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Vomero, la Montmartre di Napoli   di Antonio La Gala   Nella storia della pittura napoletana della fine dell'Ottocento e della prima metà del...
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Emilio Notte: difficoltà di rinnovare la pittura   di Antonio La Gala   Emilio Notte è forse l'esempio più rappresentativo della difficoltà che la...
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ASSEMBLEA ANPI SEZIONE COLLINARE "AEDO VIOLANTE"   (Marzo 2024)
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Un “Gigante” della pittura

 

di Antonio La Gala

 

Su Giacinto Gigante e sulla sua opera pittorica esiste una letteratura vastissima e quindi sarebbe ingenua e velleitaria presunzione cimentarsi ad affrontare l’argomento. La breve trattazione svolta in questo articolo si propone perciò solo a contribuire alla conoscenza di questo pittore per chi vi si avvicina avendo scarsa familiarità con la storia della pittura napoletana.

Il padre di Giacinto Gigante, Gaetano, anch'egli pittore, chiamò il figlio Giacinto in onore di Giacinto Diano, di cui Gigante padre era allievo. La famiglia napoletana dove l'11 luglio 1806 l'Artista nacque, fu una famiglia di pittori: oltre al padre furono pittori ben quattro dei sette figli.

Giacinto s'impiegò giovanissimo nel Regio Ufficio Topografico di Napoli, ove conobbe Achille Vianelli che lo presentò al vedutista accademico tedesco Wolf Huber, da cui egli imparò i primi rudimenti, soprattutto su come impostare le vedute, nel cui studio però Giacinto stette pochi mesi. Nei primi anni di attività egli si recò per un breve periodo anche a Roma e si impegnò come litografo ed incisore, ma ben presto preferì seguire il suo estro artistico, cimentandosi come acquerellista.

La svolta artistica di Gigante fu l'incontro con Pitloo, fondatore della “Scuola di Posillipo”, i cui soggetti preferiti, rappresentati con rapide pennellate-impressioni, erano semplici scene di vita quotidiana, riproduzioni luminose del golfo di Napoli, della sua costiera, delle sue isole. Di questa scuola Giacinto Gigante viene considerato il maggiore esponente. Egli si emancipò presto dal Pitloo con spontanee ed estrose vedute per lo più ambientate nel Golfo di Napoli ed a Posillipo. Successivamente l'artista si accostò ai paesaggisti romantici europei di maggiore levatura, come Turner, Bonington, Corot. Da Turner, in particolare, trasse la vivace libertà di tocco, l'abbreviatura formale, e l'arioso luminismo con cui espresse una versione lirica del paesaggio partenopeo, liberandosi dal gusto per il "pittoresco" della tradizione vedutistica, di cui tuttavia conservò l'impianto scenografico, senza però cadere nello scenografismo perché conservò sempre il rigore prospettico e la fedeltà illustrativa appresa da Hubert. "Per Gigante, paesista sommamente dotato, la natura era uno spettacolo immenso e sempre cangiante nella fenomenologia atmosferica, che andava fissata nei suoi aspetti più suggestivi" (Alfredo Schettini).

L'immediatezza dello spunto emotivo gli riuscì meglio negli acquerelli e nelle tempere, grazie alla tecnica specifica di queste forme di pittura. Negli ultimi anni al paesaggio cominciò a preferire la rappresentazione di interni e la figura (la solitudine dei chiostri religiosi, la forza della fede nelle chiese, il sacrificio della clausura, ecc.), avvicinandosi così maggiormente ai valori allora emergenti della pittura romantica, uscendo di fatto dalla catalogazione di pittore della "scuola di Posillipo".

Alcuni critici, per la sua libertà di tocco, nervoso ed impreciso, l'abbreviatura formale e l'ariosa luminosità dello stile, considerano Giacinto Gigante uno dei precursori dell'impressionismo

Sebbene insofferente dell'accademismo fin dagli inizi della sua attività, poco dopo i vent'anni il pittore si iscrisse all’Istituto delle Belle Arti, i cui alunni interni beneficiavano dell'esonero alla coscrizione militare. La sua passione per il vero lo portava a percorrere lunghi tratti boschivi, spesso scoscesi, impervi, fino a quando trovava il punto di osservazione ed il paesaggio giusto da fissare.   Di carattere scontroso, fu in continuo dissidio con i docenti dell'Istituto. Alcuni  lo descrivono di aspetto rude, schivo e sornione, un artista che insieme all'arte amava le donne e la buona tavola. Nel 1831 sposò Eloisa, la sorella di Achille Vianelli.

