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 “Il broccolo”   di Antonio La Gala   Testimonianze della vita artistica e letteraria napoletana a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta ci...
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IL NAPOLI. Sorpresa del campionato di calcio di Serie A       di Luigi Rezzuti   Già dall’inizio del campionato di calcio di Serie A 2021 – 2022, si...
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Chiesa di Santa Maria della Rotonda   di Antonio La Gala   La chiesa di Santa Maria della Rotonda si trova al Vomero, nel collegamento fra via...
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CERTE MOSTRE

Miti napoletani di oggi.76

“CERTE” MOSTRE

 

di Sergio Zazzera

 

E' stata allestita, di recente, nella sede napoletana delle Gallerie d’Italia (Palazzo Zevallos-Stigliano - via Toledo, 185), la mostra “David e Caravaggio”, che vorrebbe approfondire la dipendenza stilistica dell’artista neoclassico francese Jacques-Louis David da Michelangelo Merisi, il pittore italiano, forse, più celebre di tutti i tempi.


Nella mostra il raffronto è istituito fra La morte di Marat del primo e la Deposizione nel sepolcro del secondo, delle quali, però, sono esposte, rispettivamente, una replica eseguita dagli allievi e una copia realizzata da Tommaso De Vivo (1824).

Ed ecco il mito, con la premessa che il discorso dev’essere ritenuto applicabile a qualsiasi altra esposizione ispirata agli stessi criteri. Pur a fronte, infatti, di quanto teorizzato da Walter Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, 1955), è legittimo dubitare dell’utilità di un siffatto genere di allestimenti espositivi, che offrono alla vista un “prodotto” (brutto vocabolo, ma non saprei quale altro adoperare) nel quale l’impronta personale dell’autore dell’opera originale è diluita da quella dell’esecutore della copia/replica. Il che, poi, è tanto più valido, quanto maggiore è la distanza cronologica fra l’originale e la copia/replica medesima; distanza che può avere determinato la formazione di nuove tecniche – stilistiche, ma anche materiali –, idonee a influire sul nuovo “prodotto”.

Nel caso in questione, poi, la mostra è completata dalla presentazione di altre opere di David, questa volta in originale, nonché da riproduzioni di dipinti suoi e del Caravaggio, le cui dimensioni sono state sensibilmente ridotte, il che consente di coglierne, pur se in maniera limitata, soltanto le analogie compositive. E, forse, a voler essere benevoli, potrebb’essere soltanto questa – e nessun’altra più – l’unica utilità di allestimenti del genere.

(Gennaio 2020)

SUPER-NAPOLI

Miti napoletani contemporanei.65

“SUPER-NAPOLI”

 

di Sergio Zazzera

 

Qualche tempo fa ho parlato del “mito-Napoli”; come se non bastasse, ora il sindaco annuncia un suo progetto di “Super-Napoli”, articolato in tre delibere, concernenti, rispettivamente, una Napoli “città autonoma”, la cancellazione unilaterale del debito contratto dalle gestioni commissariali post-terremoto ed emergenza rifiuti e, infine, una moneta locale aggiuntiva all’euro.

Un’analisi corretta del progetto richiede che si cominci dalla previsione della “città autonoma”, concetto non chiaro, per come presentato dagli organi d’informazione, ma che non potrebb’essere immaginato in maniera efficace, se non come una proclamazione d’indipendenza, alla maniera della Catalogna, che farebbe impallidire perfino la Lega e che determinerebbe evidenti conseguenze analoghe a quelle prodotte da quell’episodio.

Ciò perché soltanto un’autonomia espressa in termini di sovranità statuale potrebbe consentire alla città una qualsivoglia forma di monetazione: ricordo che il mio Maestro, Antonio Guarino, soleva affermare che “soltanto lo Stato ha la prerogativa di battere moneta”.


