Pittura vomerese nell’Ottocento
di Antonio La Gala
In un precedente articolo sulla pittura del Seicento al Vomero, abbiamo raccontato di Salvator Rosa, fiore all’occhiello della collina, concludendo che si sarebbe dovuto attendere del tempo prima di incontrare altri pittori vomeresi di rilievo.
Secoli dopo, fra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, si avrà il periodo d’oro dell’arte pittorica collinare. Compariranno schiere di artisti di primo piano, ma, nel lasso di tempo fra Salvator Rosa e il periodo d’oro, il Vomero in qualche modo era già rientrato nel circuito della pittura napoletana, quando all'epoca della Scuola di Posillipo aveva ospitato Giacinto Gigante, il maggiore esponente di quella scuola, e aveva dato i natali a Gonsalvo Carelli.
Della biografia e delle opere di questi due pittori, ora citati, dirò poco, considerata la diffusa letteratura che si è interessata di loro (soprattutto di Giacinto Gigante), ma mi soffermerò in particolare sul loro rapporto con la collina.
Il rapporto di Giacinto Gigante con l'Arenella diventa visibile dalla circostanza che, fra i tanti artisti presenti nella toponomastica collinare, Giacinto Gigante denomina una delle poche vie intitolate a personaggi che hanno avuto un qualche rapporto con la via a loro intitolata. Infatti in via Giacinto Gigante, all’Arenella, troviamo Villa Gigante, che l'artista comprò nel 1844 e in cui morì nel 1876.
L’intestazione “Villa Gigante” la si trova su un piccolo edificio di stile eclettico sito al n. 19 di detta via, un’intestazione ingannevole, perché il pittore a cui si riferisce visse nell’Ottocento e il piccolo edificio è novecentesco. In effetti l’edificio si è così auto-denominato perché introduce alla vera Villa Gigante, che sta alle sue spalle, su una piccola altura, una massiccia costruzione del Seicento, più volte rimaneggiata, vistosamente colorata in rosso,
Giacinto Gigante nacque l'11 luglio del 1806 in una famiglia di pittori: oltre al padre furono pittori ben quattro dei sette figli. Giacinto s'impiegò giovanissimo nel Regio Ufficio Topografico di Napoli, ove conobbe Achille Vianelli, che lo iniziò all’arte pittorica e lo introdusse nell’ambiente artistico.
La svolta artistica di Gigante fu l'incontro con Pitloo, fondatore della “Scuola di Posillipo”, scuola di cui Giacinto Gigante sarà considerato il maggiore esponente. Egli si emancipò presto dal Pitloo con spontanee ed estrose vedute per lo più ambientate nel Golfo di Napoli e a Posillipo e, successivamente, accostandosi ai paesaggisti romantici europei di maggiore levatura, espresse una versione lirica del paesaggio partenopeo, con vivace libertà di tocco e abbreviatura formale. Negli ultimi anni, al paesaggio cominciò a preferire la rappresentazione di interni e la figura: la solitudine dei chiostri religiosi, la forza della fede nelle chiese, il sacrificio della clausura, ecc., avvicinandosi così maggiormente ai valori, allora emergenti, della pittura romantica, uscendo di fatto dalla catalogazione di pittore della "scuola di Posillipo".
Alcuni critici, per la sua libertà di tocco, nervoso ed impreciso, l'abbreviatura formale e l'ariosa luminosità dello stile, considerano Giacinto Gigante uno dei precursori dell'impressionismo
I maggiori depositari delle opere di Giacinto Gigante sono, a Napoli, il Museo di San Martino, dove sono raccolte circa seicento fra disegni, tempere ed acquerelli, e il Museo di Correale di Sorrento, che gli ha dedicato un'apposita sala.
Nel 1844 l'artista comprò la villa dell’Arenella, già citata, che porta il suo nome nella via che porta, anch'essa, il suo nome. Nel 1875 il pittore cadde sulle scale della villa, una caduta da cui non si riebbe, morendo un anno dopo, il 29 settembre del 1876. L’immagine che accompagna questo articolo è una fotografia del pittore, ripreso su una terrazza della villa.
Il rapporto diConsalvo (o Gonsalvo) Carelli con la collina consiste nel fatto che questo pittore nacque all'Arenella nel 1818, secondo alcuni nella casa di Salvator Rosa, forse una forzatura fatta dagli storici dell'arte per accreditare una continuità fra i due artisti.