Entrò nelle grazie della corte borbonica, per la quale nel 1830 pubblicò la raccolta di litografie "Vedute di Napoli e dintorni" ed anche nelle grazie della corte zarista per la quale nel 1846, dopo che aveva accompagnato cinque anni prima in Sicilia l'imperatrice di Russia, compose un "Album di vedute dell'Isola". Nel 1849 accompagnò poi, nella veste di pittore di corte, Ferdinando II, per documentare paesi e monumenti. E’ di committenza reale "Napoli vista dalla tomba di Virgilio" Insegnò disegno alle figlie di Francesco II e spesso si recava presso i reali a Gaeta.

L'avvento dell'Unità d'Italia non influì sulla continuità del flusso della sua committenza: nel 1861 preparò un bozzetto per una monumentale "Entrata di Garibaldi al ponte della Maddalena", oggi nel Museo di San Martino; Vittorio Emanuele II gli commissionò il famoso acquarello “La cappella del Tesoro di S.Gennaro”, che si trova a Capodimonte.

Fu più volte a Roma e nel 1869 lo troviamo anche a Parigi.

Nel 1837, alla morte di Pitloo, trasferì la sede della "scuola di Posillipo" nella casa abitata per venti anni dal pittore olandese, al vico Vasto 15, a San Carlo alle Mortelle. 

I maggiori depositari delle opere di Giacinto Gigante sono il Museo di San Martino, dove sono raccolte circa seicento fra disegni, tempere ed acquerelli, e il Museo di Correale di Sorrento, che gli ha dedicato un'apposita sala.

Fra i tanti personaggi dell'Arte presenti nella toponomastica del Vomero, Giacinto Gigante denomina una delle poche vie vomeresi intitolate ad artisti che hanno avuto un qualche rapporto con la via a loro intitolata. Infatti al civico n. 19 di Via Giacinto Gigante, troviamo "Villa Gigante", che l'artista comprò nel 1844, un edificio giunto fino a noi, piuttosto  modificato. Fino a qualche decennio fa si distingueva per lo svettare di una torretta, oggi demolita.

Nel 1875 il pittore cadde sulle scale della villa, una caduta da cui non si riebbe, morendo un anno dopo, il 29 settembre 1876. Lasciò otto figlie e fu sepolto nella Chiesa della Salute.

(Marzo 2024) 

Un romanzo tragico. Filippo Cifariello

 

di Antonio La Gala

 

La vicenda artistica e umana dello scultore Filippo Cifariello sembra uscire da un romanzo.

L’artista nacque a Molfetta nel 1864. Allievo di Achille D’Orsi, seguì la corrente che in quel periodo a Napoli nel campo della scultura s’ispirava al verismo di Vincenzo Gemito.

Fin dall'inizio della sua attività suscitò polemiche, soprattutto a causa del realismo crudo delle sue opere, come ad esempio lo scugnizzo reduce dai baccanali di Piedigrotta che scolpì a vent’anni, oppure il santo cristiano raffigurato nel momento del martirio.

    Cifariello modellò - in marmo, bronzo, terracotta ed argento - prevalentemente busti e figure.

Per scolpire anche statue di notevoli dimensioni aveva bisogno di un grosso locale, motivo per cui quando andò ad abitare al Vomero impiantò vicino alla sua residenza un ampio studio, al civico 10 di Via Solimena, locale che oggi risulta adibito a garage. Vi si notano ancora alcuni anelli di ferro nelle murature per sostenere tiranti e altri segni che vi testimoniano l’attività dello scultore.

Opere del Cifariello si trovano sotto forma di monumenti in varie località italiane, e sue sculture sono ospitate, oltre che da musei italiani, anche da musei europei.

Artista avversato ma anche decantato dai suoi contemporanei, Filippo Cifariello ebbe una vita segnata da vicende tragiche.

