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Gioacchino Toma, pittura e mestizia

 

di Antonio La Gala

 

Gioacchino Toma nacque a Galatina (Lecce), nel 1836. Rimase orfano a sei anni e trascorse un’infanzia infelice, vicenda che segnò lui e anche la sua pittura, la quale nei suoi momenti migliori è piena di casalinga intimità e rievoca con malinconia sofferenze e affetti della gente normale, con la rappresentazione dei personaggiin un'atmosfera patetica o mesta. 

Arrivò a Napoli nel 1856, dove iniziò l’attività artistica come garzone di un ornamentista.

Arrestato, per errore, come presunto cospiratore antiborbonico e inviato al confino di Piedimonte d’Alife, lì cominciò a dipingere soggetti sacri, ritratti e nature morte per committenti locali. Rientrato a Napoli nel 1858, si iscrisse al Regio Istituto di Belle Arti. Allievo di Mancinelli, realizzava ritratti e dipinti di storia. L'anno seguente esordì nelle esposizioni. Nel 1860 seguì Garibaldi. Quando tornò a Napoli, nella sua pittura preferì soggetti politico-sociali, in cui la rievocazione del fatto storico diventava occasione per esprimere poeticamente e con commozione la partecipazione ai sentimenti dei personaggi. In effetti andò via via maturando un suo modo di intendere il quadro di storia, vissuto più sul versante psicologico e sentimentale che su quello filologico.

Nell'ambito dei soggetti romantico-letterari trovavano posto, con un sentimento personalissimo, i temi dei diseredati e dell'infanzia abbandonata.

Dalla seconda metà degli anni Sessanta, approfondì la conoscenza della pittura della Scuola di Portici, per poi alla fine accostarsi alla pittura " di macchia".


La fortuna critica di Toma è stata postuma e gli riconosce l'aver rappresentato la vita napoletana, lontana dal mito della bellezza solare e della natura chiassosa dei suoi abitanti. La sua arte è chiara, immediata, con scene ambientate in luci suggestive, lontana dalla moda dei suoi tempi, tesa verso un acceso cromatismo.

Il suo dipinto più famoso è Luisa Sanfelice in carcere, che si trova, assieme ad altre sue opere, nella Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Vorrei chiudere questa breve rievocazione di Gioacchino Toma con una mia annotazione del tutto personale. Tra i quadri di Toma, da me conosciuti, quello che mi ha trasmesso la maggiore emozione è “La Messa in casa”, che si trova nel museo civico di Napoli.  In questo dipinto Toma dimostra al di là di ogni dotto discorso critico che non è il soggetto (tradizionale, storico o di genere che sia), che conferisce dignità artistica ad un quadro. In questa piccola tela il soggetto appare purificato da ogni artificio retorico o di costume, per trasmettere con immediatezza attimi di commossa intimità, di umanità, emozioni di vera Arte perché di valenza eterna ed universale.

Gioacchino Toma morì nel 1891.

A Napoli, toponomasticamente, il pittore è ricordato al Vomero, in una bellissima stradina attaccata alla strada intitolata a Luigia Sanfelice, il personaggio soggetto del suo più noto dipinto.

(Febbraio 2022)

Antonio Niccolini, scenografo ed architetto di corte

 

di Antonio La Gala

 

Antonio Niccolini, toscano di nascita e di formazione, napoletano di adozione, fu architetto e scenografo alla Corte dei Borbone e nel suo campo fu il protagonista dell'ultima stagione di Napoli capitale, una stagione di alta civiltà artistica, un novello Luigi Vanvitelli dell'Ottocento. Venuto a Napoli al tempo di Giuseppe Bonaparte, vi fu lasciato anche dai Borbone, per le sue alte capacità professionali.

Era nato a San Miniato (Firenze) il 21 aprile del 1772, penultimo di 16 figli.

Attorno ai 16 anni iniziò in proprio l'attività di pittore decoratore e architetto, in giro per la Toscana. Nel marzo del 1798, a 26 anni, fu nominato professore di pittura dell'Accademia di Belle Arti di Firenze.

