel suo quartiere della Sanità e nella sua “santificazione laica”, mediante pseudoedicole devozionali: sarebbe stato preferibile – perché più serio – affidarne la memoria cittadina a monumenti, come quello del Rione Alto, e a quel museo, che non si sa se vedrà mai la luce.


2. Pino Daniele. Non v’è dubbio che il grande merito del musicista, prematuramente scomparso, sia stato quello d’innovare la musica napoletana, mediante composizioni che rivestono di note d’ispirazione americana i testi dialettali (diversamente da James Senese, che “napoletanizza” musiche dalla struttura autenticamente americana). Ciò non toglie che pretendere di collocare il suo enorme ritratto, progettato dall’artista Jorit, sulla facciata del palazzo delle Ferrovie, in piazza Garibaldi, opera di Pierluigi Nervi, avrebbe snaturato un’opera architettonica che, per quanto non sottoposta a vincolo, ha pur sempre una sua connotazione complessiva, alla quale qualsiasi commistione (foss’anche mediante un’opera di Leonardo o di Michelangelo) potrebbe soltanto nuocere.

3. Maradona. Anche del campione recentemente scomparso mi sono già occupato, per altro verso, da queste (web-)pagine. Individuo la sua esaltazione evemeristica negli episodi verificatisi nei giorni immediatamente successivi alla sua dipartita; e non tanto negli assembramenti nei pressi dello stadio, con deposizione di fiori, lumini e quant’altro possa assicurare, nell’immaginario popolare, il suffragio ai defunti, quanto, soprattutto, nella celere intitolazione a lui dello stadio medesimo, sostituendo il suo nome a quello di Paolo di Tarso. In proposito, si rifletta: gli assembramenti si sono svolti in assoluta violazione dei protocolli anticovid; l’intitolazione ha violato, a sua volta, la normativa sull’osservanza dei termini in materia. E mi si consenta di ricordare che a Milano gl’incontri di calcio si giocano nello stadio “Meazza - San Siro”: dunque, che cosa vi sarebbe stato di male a dare a Napoli uno stadio “Maradona - San Paolo”? Tanto più che il santo passò dalle nostre parti, per recarsi a Roma, a subire il martirio; il campione, viceversa, venne – e si fermò – per “fare soldi” (come si dice dalle nostre parti).

(Gennaio 2021)

culto francescano

La tradizione del culto francescano in Campania

 

di Antonio La Gala

 

San Francesco, durante i suoi viaggi, passò anche per la Campania, dove visitò le prime piccole comunità di suoi seguaci che, in quegli anni, vi stavano nascendo.

Come avvenne per il resto della cristianità, la devozione per il Santo di Assisi durante i secoli crebbe, alimentandosi anche del culto dei vari santi dell’Ordine da lui fondato, appartenenti ai diversi rami in cui, nel tempo, l’originario albero del francescanesimo si andava articolando.

Fra le devozioni più sentite nella religiosità popolare campane, in particolare nell’area napoletana, occupano un posto privilegiato quelle per San Francesco e Sant’Antonio di Padova.

Queste due particolari devozioni sono testimoniate dall’uso esteso dei nomi Francesco e Antonio nelle famiglie napoletane e campane, nonché dal numero elevato di chiese e di conventi francescani e dalla infinità di cappelle ed edicole devozionali, edificate in onore dei due santi, in ogni luogo, nelle strade, nei cortili, negli aggregati urbani e nelle campagne. Senza parlare delle statue e dei quadri dei due santi presenti in tutte le chiese, di qualsiasi titolo od ordine, sempre onorate da numerosissime luci accese.

Inoltre, chiunque si soffermi ad osservare nei mercatini di antiquariato le raccolte dei “santini”, cioè di quelle piccole immagini sacre tascabili, che da secoli vengono distribuite presso i fedeli, accompagnandoli in tanti momenti della loro vita, costaterà il posto di rilievo che hanno i santi francescani.

Fra le altre testimonianze ricordiamo l’usanza, diffusa in passato, di vestire alla francescana i bambini, in particolare per devozione e riconoscenza a Sant’Antonio.

Questa usanza, pur risalendo a molti secoli fa, è sopravvissuta, presso i ceti meno abbienti, nei quartieri popolari, nei paesi e nelle campagne, fino a quasi metà Novecento. I fanciulli erano vestiti con un saio, con tanto di cappuccio e di cordone.

Il fervore religioso verso i santi francescani in passato veniva espresso anche nelle tavolette votive, toccanti testimonianze di fede, raccolte un po’ in tutti i santuari e, in misura rilevante, nel Santuario della Madonna dell’Arco.