Dapprima sposò una “sciantosa”, Maria Brow, d’origine francese, di comportamenti, diciamo così, “disinibiti”. Nel 1905 la Brown fu uccisa e fu accusato il Cifariello d’averla soppressa per gelosia. Un giornale dell’epoca così raccontava il delitto: “L’illustre Filippo Cifariello, il cui nome ancora poco tempo fa era meritatamente acclamato per l’inaugurazione del suo bel monumento a Umberto I a Bari, dopo torture inenarrabili del suo animo e del suo cuore, dopo una lotta fra la passione – diremo quasi morbosa e l’amore atrocemente offeso – uccideva a Posillipo, alla pensione Mascotte, la propria moglie che lo aveva tradito così a lungo. Trattasi di un dramma eminentemente passionale nella sua rapidità sanguinosa e fulminea”.

Il processo suscitò molto interesse, anche per la notorietà di Cifariello. L’artista ne uscì assolto,  

Successivamente, a cinquant’anni, sposò la ventiduenne Emilia Fabbri, che morì bruciata nel 1914 al ritorno del viaggio di nozze, per un infortunio domestico nel maneggiare un fornello, incidente avvenuto nella casa del Vomero. La donna fece in tempo, prima di morire, a scagionare il marito dall’incidente.

Risposatosi ancora una volta, il Cifariello si suicidò nel 1936, a causa del turbamento per una grave malattia.

La tragedia lo seguì anche dopo la morte: nel 1966 in un incidente aereo morì il figlio, l’allora noto attore Antonio Cifariello.

Napoli ha intitolato al Cifariello una fra le strade più antiche del Vomero, in precedenza denominata "Vico San Gennaro" oppure "Via San Gennariello al Vomero", nomi che ricordavano, assieme alla millenaria chiesa di San Gennariello che vi si trova, che quella strada era un pezzo di storia del quartiere collinare.

Forse sarebbe stato più opportuno lasciare il vecchio toponimo e spostare il nome di Cifariello di cento metri, nel tratto più alto di Via Solimena, dove peraltro Cifariello è vissuto ed ha lavorato.

L’immagine che accompagna questo articolo è tratta da un “Mattino Illustrato” del 1905 e mostra Filippo Cifariello all’epoca del delitto di Posillipo.

(Marzo 2023)

 Colloqui di Salerno 2023-2024

 Al Complesso San Michele la mostra di Annabella Rossi

 'Vivere la realtà è già scienza'"

 

di Claudia Bonasi

 

Continua, fino al prossimo 12 febbraio, al Complesso San Michele (orario: dalle 16 alle 18) la mostra "Annabella Rossi e la fotografia", inaugurata con grande affluenza di pubblico il 22 gennaio, a Salerno. L'esposizione è il primo evento dei numerosi organizzati nell'ambito dei  “Colloqui di Salerno 2023-2024” - Annabella Rossi, a cura di Vincenzo Esposito e del Laboratorio interdipartimentale di Antropologia "Annabella Rossi" - Unisa. L'esposizione - cinquanta immagini di Annabella Rossi su tarantismo, carnevale, feste e pellegrinaggi - è a cura del professor Esposito, responsabile scientifico del Lab. di Antropologia "A. Rossi". Negli spazi della mostra si potranno visionare i film "Le feste dei poveri", di Michele Gandin; "La taranta", di Gianfranco Mingozzi; "Vita e morte di Carnevale", di Vincenzo Esposito; "La nascita di un culto", di Luigi Di Gianni. Al vernissage, organizzato come un talk - questo i Colloqui vogliono essere - dopo i saluti istituzionali da parte della Fondazione Carisal, portati dal consigliere d’amministrazione, Letizia Magaldi, e dal direttore del complesso che ospita l'esposizione, Francesco Paolo Innamorato - gli interventi del professor Vincenzo Esposito, responsabile scientifico del Lab. di Antropologia "A. Rossi" e del professore Paolo Apolito, che hanno consentito di ricostruire la personalità e il lavoro di Annabella Rossi, antropologa e fotografa, che aveva seguito Ernesto De Martino nella sua ricerca sul campo, sul tarantismo nel Salento. Al vernissage anche intensi momenti di musica popolare, con la cantante Floriana Attanasio e i musicisti Antonio Giordano e Vincenzo Ferraioli.