Venne a Napoli nel 1807 e qui, dopo i primi successi come scenografo al San Carlo, ricevette dalla corte francese, allora regnante, prestigiose nomine e importanti incarichi di progettazione ed esecuzione di opere. Da scenografo divenne professore, scienziato, accademico.

Nell'attività di sistematore di teatri nel regno borbonico, nel 1823 Niccolini ricordava che i teatri che aveva "restaurati o costruiti" erano ben quattordici.

In questo settore, fra le sue opere di maggior rilievo, spicca l'ammodernamento del teatro San Carlo, già aperto nel 1737, ma abbisognevole di interventi per sanare alcune insufficienze. In particolare, mancava di un ridotto, di una scala esterna, di un ingresso coperto per le carrozze e di adeguati ambienti di servizio. Niccolini cominciò ad occuparsene nel 1809, completando una prima serie di interventi nel 1812. Nel 1816, dopo l'incendio del 13 febbraio di quell'anno, Niccolini lo dovette ricostruire, proseguendo nel corso degli anni successivi, per quasi un ventennio, a continui restauri e modifiche.

Fra gli altri teatri sistemati da Niccolini ricordiamo il "Teatro del Fondo", l'odierno Mercadante, aperto nel 1779, uno dei Reali Teatri, che presentava le stesse deficienze che abbiamo visto nel San Carlo.

Nel 1817 Niccolini venne nominato "Direttore della Real Scuola di Scenografia", istituita poco prima.

Nel novembre dello stesso anno, venne chiamato a sistemare la Floridiana, al Vomero, che allora formava un tutt'uno con Villa Lucia e con il futuro Parco Grifeo, una delle sue opere maggiori. Nel 1818 venne incaricato anche di gestire questa ampia tenuta e, nel 1826, alla morte di Lucia Migliaccio, la proprietaria, moglie del Re, pure a definirne le quote ereditarie.

Nel 1821 fu nominato presidente della "Real Scuola del Disegno" (che poi diventerà Istituto e poi ancora Accademia delle Belle Arti), e di cui a lungo il Niccolini sarà Direttore.

Negli anni successivi, le nomine e gli incarichi del Niccolini in tutte le attività artistiche di Napoli furono innumerevoli. Senza elencarle, ricordiamo solo l'attività di scenografo, durata fino al 1841; la sistemazione della scalinata del Tondo di Capodimonte, eseguita nella prima metà degli anni Trenta; la sistemazione di molti Reali Siti e Regge; l'allestimento di feste, fra cui cerimonie nuziali di personaggi regali, ma anche di loro funerali, come quello di Ferdinando I, nel 1825, e della seconda moglie Lucia Migliaccio nel 1826.

La sua attività, protratta a lungo, per decenni, prima o poi non poteva non incappare in logoramento, polemiche e scontri con altri colleghi. Ed infatti, in particolare, il regno di Ferdinando II per Niccolini fu caratterizzato da parecchie incomprensioni e revoche di incarichi.

Morì il 9 maggio del 1850, a 78 anni.

Stilisticamente Niccolini traghettò il morente roccocò settecentesco nel neoclassicismo, armonizzando suggestivi effetti scenografici a rigori strutturali.

Il Museo di San Martino conserva, fin dal 1901, nel "Fondo Niccolini" più di 800 suoi disegni (appunti, schizzi, rilievi, progetti per monumenti e interventi urbanistici, scenografie, disegni di arredi per dimore regali e tanto altro ancora.

(Gennaio 2022)

Una dinastia di pittori: i Pratella

 

di Antonio La Gala

 

 

Nel mondo della pittura è frequente il caso in cui in una stessa famiglia si contano numerosi artisti. Ad esempio, fra le dinastie pittoriche napoletane più note, ricordiamo quelle di Giacinto Gigante, dei Carelli, dei Matania, dei Postiglione, dei Casciaro, dei Pratella.

In questo articolo mi voglio soffermare sulla dinastia Pratella.