Entrambe queste delibere, poi, costituirebbero, in maniera palese, la premessa per il rifiuto del riconoscimento del debito “altrui”. Senonché, nella specie non si sarebbe in presenza di quello che i Romani definivano constitutum debiti alieni, dal momento che nei confronti dello Stato e dei suoi organi, in quanto soggetti giuridici impersonali, opera il principio di continuità della loro azione, con la conseguenza che il debito rimane sempre “proprio” dell’ente, il quale, quindi, non può sottrarsi, in ogni caso, all’obbligo di risponderne.

Con il che, credo che rimanga sufficientemente dimostrato il mito (di onnipotenza, s’intende).

(Settembre 2018)

Pompei

Miti napoletani di oggi.46

 

Pompei

 

di Sergio Zazzera

 

Fra i tanti esempi di urbanistica del mondo romano, pervenuti fino ai giorni nostri, Pompei è, forse – e benché meno ben conservato di altri, come Ercolano –, quello più interessante, perché più esteso e più eterogeneo; e a provvedere a tramandarlo alla posterità furono proprio quella colata lavica e quella pioggia di ceneri vulcaniche, che nel 79 d. C. seppellirono la città. Naturalmente, quando i lavori di scavo, realizzati durante la monarchia borbonica, sotto la direzione dell’archeologo Giuseppe Fiorelli, fecero riapparire la città, dei suoi edifici emerse soltanto la parte che non era crollata, né era stata arsa dalla lava infocata del Vesuvio. Ciò ha determinato la formazione del mito di Pompei, città «distrutta» dall’eruzione.

Perché io abbia definito “mitica” tale affermazione, è presto detto. Quanto meno, negli ultimi tempi, crolli si sono verificati, qua e là, in tutta l’area del parco archeologico, e la loro causa è ravvisabile, sostanzialmente, nell’omissione di quella manutenzione, della quale un bene culturale di tal genere – e soprattutto di tale natura, per giunta, pervenuto fino a noi – necessita. Per intenderci, se altrove – come a Palmira–, è occorsa la barbara azione distruttrice dell’Isis, perché la devastazione di un patrimonio archeologico avvenisse, a Pompei, viceversa, conservata dalla colata lavica, tutto è avvenuto, per così dire, “in famiglia”. Ovvero: Quod non fecerunt barbari…

(Ottobre 2016)



Nascita della stazione

Nascita della stazione di Napoli Centrale

 

di Antonio La Gala

 


Tutti i napoletani, quelli meno giovani, per esperienza diretta, gli altri, attraverso l’iconografia, in particolare mediante le cartoline illustrate, conoscono la vecchia stazione ferroviaria di“Napoli Centrale”, quella con gli archi.

Sotto quegli archi sono passati per quasi un secolo gioie e dolori di generazioni di concittadini: coppie che partivano gioiose per il viaggio di nozze; mamme angosciate che salutavano i figli, vedendoli partire per le numerose guerre che, scelleratamente, da fine Ottocento agli anni Quaranta del Novecento, hanno decimato le famiglie italiane.

Ma quando è comparsa quella stazione?

All’atto dell’Unità d’Italia, nonostante il tanto strombazzato primato della mitica Napoli-Portici, la rete ferroviaria del meridione contava solo due brevi linee, una fino a Nocera con diramazione per Castellammare, e la Napoli-Caserta-Capua. In tutto poco più di cento chilometri contro i duemila del resto d’Italia: il 5% per una estensione di mezza Italia. Partiti per primi, i treni borbonici risultarono ultimi.

Dopo l’Unità d’Italia, Napoli doveva essere collegata al resto della penisola. Si cominciarono, perciò, a realizzare nuove linee verso Napoli e una nuova stazione a cui attestarle adeguatamente. 

 Nel 1861 il Governo concesse a privati la realizzazione delle nuove linee e della stazione, e cominciarono pure i relativi lavori.