La manifestazione "Colloqui di Salerno 2023-2024 - Annabella Rossi: 'Vivere la realtà è già scienza'" gode del patrocinio e del contributo dell’Università degli Studi di Salerno, Dispac - Dipartimento di Scienze del patrimonio culturale, Disuff-Dipartimento di Scienze umane filosofiche e della formazione, Disps - Dipartimento di Studi politici e sociali, CBA - Centro Bibliotecario d’Ateneo, del Comune di Salerno, della Fondazione Cassa di Risparmio Salernitana e del CeiC - Centro etnografico delle Isole campane (Istituto di Studi Storici e Antropologici). Hanno patrocinato l'iniziativa, che vede la partecipazione di 1506| Film e dell'Icpi (Istituto centrale per il patrimonio immateriale del Ministero della Cultura), anche la Siac (Società italiana di antropologia culturale), e Kurumuni Edizioni.

(Febbraio 2024)

Emilio Notte: difficoltà di rinnovare la pittura

 

di Antonio La Gala

 


Emilio Notte è forse l'esempio più rappresentativo della difficoltà che la pittura cosiddetta d'avanguardia ha trovato nell'ambiente artistico della Napoli del Novecento.

Infatti quando nel 1929 egli iniziò stabilmente la sua attività a Napoli, sebbene già godesse di una meritata buona notorietà nel mondo dell'arte moderna nazionale di quel periodo e sebbene da quel momento costituisse un punto di riferimento forte e preciso del rinnovamento artistico della città, tuttavia restò completamente isolato in un ambiente che si attardava in temi e forme di stampo ottocentesco, fino al punto che, come si racconta, per circa vent'anni non riuscì a vendere nemmeno un quadro.

Emilio Notte era nato a Ceglie Messapica, vicino Brindisi, nel 1891. Aveva scoperto la sua vocazione per la pittura giovanissimo, quando viveva a Sant'Angelo dei Lombardi, dove il padre era stato trasferito. Nel 1906 venne a Napoli, dove fu allievo dell'Accademia delle Belle Arti, allora diretta da Vincenzo Volpe. Poco dopo si trasferì in Toscana. A Firenze partecipò attivamente al movimento futurista, firmandone un manifesto nel 1917. La sua adesione a quel movimento era però un'adesione sentita intimamente sul piano culturale ed artistico e non l'adesione alle esternazioni chiassose, piazzaiole e snobistiche caratteristiche di quella corrente. Un suo dipinto del 1919, “La strada bianca”, fu il primo quadro futurista acquistato dal Re.

Man mano che negli anni Venti il Futurismo andava attenuando l'impeto degli anni della Grande Guerra, e la pittura italiana andava rinunciando in parte alle sue istanze di avanguardismo, Emilio Notte rielaborava le sue linee espressive, un pò facendo tesoro delle tendenze che man mano si susseguivano (cubismo, espressionismo tedesco, ecc), ma anche mediando con qualche rilettura dell'impressionismo francese. In effetti il senso della sperimentazione accompagnò a lungo la produzione di Notte, che quindi dava la sensazione di attraversare diverse "incarnazioni" stilistiche.

Dopo un soggiorno milanese, nel 1929 il pittore si stabilì definitivamente a Napoli, dove cominciò ad insegnare presso l'Accademia delle Belle Arti, attività che proseguì per 40 anni.

Come abbiamo già detto, inizialmente il suo discorso futurista o comunque di ricerca innovativa, lo isolò. Nel corso del primo ventennio che trascorse a Napoli, fino al 1948, nel suo periodo di maggiore fervore creativo e di ricerca, fece una sola mostra: i suoi quadri non piacevano, non vendeva. Sopravviveva solo grazie all'attività di insegnante e vendendo ogni tanto qualche quadro ad amici. Sebbene fosse quasi isolato rispetto agli altri artisti napoletani coevi, proseguì con tenacia la sua ricerca innovatrice sulla scìa delle correnti allora emergenti, costituendo un momento cruciale di rinnovamento dell'arte napoletana e un forte e preciso punto di riferimento per la nascente pittura moderna locale.

Nel secondo dopoguerra, nel 1958, alcuni suoi allievi (Fergola, Persico, Di Bello, del Pezzo) saranno i fondatori del "Gruppo 58", dopo un quinquennio dall'apertura della sperimentazione dello stile informale.

Emilio Notte nella sua lunga attività partecipò a tutte le più importanti esposizioni sia in Italia che all’estero e attualmente alcune sue opere si trovano nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, di Firenze e di Bologna, nonché in Gallerie straniere.