Il capostipite fu Attilio Pratella, il noto artista romagnolo-vomerese sul quale abbiamo già pubblicato due articoli. L’artista ebbe cinque figli di cui tre, Fausto, Paolo e Ada, furono anch'essi pittori.

Fausto (1888-1964), pure lui paesista come il padre, lo incontriamo ancor giovane alla Prima Mostra d'Arte Vomerese tenutasi nella primavera del 1914, nella villa De Biase nei pressi di Antignano. Stilisticamente, dopo essersi inizialmente ispirato a temi e maniere paterni, si avvicinò con successo alle correnti innovative del Novecento.

Ada Pratella (1901/1903-1929) per distinguersi dal padre si dedicò alla figura e ai ritratti, con uno stile plastico che ricordava Mancini.

In occasione di una sua esposizione del 1928, al Centro artistico-culturale "Gli Illusi", nel Palazzo Nobile di Rione Amedeo, il Corriere del Vomero, con toni forse sopra le righe, scriveva: "Il triplice consenso di vibrante ammirazione degli artisti, degli amatori e del pubblico, ha salutato questa altra Mostra di Ada Pratella che è espressione delle sue mirabili, elette qualità di pittrice dal grande talento, dalla conoscenza profonda del disegno, dalla viva passionalità del suo forte temperamento di acutissima osservatrice, dalla genialità del suo riconosciuto valore che l'hanno definita prima pittrice d'Italia per unanime giudizio dei più grandi critici e autorevoli competenti".

Purtroppo la pittrice diede al padre un grandissimo dolore perché morì prematuramente ad appena ventotto anni.

Paolo Pratella (1892-1980), fu anch’egli paesista. Qualcuno ricorda che somigliava un po’ all'attore americano Buster Keaton, anche perché, come lui, non rideva mai. Dopo aver abitato per alcuni anni a Capri, lo ritroviamo discutere per lunghe ore davanti ad una tazza di caffè, a Piazza Vanvitelli, davanti al Sangiuliano, un bar vomerese, oggi scomparso, allora frequentato da artisti. 

L'immagine che accompagna questo articolo riproduce (purtroppo non ne abbiamo la versione a colori) un dipinto di Ada Pratella che ritrae il padre Attilio.

(Dicembre 2021)

Edoardo Dalbono: poesia e disordine.

 

di Antonio La Gala

 

 

Il pittore Edoardo Dalbono nacque a Napoli nel 1841 in una famiglia di artisti e letterati.

Apprese la tecnica del disegno da un incisore romano. Fu allievo di Giuseppe Mancinelli, ma seguì soprattutto la lezione di Domenico Morelli.

Esordì nel 1859, dedicandosi, negli anni giovanili, ai temi storici e a quelli di genere folclorico, e al paesaggio. Dal 1863 partecipò regolarmente alle esposizioni della Promotrice di Napoli fino a quando, nel 1878, andò a Parigi per un soggiorno, che durò una decina d’anni, durante il quale lavorò intensamente per Goupil, noto mercante dell’epoca, producendo olii, acquerelli e affreschi. Partecipò alle maggiori esposizioni italiane e internazionali (Torino 1880; Roma 1883 e 1911; Venezia, 1895; Londra e St. Louis, 1904, Parigi). Alcune sue opere oggi si trovano nella Galleria d’Arte Moderna di Roma.

Nell’ambito della pittura napoletana si dedicò in particolare al paesaggio, specialmente locale, di cui descrisse morbide atmosfere con giochi di luce e toni cromatici di delicata poesia. Partendo dall'attenta osservazione del vero, la sua pittura sconfina nella fantasia e nel sogno, coglie l'attimo fuggente di un'atmosfera, fra gli scogli del Granatello di Portici, nelle marine, sulla spiaggia di Mergellina, nei luoghi dei miti antichi, fra gli avanzi dei templi di Baia o di Cuma.