I principali progettisti di Napoli Centrale sono considerati Nicola Breglia, (l’autore della tomba di Leopardi e degli edifici attorno alla galleria Principe di Napoli), Carlo Paris, Raffaele Spasiano, Ludovico Bonino ed Alfredo Cottrau. Ma in realtà non si può individuare un unico autore della stazione, perché essa fu costruita secondo un progetto continuamente modificato da molte mani. In effetti i lavori per la stazione iniziarono senza che esistesse già un progetto ben definito, e il suo assetto definitivo fu il risultato di numerose varianti e modifiche, apportate ad un progetto originario del 1860-61, il quale ricalcava quello per la stazione di Milano, che peraltro prevedeva una stazione piuttosto diversa da quella che poi fu realizzata.

Urbanisticamente gli ideatori della stazione si proponevano di insediarla nel tessuto urbano come una porta d’ingresso nella città, ma la costruzione di una nuova grande stazione, diversa dalle due borboniche, già esistenti in Corso Garibaldi, al centro di un’area destinata alla futura espansione urbana, area che la presenza della nuova stazione andava a rivoluzionare, fu accompagnata da polemiche.

La scelta di insediarsi in quell’area inedificata, fra l’Arenaccia e Corso Garibaldi, fu avversata in particolare dal Comune, per la verità non completamente a torto.

Qualcuno propose addirittura di spostarla quando la stazione era stata già in parte costruita.

Finalmente la stazione fu aperta al traffico il 7 maggio del 1867.

I suoi binari rimasero scoperti ancora per tre anni, prima che agli inizi del 1870 si desse mano alla costruzione di una tettoia in ferro e vetro, opera di Alfredo Cottrau, che in quegli anni andava coprendo di tettoie in ferro le stazioni di tutta Italia. L’allora moderna struttura della copertura di Cottrau ben si coniugava con gli archi e timpani classici delle parti in muratura.

Architettonicamente fu realizzata in un sobrio stile neorinascimentale, seguendo le tendenze della cultura architettonica di quegli anni, in un linguaggio comunque estraneo a quello tradizionale di Napoli.

La stazione, con pianta ad “U”, aveva una facciata principale a doppio ordine, con loggia centrale e due blocchi laterali di testata, un portico perimetrale a piano terra, sale d’attesa, anch’esse differenziate (da quella “reale”, per soste di membri della famiglia reale, a quella, all’estremo qualitativamente opposto, “speciale” per gli emigranti), oltre ai necessari ambienti di servizio (biglietteria, ufficio telegrafico, amministrazione).

La nuova stazione si articolava in due fabbricati distinti, con una disposizione differenziata degli accessi: uno per le partenze e l’altro per gli arrivi. Il servizio si svolgeva quindi lungo le ali laterali, dove confluivano anche le carrozze pubbliche e private.

Dopo qualche anno l’impianto già era oggetto di critiche e lamentele per l’angustia e insufficienza degli spazi e perché, come scriveva la stampa, “si evidenziano i difetti di costruzione e in particolare nella tettoia”.

In un primo momento la stazione non era collegata direttamente con il centro di Napoli, perché per collegarla occorreva attraversare il vecchio agglomerato urbano. Per andare dalla stazione al centro si percorreva Corso Garibaldi fino alla Via Nuova Marittima e lungo questa si raggiungeva Piazza Municipio. Il collegamento diretto con il centro sarà realizzato alla fine degli anni Ottanta, quando il Risanamento aprirà Corso Umberto.

Nelle immagini più antiche, davanti la stazione, fra omnibus e carrozzelle, compare un giardino semicircolare, con un’aiuola da cui spuntava una statua della sirena Partenope, che negli anni Venti del Novecento verrà spostata in Piazza Sannazaro.

L’assetto, finora descritto di Napoli Centrale, rimase sostanzialmente stabile fino agli anni Venti del Novecento, quando la stazione subirà un primo rimaneggiamento interno in occasione del suo allacciamento alla direttissima Roma-Napoli e diventerà, contestualmente, anche stazione della metropolitana per Mergellina-Pozzuoli, come vedremo in un successivo articolo su questa stazione napoletana.

(Novembre 2017)

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