Discendeva da una famiglia pugliese di pittori: era figlio di Raffaele Carelli (1795 - 1864), uno fra i migliori paesaggisti napoletani dell'Ottocento, e fratello di Gabriele, anch'egli pittore. Con il fratello Gabriele fu mandato dai Borbone, con una pensione governativa, a Roma, dove rimase fino al 1840, per dipingere dal vero le bellezze romane. Poi, dal 1841, trascorse anni artisticamente fortunati a Parigi, dove fu premiato in occasione di due mostre e dipinse alcuni saloni ministeriali con paesaggi italiani. Compose anche un album con 120 disegni per Napoleone III. Il Carelli fu, tra l’altro, un patriota: partecipò alle Cinque Giornate di Milano e alla battaglia del Volturno con l’esercito di Garibaldi. Fu amico di Massimo D'Azeglio. Per i suoi meriti, sia patriottici che pittorici, nel 1869, venne scelto come maestro di pittura della principessa Margherita di Savoia.
Gonsalvo Carelli, seguace della scuola di Posillipo, produsse una gran quantità di lavori, alcuni ad olio, ma i più ad acquerello e disegni, aventi per soggetto prevalente il paesaggio napoletano. Lo ispiravano il litorale flegreo, la costiera sorrentina e quella amalfitana e, per un certo periodo, la campagna romana. Morì nel 1900.
Nemmeno fra le opere di Giacinto Gigante e di Gonsalvo Carelli, come per Salvator Rosa, abbiamo trovato gran che di opere che rappresentino luoghi del Vomero. Giacinto Gigante ci ha lasciato numerose e notissime vedute in cui la collina, in particolare l'Arenella, compare come punto da cui osservare Napoli, oppure opere in cui ci mostra dei monaci che guardano la città di Napoli dalla Certosa di San Martino, un altro esempio in cui il Vomero di Gigante compare ancora solo come punto di osservazione.
Abbiamo già detto in apertura che, a fine Ottocento, la collina entrerà alla grande nel mondo della pittura napoletana, perché sarà scelta da una schiera di artisti sia come luogo di residenza e di attività, e sia come soggetto d’ispirazione. Ne tratteremo in un prossimo articolo.
(Novembre 2020)
Pittura nel Seicento al Vomero
di Antonio La Gala
Quando si parla di pittori "vomeresi" il pensiero va subito ai protagonisti del mondo artistico figurativo collinare fiorito a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, dalla nascita del Vomero del Risanamento, fino ad esaurirsi, progressivamente, attorno alla metà del Novecento, come, per esempio, Casciaro e Pratella.
Questo è il periodo che corrisponde al sorgere, risplendere e poi affievolirsi di quella specifica e irripetibile identità socio-culturale che caratterizzava in positivo il quartiere collinare nell'immaginario collettivo napoletano, la cosiddetta "vomeresità", oggi sopraffatta dal degrado standard partenopeo e rievocata con accorata nostalgia nei ricordi di quanti l'hanno conosciuta.
Ma in precedenza, fin dal Seicento, il Vomero già aveva incontrato il mondo della pittura, un incontro veramente "alla grande". Infatti lungo tutto il Seicento salirono in collina con pennello e tavolozza le più brillanti star della pittura allora presenti sulla scena napoletana, e anche “forestiera”. Qualche nome: Guido Reni, Lanfranco, Massimo Stanzione, Ribera, Solimèna, De Mura, Battistello Caracciolo, Luca Giordano, Andrea Vaccaro, Corenzio. Essi, salendo in collina, non immaginavano che alcuni secoli dopo la toponomastica vomerese vi avrebbe fatto circolare i loro nomi quotidianamente e per sempre.
Ma, per la verità, va detto che i citati sommi maestri non salivano in collina per ritrarre la bellezza agreste del luogo o per risiedervi in compagnia dei pochi contadini che vi abitavano. Le star di qualsiasi settore vanno sempre dove cresce la loro visibilità e, in particolare, dove si guadagna bene, anzi molto bene. Nella fattispecie degli artisti dell'epoca, dette opportunità erano assicurate dalla committenza legata alla costruzione o all’abbellimento di chiese e conventi. Fu in collina che gli artisti sopra ricordati trovarono tale committenza, peraltro di altissimo livello: quella dei monaci certosini che stavano trasformando la Certosa di San Martino, che mostrava i segni dei suoi secoli, nello splendido monumento che oggi ammiriamo.