Un'intervista a Dalbono, nei suoi ultimi anni, nell'abitazione di Via Monteoliveto, ce lo presenta come uno spirito burlesco, forse un pò strampalato. Per afferrare effetti di luce particolari per le sue magie coloristiche, convocava modelli e modelle alle luci dell'alba, sull'altura di San Potito, provocando curiosità, ma anche allarme, come quando, fra i modelli, c'era un incappucciato, circostanza che fece credere al popolino che si stessero celebrando stregonerie. Durante le conferenze usava trarre di tasca dolcetti e castagne e sgranocchiarle con disinvoltura, senza preoccuparsi degli ascoltatori. Colleghi e amici talvolta si trovavano a disagio nella sua casa, per le conseguenze olfattive della presenza della moltitudine di gatti ospitati. Piuttosto trasandato nel vestire, usava una vecchia palandrana ed una mezza tuba abbassata fino alle orecchie. Ad un importante funerale si presentò con un ombrello appeso al braccio con un nastro. Morì nel 1915.

(Novembre 2021)

Pittura napoletana fra Otto e Novecento. Tradizionalisti e innovatori

 

di Antonio La Gala

 

     Fra il 1860 e il 1880 la pittura napoletana accrebbe il suo interesse verso temi di carattere sociale, rimanendo comunque ancorata, fino agli inizi del Novecento,  al filone Palizzi - Morelli, proseguito dalle scuole dei loro seguaci, come testimonia il ruolo che ebbero nell'Accademia delle Belle Arti, fino agli anni Venti, Michele Cammarano (1835-1920) e Vincenzo Volpe (1855-1929).

Di conseguenza il comune denominatore prevalente degli artisti che operarono in quel periodo continuò ad essere il naturalismo, con il fiorire in particolare della pittura cosiddetta "di genere", che, dopo la gagliarda esplosione del genio di Francesco Paolo Michetti (1858-1921), dilagò verso l'artificioso, l'eccesso. Dopo aver dato ancora buoni frutti con Vincenzo Caprile (1856-1936), Gaetano Esposito (1858-1911) e Vincenzo Migliaro (1858-1938), esso degenerò nelle banalità del macchiettismo, che trovò duraturo alimento commerciale.

Questi artisti non sono i soli a rappresentare la pittura napoletana di allora. Altalenanti con sensibilità diverse fra le maniere già descritte, ricordiamo anche: Bernardo Celentano (1835-1863), Gioacchino Toma (1836-1891), Antonio Mancini (1852-1930), Eduardo Dalbono (1843-1915), Attilio Pratella (1856-1949), Rubens Santoro (1859-1942), Carlo Brancaccio (1861-1920), Vincenzo Irolli (1860-1949), Giuseppe Casciaro (1863-1941), Pietro Scoppetta (1863-1920).

Ad essi seguì, poco dopo, un'altra generazione di artisti, alcuni dei quali tentarono di aprire la pittura napoletana ai movimenti innovativi che attraversavano l'Europa. Le "avanguardie" del primo Novecento e le "secessioni" giovanili dei pittori napoletani (a partire dalla Esposizione giovanile del 1909), contrapposero un rinnovamento del linguaggio figurativo, radicale nel primo caso e parziale nel secondo. I nomi più noti sono quelli di Eugenio Viti (1881-1952), Gennaro Villani(1885-1948), Gaetano Ricchizzi (1879-1950), Carlo Siviero (1882-1953), Luigi Crisconio (1893-1946); ai quali, poi ancora, seguì la generazione di Emilio Notte (1891-1982), Biagio Mercadante (1893-1978), Carlo Striccoli (1897-1980), Vincenzo Colucci (1898-1970), Guido Casciaro (1900-1963), Ezelino Briante (1901-1972), Carlo Verdecchia (1905-1984), Alberto Chiancone (1904-1988).

Il ventaglio dei giudizi critici sulla pittura napoletana del periodo analizzato è ampio: va dall'ammirazione della "tradizione" pittorica locale al suo dispregio laddove il prolungarsi della stessa tradizione viene visto come "arretratezza".

(Ottobre 2021)

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