In esse si può rilevare che i santi francescani sono stati invocati nelle circostanze più disparate, in contemporanea con la Madonna dell’Arco. Ad esempio in una tavoletta del Cinquecento un condannato a morte graziato e la moglie ringraziano la Madonna dell’Arco e Sant’Antonio, rappresentato in alto a destra, in ginocchio e con le mani giunte, per farsi intermediario con la Vergine.

In una tavoletta del secolo successivo viene mostrata una scena di tarantella, animata da un giovane guarito dal tarantolismo, in cui appaiono, assieme alla Madonna, San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola.

Questi sono solo alcuni esempi, perché i santi francescani, assieme peraltro ad altri santi, come San Giuseppe, San Gennaro, ecc. popolano moltissime tavolette in cui compaiono le eruzioni del Vesuvio, le imboscate dei briganti, le cadute da cavallo o dai carri agricoli e, in genere. tutte quelle situazioni in cui è naturale invocare l’aiuto del soprannaturale.

A conclusione di questa veloce e sommaria rievocazione di un aspetto così importante della vita dei nostri antenati, della nostra cultura, non solo popolare, esprimiamo rammarico nel costatare che le residue testimonianze di tanta devozione sembra non interessino quasi più nessuno, nemmeno a titolo puramente di documentazione storica, tant’è che esse, in concomitanza con l’affievolirsi del senso del religioso che le aveva prodotte, attraversano una fase di dispersione.

È troppo poco affidare le testimonianze di queste devozioni ai collezionisti dei “santini”, che frequentano i “mercatini delle pulci”, come, ad esempio, i santini sparsi (peraltro poco rispettosamente) sui gradini della scalinata sotto la Posta Centrale.

(Marzo 2021)

Meno male che il santo c’è

Meno male che il santo c’è

 

di Antonio La Gala

 

 

      I recenti preoccupati commenti sul mancato miracolo di San Gennaro di metà dicembre,hanno fatto ricordare che i napoletani hanno sempre considerato e venerato il loro Patrono, San Gennaro, come un costante punto di riferimento nelle non poche loro difficoltà, un santo che da secoli assicura e promette la sua protezione. Tralasciando la vexata quaestio dal punto di vista teologico sul famoso miracolo, ci limitiamo a rilevare sull’argomento solo qualche curiosità storica.  

Nel Cinquecento, a Napoli, la venerazione per San Gennaro già vantava una tradizione millenaria, da quando agli inizi del V sec. i napoletani avevano traslato i resti del santo da Pozzuoli alle catacombe vicino Capodimonte. Quando, nel 1526, tanto per cambiare, Napoli visse un anno difficile, fra l’assedio dei Francesi e un’epidemia di peste, i napoletani invocarono proficuamente San Gennaro, facendogli poi voto di costruire una cappella in suo onore per custodire più degnamente le sue ossa, che, nei secoli precedenti, avevano girovagato più volte per vari luoghi di sepoltura.

Infatti nell’831, tranne le ampolle e il cranio, erano state spostate da Capodimonte a Benevento e,  circa tre secoli dopo, nel santuario di Montevergine, dove restarono fino a metà Quattrocento, quando gli Aragonesi le riportarono di nuovo a Napoli. 

Torniamo alla pestilenza del 1526.

Ricevuta la grazia, a gennaio dell’anno successivo, i napoletani, per sciogliere il voto, stipularono un atto notarile con il santo a proposito della cappella promessa nel voto. Si vede che, anche a quei tempi, l’esecuzione di opere pubbliche andava per le lunghe: i lavori per la costruzione della cappella del Tesoro di San Gennaro, decisi nel 1527, iniziarono nel 1608. Essi furono curati dalla Deputazione, un’apposita istituzione di natura comunale, deputata anche alla custodia del sempre più crescente Tesoro e a garantire l’intangibilità delle sacre ampolle e delle reliquie del santo.

Nel Seicento le cose a Napoli non andarono meglio del secolo precedente, anzi quello fu un secolo horribilis, fra 11 eruzioni (la più grave fu quella del 1631), tre terremoti, due carestie, la rivoluzione di Masaniello del 1647 e la grave epidemia di peste del 1656.

L’eruzione del 16 dicembre 1631, la peggiore dopo quella che seppellì Pompei nel 79 d.C., arrivò dopo ben 492 anni di riposo del vulcano, essendo la precedente  avvenuta nel 1139, cioè l’anno dell’ingresso a Napoli dei Normanni. L’eruzione del 1631 procurò, nella discesa della lava fino al mare, 18.000 morti e rappresentò uno dei momenti di maggiore rischio per la città, che, anche in quella occasione, trovò conforto nell’aiuto del suo santo, che ringraziò elevandogli una guglia in piazzetta Riario Sforza, opera di Fanzago.