Il critico d'arte Piero Girace a metà Novecento così ce lo descrive: "rassomiglia a Giove Olimpio. Sembra uscito fresco fresco da una statua greca. A simiglianza di certi artisti di altri tempi, ha una barba folta e brizzolata che gli conferisce un'aria terribilmente austera".

Morì nel 1982.

(Dicembre 2023)

Liberty in casa del nonno

 

di Antonio La Gala

 

Le generazioni vissute o nate nei primi decenni del Novecento, che per molti di noi sono le generazioni dei padri o dei nonni, hanno trascorso la vita, o almeno l'infanzia, circondati da architetture, manifesti, arredi stradali e domestici, soprammobili, calendari, quaderni, giornali, libri, oggetti preziosi e di uso quotidiano, e tanto altro ancora, improntati a quel gusto che è passato alla storia con il nome di "Liberty".

Il periodo d'oro della produzione di questo stile in Europa si è prolungato fino agli inizi degli anni Venti; in Italia si è attardato ancora per qualche anno.

Sul Liberty poi è calata la condanna dei critici d'arte ed è stato messo in soffitta assieme a gran parte degli oggetti che aveva prodotto.

Negli ultimi decenni, però, l'attenzione dei critici ha rispolverato quel periodo stilistico e parallelamente gli amanti di cose antiche, venditori e acquirenti, hanno  rispolverato dalle soffitte la specchiera, la sedia o il soprammobile di quel periodo, per dar vita a una parte del mercato sempre più fiorente del "modernariato".

Il Liberty è la versione italiana, forse un po’ tardiva, di una forma nuova d'espressione stilistica che si fece luce in Europa sul declinare dell'Ottocento, che, soprattutto in architettura, cercava di risolvere il problema che aveva attraversato quel secolo, il superamento del vituperato "eclettismo",  la coesistenza  degli stili del passato.

Questa nuova forma di espressione, genericamente chiamata "Floreale", venne variamente denominata nei vari paesi europei (Art Nouveau, Secessioine, Jungendstil, ecc.), e giunse a coerenza di stile dapprima nelle arti decorative e poi in quelle maggiori, architettura compresa. all'aechitettura dette le radici ad un percorso che con l'apporto di altre esperienze, portò agli albori del razionalismo degli anni Venti.

Come ogni sorgere di nuove sensibilità artistiche, il fenomeno floreale-liberty fu determinato anche da altri fattori, come l'idea moderna di mettere a disposizione di tutti e non di soli pochi privilegiati la Bellezza, materializzandola in oggetti di uso comune, come propugnato dalla Ars and Crafts di William Morris. Un altro fattore favorevole al sorgere e svilupparsi del floreale fu la potenzialità economica che l'industria intravide nello sviluppo di un settore in cui la facile riproducibilità degli oggetti ne moltiplicava la diffusione.

Intervennero poi i diversi orgogli nazionali, francese, tedesco e soprattutto austriaco, che cercavano di incentivare il proprio peso nella propria produzione del floreale, anche se dopo iniziali incomprensioni del fenomeno, come ad esempio il mancato sostegno dei Francesi alle due case di produzione e commercio degli oggetti ispirati al nuovo gusto, le botteghe "Art Nouveau" di Bing e la "Maison Moderne" di Maier Graefe, forse perché gestite da ebrei germanici immigrati a Parigi.

Il discorso stilistico sul floreale-liberty è molto complesso e qui non lo affronteremo. Diremo solo che la nuova arte cercava la Bellezza nell'artificio sempre più abile e raro, oppure, all'opposto, in una sobrietà che assicurasse alla forma di mobili ed oggetti nuova funzionalità e una più elevata possibilità di vasta riproducibilità.

Con il tempo la sinuosità ricalcata sulla natura dell'originario decorativismo dell'Art Nouveau-Jungendstil di origine franco belga e degli artisti di Monaco, cedette il passo alla linea geometrica ed astratta di Glasgow, Vienna e Darmotondt, che in architettura, come abbiamo già detto, gettò le radici del protorazionalismo.

La conclusione di questa sintetica chiacchierata sul liberty è un'esortazione finalizzata alla conservazione della nostra memoria storica: riflettiamoci un attimo prima di disperdere il tavolino o il soprammobile che troviamo a casa dei nonni.

(Novembre 2023)

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