In effetti la Certosa (come la vicina fortezza di Santelmo), nei secoli passati costituivano delle realtà di fatto chiuse in se stesse ed estranee alla vita collinare, e pertanto questo esordio della pittura in collina si svolse al di fuori di ogni vero legame fra gli artisti e il luogo, anche per la natura specifica del lavoro da eseguire, cioè temi di carattere religioso all'interno di un cenobio.
Nel frattempo, però, nel 1615, l'Arenella dava i natali ad un pittore il cui nome è rimasto ai piani alti della storia dell'’arte: Salvator Rosa, “Salvatorello”.
Prendendo motivo dal suo luogo di nascita, i vomeresi ne fanno con orgoglio un fiore all'occhiello delquartiere, perché lo ritengono forse il personaggio più famoso fra i nati in collina, l'unico “vomerese” che ha acquisito fama storica oltre il confine cittadino.
Ancora per la verità, credo che questa affermazione vada assoggettata a “revisionismo” perché Salvatorello, sebbene si sia formato artisticamente a Napoli, poco più che ventenne scelse di vivere la sua vicenda umana e artistica non a Napoli ma a Roma, accasandosi a Trinità dei Monti, e una decina d'anni a Firenze.
Ed è a Roma che ha avuto sepoltura monumentale, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, con un alto elogio, che tradotto dal latino suona: "non secondo a nessuno dei pittori del suo tempo, pari ai principi dei poeti di ogni tempo".
Tuttavia Salvator Rosa, pur vivendo ed operando altrove, conservò un'anima partenopea, che si può leggere anche nella sua pittura, negli sguardi dei ritratti e autoritratti, nelle pennellate vivaci. Comunque nella produzione di Salvator Rosa i soggetti ispirati a Napoli, e in particolare alla sua natia collina, in sostanza si limitano a qualche rappresentazione di anonimi luoghi naturali dipinti negli anni giovanili.
Assecondando l’idea che Salvator Rosa sia il fiore all’occhiello del Vomero-Arenella, all’artista è stato dedicato l'unico monumento (in formato mignon, alta 110 cm., opera di Achille D'Orsi), che adorni una piazza della collina, piazza Muzii, dopo essere stato in piazzetta Arenella, davanti la Parrocchia di Santa Maria del Soccorso, ubicazioni scelte perché si ritiene che la casa natale dell'artista si trovasse di fronte alla citata parrocchia.
Dopo le “sue glorie” artistiche qui illustrate, il Vomero dovrà aspettare ancora del tempo prima di ospitarne altre, veramente legate al quartiere.
(Ottobre 2020)
Vincenzo Irolli: arte o commercio?
di Antonio La Gala
Vincenzo Irolli (Napoli,1860 - 1949), scoprì la passione per l'arte a diciassette anni, dopo aver visto alla Esposizione Nazionale di Napoli del 1877, il "Corpus Domini" di Francesco Paolo Michetti e I "Parassiti" di D'Orsi.
Nello stesso anno si iscrisse all'Accademia delle Belle Arti, vincendo due anni dopo il primo premio alla XV Mostra della Promotrice Salvator Rosa. Sebbene fosse stato allievo di Gioacchino Toma la sua pittura fu invece influenzata dagli effetti cromatici di Michetti, Morelli e Mancini, che portarono nella sua tavolozza forti chiaroscuri, luci e riflessi abbaglianti e multicolori, come mostra, ad esempio, il suo autoritratto che accompagna questo articolo.
Spinto da necessità economiche, fra il 1883 e 1895 affiancò alla sua produzione migliore e ispirata, una produzione minore, con soggetti di facile commerciabilità, e perciò frivoli e piacevoli. Si racconta che il pittore (come faceva pure Luca Postiglione), cedeva quadretti a un rivenditore di colori e materiali per artisti, di piazza Bellini, il quale poi faceva copiare con poche varianti, da artisti minori e bisognosi, per poco o niente, i quadretti di Irolli e Postiglione, in maniera seriale, alimentando un ricco mercato.
Irolli restava operoso anche quando si ritirava in lunghi isolamenti, fra cui un lungo periodo nell'allora tranquilla Calvizzano, luogo d'origine della famiglia paterna e dove il pittore risiedeva da giovane. Agli inizi del Novecento lo troviamo abitare in vico Paradiso alla Salute e frequentare l'ambiente artistico del Vomero, dove ha lasciato dipinti nella Chiesa dei Salesiani. Infine visse a lungo e definitivamente in via Cagnazzi, nel quartiere Stella, verso Capodimonte.
