La vendetta
di Alfredo Imperatore
Il marchese Antonio De Franciscis aveva un grande negozio per la rivendita di tappeti, a Palermo. e un magazzino, a Casablanca, per la loro raccolta da vari paesi dell’Africa settentrionale.
I tappeti sono prodotti in diverse zone della Terra e i più pregiati sono quelli persiani, famosi per i loro disegni, i tessuti (seta, lana e a volte anche con fili d’oro), i colori e il numero di nodi; i più pregiati ne possono avere anche più di ventimila per decimetro quadrato.
Dietro la produzione dei tappeti, però, vi è un ampio sfruttamento di mano d’opera delle ragazzine dai 7-8 fino ai 13-14 anni. Questo è il lasso di tempo in cui le bimbe, con le loro piccole mani, riescono ad annodare il più velocemente possibile, perché, poi, man mano che crescono, si ingrandiscono, conseguentemente, anche le dita, per cui la velocità dell’annodamento dei fili di trama dell’ordito, lentamente diminuisce ed esse vengono subito licenziate per essere sostituite da altre adolescenti più piccole. Tale forma di sfruttamento infantile è presente ovunque questi manufatti sono prodotti.
Ritorniamo al marchese De Franciscis: egli aveva tra i suoi piazzisti, un collaboratore di nome Alberto, che conduceva sempre con sé, nei frequenti viaggi, in aereo o con traghetto, tra Palermo e il magazzino di Casablanca.
Qui aveva una dipendente marocchina, di nome Atina, musulmana come quasi tutti i suoi conterranei, ma un po’ più evoluta rispetto alle sue connazionali, perché non portava quel foulard che copre la testa e le spalle, lasciando scoperto solo il viso o addirittura solo gli occhi, e che, a seconda della forma che assume tra le varie popolazioni, è chiamato hijab, al amira, shayla, khimar, chador, niqab, burqa, e chi più ne ha più ne metta.
Il compito di Amina era di accogliere e contrattare, con i diversi fornitori, il prezzo dei vari tappeti, da quelli più economici, con nodi più grossi, a quelli più pregiati, manufatti con moltissimi piccoli nodi.
Ad ogni persona capitano dei giorni favorevoli (molto rari), e altri sfortunati: i cosiddetti giorni “no”. Infatti, quando giunse il momento in cui il marchese, insieme ad Alberto, doveva andare in Marocco, pareva che tutti i numi si fossero messi contro; era incappato proprio in un giorno “no”.
Sciopero degli aerei, fermi tutti i traghetti, per cui, dopo aver girovagato in lungo e in largo, dové ricorrere a un privato, pagando un caro prezzo per imbarcarsi insieme ad Alberto.
Non poteva rimandare il viaggio, pena la perdita di un’importante commessa che Amina gli aveva assicurato, in quanto era venuto un facoltoso commerciante, che aveva promesso una grande quantità di tappeti ad un prezzo molto concorrenziale. Ma, una volta giunto al negozio, ebbe l’amara sorpresa: il venditore non si era presentato.
La sua rabbia fu fortissima e, poiché era un accanito fumatore, incominciò ad accendere una sigaretta dopo l’altra. Poi disse ad Alberto che poteva andare a spasso per la città, mentre lui si sarebbe intrattenuto ancora un po’ nel negozio.
Rimasto solo con Amina, pensò bene di recuperare il tempo perduto, iniziando a fare le “coccole”, che solitamente si scambiavano. Vi era, infatti, tra i due, “una tenerezza reciproca” e, dopo le prime effusioni, si passava, solitamente, a rapporti più avvincenti.
Il giorno “no” continuò a farsi sentire, giacché la sua impiegata ritenne che fosse giunta l’occasione propizia per chiarire ciò che, da diverso tempo, aveva in animo di dirgli. Lo pose, infatti, dinanzi ad un aut aut: o la sposava o cercava altrove il suo divertimento.
La giornata era iniziata male e stava per finire peggio. Il marchese non volle sottostare a questa imposizione e, con grande meraviglia di se stesso, solitamente calmo e riflessivo, rispose molto bruscamente e sgarbatamente, per cui, obtorto collo, dové rinunziare ai suoi propositi e la lasciò
sbrigativamente, per ritornare nell’albergo che era il suo punto di appoggio nei viaggi a Casablanca. Giunse tanto stanco da buttarsi, vestito com’era, sul letto.
La stanchezza era prevalentemente spirituale, dinanzi alla contrarietà di quella brutta giornata che non gli aveva permesso di raggiungere nessuno dei suoi obiettivi. Era anche prostrato fisicamente, e quasi intossicato dalla nicotina, per essere andato ben oltre i quattro pacchetti di sigarette che normalmente fumava ogni giorno.
Il sonno lentamente lo stava prendendo, dovuto anche alla brezza del vicino mediterraneo, quando entrò nella stanza Alberto. <Come mai hai impiegato tanto tempo per venire?> gli chiese distrattamente il marchese. <Ho girovagato un po’ per la città e poi sono passato per il negozio e, poiché non ti ho trovato, sono ritornato qui>. Questa fu la risposta del collaboratore, ma la realtà era ben diversa.
Giunto al negozio del marchese, aveva trovato Amina in lacrime, sola ed avvilita. Le si era avvicinato per confortarla e, man mano che la ragazza spiegava il motivo della sua tristezza, egli aveva incominciato a consolarla sempre più teneramente, tenendola stretta a sé, finché l’abbraccio non divenne ancora più forte e, con esso, maggiore il sollievo della ragazza.
Amina, tra l’altro pensò, che, tutto sommato, Alberto era da preferirsi ad Antonio, per cui volle essere rincuorata più di una volta. Alla fine, mentre Alberto si era ricomposto e stava per uscire, lo tirò per un braccio, lo guardò fissamente negli occhi e gli disse: <Ué, statti zitto!>. Antonio, sornione, le rispose: <Hai dimenticato che sono di Palermo?>. La donna, dubbiosa, replicò: <E questo cosa significa?>. E lui: <Significa che i siciliani non vedono, non sentono e non parlano!>.
(Febbraio 2021)