Anche dopo la peste del 1656 i napoletani ringraziarono il santo, con la costruzione di un ospizio per i poveri, chiamato, appunto, San Gennaro dei Poveri.

Nel Settecento il numero delle eruzioni fu superato: se ne contarono 19, numero anch’esso superato nell’Ottocento, quando se ne contarono 26 (in media una ogni 4 anni), sebbene meno tragiche di quella del 1631.

Una delle prime eruzioni del Settecento fu quella del 31 luglio 1707: mentre la città festeggiava la fine della dominazione spagnola e la venuta del suo nuovo padrone - gli Austriaci - le case tremarono e il Vesuvio cominciò improvvisamente ad eruttare fiamme, fumo e lapilli.

Anche in questa occasione San Gennaro mostrò la sua benevolenza.

Nella città in  preda al terrore, una processione uscì dalla Cattedrale, poco prima di mezzanotte, capitanata dall’arcivescovo Pignatelli e dal nuovo viceré, stavolta austriaco, conte di Martinitz. La statua del santo fu trasportata a Porta Capuana, di fronte al Vesuvio. Si narra che, dopo pochi minuti, l’eruzione cessò, il cielo si schiarì e apparvero le stelle. Fu allora eretto, vicino alla chiesa di Santa Caterina a Formiello, un monumento al santo, che non è quello che si vede oggi, perché è stato rifatto nel 1793.

Il Vesuvio si ripresentò l’8 agosto 1779. Quando il giorno successivo l’eruzione s’intensificò, una processione portò una statua del santo fino al ponte della Maddalena. Narrano i cronisti che l’eruzione cessò quasi per incanto.

Il Settecento vulcanico nei primi anni dell’Ottocento dette il cambio eruttivo al nuovo secolo. E fu di nuovo San Gennaro a porre rimedio, perdonando uno sgarbo dei napoletani, che in quella occasione dovettero pensare che chi lascia il santo vecchio per il nuovo, sa il santo che lascia ma non sa quello che trova.

Infatti,poco prima di un’eruzione di inizio Ottocento, i napoletani avevano licenziato San Gennaro dall’incarico di patrono e lo avevano sostituito.

Perché lo avevano esonerato? Che aveva combinato?

Quando nel 1799 Napoli cadde in mano ai Francesi e ai Giacobini, il santo fu chiamato alla resistenza contro l’invasore. I preti addetti avevano assicurato che il primo sabato di maggio il santo, per protesta contro i Francesi, non avrebbe fatto il miracolo. Poiché, però, il popolo credeva che un’assenza del miracolo comprometteva la prosperità della città, scoppiarono tumulti.

Alle otto di sera di quel sabato di maggio, quando una turba di gente inferocita cominciava a diventare pericolosa per l’ordine pubblico, i Francesi intimarono al santo, armi in pugno, di fare il miracolo.

Non glielo intimarono direttamente, anche perché essi, figli della Rivoluzione, dei Lumi e devoti solo alla Ragione, con i santi avevano rotto i rapporti. Si rivolsero, come si fa in diplomazia, a intermediari, agli addetti ai lavori, al prete che doveva officiare la cerimonia, concedendogli dieci minuti per fare accadere il miracolo, allo scadere dei quali sarebbe stato fucilato.

Forse non sentendosela di far fucilare il poveretto, il santo fece il miracolo.

Apriti cielo. I napoletani lo accusarono di aver fatto un endoserment agli occupanti. Accusato di collaborazionismo con il nemico, fu destituito dall’incarico di patrono, sostituito,  e una sua scultura fu gettata in mare.

Quando, poco dopo, partiti i Francesi, si presentò un’altra eruzione, i napoletani, delusi dai santi neoassunti, si pentirono, e ritenendo che solo San Gennaro, secondo tradizione, sarebbe riuscito a fermare la lava, mandarono dei sub a recuperare la statua del santo. Ma non fu trovata. Intanto la lava avanzava. In zona Cesarini venne in aiuto un’altra statua del santo, portata in processione sul ponte della Maddalena, che andò incontro alla lava a braccia spalancate.

Al fermarsi della lava, gli ingrati napoletani, pentiti come la Maddalena del ponte omonimo, reintegrarono il santo nelle sue secolari funzioni di sperimentato protettore. I Borbone fecero erigere, in ricordo dell’evento e per ringraziamento, una guglia vicino alla chiesa di Santa Maria di Portosalvo.

Chi lascia il santo vecchio per il nuovo….

(Gennaio 2021)

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