Traendo ispirazione da scene e personaggi della vita quotidiana, Irolli nella sua lunga vita (arrivò ad 89 anni), produsse una gran quantità di quadri che incontrarono i favori soprattutto della committenza borghese, circostanza che gli nocque negli ambienti della critica italiana, perché lo fecero considerare un pittore "commerciale", giudicando severamente le sbavature sentimentali e coloristiche della sua tavolozza. Qualche critico giustifica l'accentuazione cromatica di Irolli come mezzo espressivo funzionale alla raffigurazione della carnalità e visceralità del mondo oggetto delle sue opere, quello popolare della città, i suoi vicoli, i volti degli scugnizzi, le vedute accecate dalla luce. In sostanza egli raffigurava lo stesso mondo che Salvatore Di Giacomo, di cui Irolli era molto amico, cantava nei suoi versi. La critica ha collocato Di Giacomo nel Panteon artistico locale e Irolli quasi fuori del recinto degli artisti.
Alla Biennale di Venezia giunse più che sessantenne, sebbene l'apprezzamento di cui godeva all'estero gli assicurasse una forte e continua presenza nelle esposizioni straniere, specie in Germania. Oggi alcune sue opere sono esposte nelle Gallerie d'Arte Moderna di Torino, Milano, Palermo, a Capodimonte e nel Petit Palais di Parigi.
A proposito della commercialità della produzione di Irolli, ci sembra esagerata, oltre che poco opportuna data la circostanza, la tirata che il critico Paolo Ricci, animato (ma non sempre con coerenza) da furori ideologici sinistrorsi, pubblicò in occasione della morte dell'artista a mò di necrologio. Fra altre sgradevolezze, leggiamo: “Egli interpretava fedelmente i desideri e la moralità di una classe senza ideali [...], la grossa borghesia meridionale che era succeduta, dopo l'Unità d'Italia, agli ultimi esponenti di quella nobiltà feudale dei quali essa assorbì soltanto la rabbia antipopolare e sul possesso della terra. Irolli appartiene al campo della reazione. Gli elementi costitutivi della pittura irolliana sono: sentimentalismo, intenerimento pietoso, leziosaggine e moralismo demagogico, il tutto espresso con una tavolozza spietatamente accesa e grossolana, approssimativa e civettuola".
Anche se la vicenda artistica di Irolli in realtà pone la domanda se la sua fu arte o commercio, tuttavia la critica d'arte vista con strabismo ideologico, indipendentemente se osservata da un lato o da quello opposto, non ci piace. E ancor meno apprezziamo gli insulti a cadavere quasi caldo.
(Agosto 2020)
Vezzi di artisti
di Antonio La Gala
Qui non intendiamo demitizzare figure di artisti; vogliamo soltanto presentare piccole curiosità che ci mostrano il lato umano, quotidiano, di alcuni fra i pittori che hanno operato a Napoli prevalentemente fra il secondo Ottocento e l’inizio del Novecento.
Giacinto Gigante, sebbene insofferente dell'accademismo, fin dagli inizi della sua attività, poco dopo i vent'anni s’iscrisse all’Istituto di Belle Arti, pare perché gli alunni interni di quell’Istituto beneficiassero dell'esonero dalla coscrizione militare.
Saverio Altamuraera un bell'uomo, con barba e capelli alla nazareno. Collezionava amanti e, per ogni amante “conosciuta”, conservava un ricordino (come ninnoli, fazzoletti, spille). Sposò una sua allieva greca che lui credeva maschio (perché così gli si era presentata), fino a quando volle ritrarre un nudo del "giovinetto". Quando questa moglie lo lasciò perché lo ritenne responsabile della morte di una loro figlia per tisi, il pittore, con disinvoltura passò ad un'amica della moglie, anch’essa pittrice. La vecchiaia gli regalò un inizio di demenza: d'inverno camminava per Toledo vestito d'estate: morì per un’ infreddatura.
Edoardo Dalbonoper cogliere effetti di luce particolari convocava i modelli sull'altura di San Potito, all'alba, provocando curiosità, ma anche allarme, come quando fra i modelli c'era un incappucciato, cosa che dette l’idea di una celebrazione di stregonerie.
Superstiziosissimo, credeva anche nella reincarnazione delle anime. Un giorno mentre camminava con Salvatore Di Giacomo, si avvicinò loro un cane randagio, magro e spelacchiato. Dalbono andò subito a comprargli un pezzo di carne, perché convinto che in quel cane stesse l’anima di suo fratello.
Nella chiesa di Piedigrotta si trova una sua grande tela, che dipinse come voto, per la guarigione della moglie, la cui malattia lo aveva turbato moltissimo. Trasandato nel vestire, usava una vecchia palandrana ed una mezza tuba abbassata fino alle orecchie. Ad un importante funerale si presentò con un ombrello appeso al braccio con un nastro. Nei ricordi di suoi colleghi ricorre il disagio olfattivo nello stare nella sua casa allietata da falangi di gatti.
L'Istituto di Belle Arti, pur essendo frequentato da artisti di eletta sensibilità, non sempre era una comunità di anime generose, di silenziose estasi artistiche, di pensieri e comportamenti nobilmente distanti dal comune sentire, ma, come in ogni altra qualsiasi aggregazione umana, agli slanci nobili, si alternavano invidie, egoismi, desideri di prevalenza.
Non pochi artisti trovavano lo spazio per entrarvi solo grazie ad una "presentazione" fatta da un amico di famiglia, un compaesano, già divenuto artista importante. Chi lo spazietto nell'Istituto se lo era ritagliato, raramente accoglieva a braccia aperte nuovi aspiranti e nuovi venuti.
Di alcuni artisti arrivati “istituzionalmente” in alto, si tramandano episodi discutibili. Il giovane abruzzese Francesco Paolo Michetti per entrare in Accademia fu raccomandato al direttore Smargiassi da un incisore corregionale. Racconta Ugo Ojetti: "Lo Smargiassi, elegante, solenne, vestito all'inglese, li ricevé con sussiego. Allo sponsor che disse "questo è un giovanetto che viene da Chieti per diventare pittore', rispose: 'Comme, tu vo' fà ’o pittore? Fa piuttosto ’o solachianiello". Michetti così rievocherà l'episodio: "Quella fu la prima parola che udii dall'arte ufficiale”
Né mancavano episodi squallidi. Poco dopo il suo arrivo a Napoli, Attilio Pratella si vide sparire in un'aula della scuola la cartella che aveva portato con sé da Bologna, in cui custodiva numerosi studi pittorici.
Fra i ricordi meno artistici dell'Istituto in quel periodo alcuni conservavano quello del traffico di pezzi di cadaveri umani fra le sale di disegno di anatomia e le sale di anatomia del vicino ospedale di S. Aniello.
Anche presso i nostri eroi l'Arte non si alimentava solo di estasi ma anche di vermicelli alle vongole. Come le cronache ci fanno sapere, il rapporto fra artisti e buona tavola era ben solido. Ristoranti famosi e agresti trattorie offrivano, al riguardo, buone opportunità. In occasione di inaugurazioni di mostre era consuetudine vedere, in qualche vicino ristorante o trattoria, lunghe tavolate di decine di personaggi, fra pittori, scultori, poeti, critici d'arte, vecchi e giovani.
Gli incontri dei gruppi artistici in questo o quel caffè, su cui si sono spesi i migliori scrittori e giornalisti per mitizzarli, forse andrebbero soggetti a revisionismo. Talvolta questi mitici convegni artistici lasciavano qualche impressione meno epica nei comuni occasionali spettatori, inconsapevoli di vivere momenti magici di storiche adunanze.
Infatti qualche artista era noto per il suo parlare, diciamo così, "colorito"; altri per l'attento interesse (si presume artistico) alle curve femminili di passaggio; altri ancora si concedevano al pubblico in toilettes particolarmente trasandate (taluni addirittura per la poca pulizia), al di là delle "licenze" di abbigliamento più o meno stravaganti che gli artisti amano concedersi. Alcune artistiche folte chiome candide che, nella pubblicistica nostalgico-agiografica, vengono ricordate quasi come aureole messe lì a santificare i personaggi, si accompagnavano in qualche caso ad abbondanti forfore.
Quando, nell'aprile del 1950, passò sotto le finestre del pittore Gaetano Ricchizzi il corteo funebre dello scultore Filippo Cifariello, morto suicida, il Ricchizzi si affacciò sghignazzando verso le persone che seguivano il feretro, perché - a suo dire - questi avevano tramato fino a poco prima contro lo scultore, ed ora, nel corteo, fingevano dolore.
Vezzi, e talvolta vizi, di artisti, di questo o quel periodo, li perdoniamo tutti, perché li ringraziamo per quello che ci hanno lasciato come artisti.
(Maggio 2020)