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L’ANTICA ICONOGRAFIA DEL VOMERO

 

di Antonio La Gala

 

Le vecchie immagini di un luogo sono uno strumento per la conoscenza di quel luogo, dei processi storici, economici, culturali che vi si sono svolti. Leggere le immagini di un luogo significa leggerne la storia

Ciò diventa molto difficile nel caso delle alture vomeresi, cioè dei quartieri Vomero e Arenella, perché l’antica iconografia che ce ne è stata tramandata, in effetti stampe, è molto scarsa, semplicemente perché fino a tale data il Vomero, pur avendo una “sua storia”, era visto, escludendo San Martino, come una realtà di sola campagna. L’iconografia è poi rimasta scarsa anche per i primi decenni successivi alla sua prima urbanizzazione iniziata a fine Ottocento, quando il compito di documentare la realtà era stato assunto dalla fotografia. Vediamo perché.

La fotografia nei suoi primi tempi, cioè nella seconda metà dell’Ottocento, era considerata come semplice supporto e complemento della pittura. Ciò accadeva per i ritratti come per la descrizione dei luoghi. In questo secondo ambito la produzione fotografica sostituiva le immagini pittoriche che erano cercate dai viaggiatori - soprattutto stranieri - che dalla fine del Settecento, sempre più numerosi, scendevano in Italia per effettuare il “Gran Tour”, alla scoperta delle sue bellezze naturali ed artistiche.


Questi viaggiatori amavano tornare con immagini a ricordo delle cose viste. Dapprima le immagini erano necessariamente pittoriche, ma quando la fotografia cominciò ad essere uno strumento sufficientemente maturo per sostituire acquerelli e stampe, iniziarono ad operare fotografi che però affrontavano la descrizione dei luoghi con lo stesso animus del pittore, cercando cioè il pittoresco, la nota di costume. Napoli con i suoi dintorni costituiva una delle mete più frequentate del Gran Tour, e di conseguenza, fotograficamente, si resero molto attivi fotografi di primissimo piano, primi fra tutti gli arcinoti fratelli Alinari e Giorgio Sommer, il quale, in particolare, compilò un album che spaziava fra il 1875 e la fine del secolo, annotandovi anche delle didascalie. La produzione di queste immagini, essendo riservata ad una ristretta élite intellettuale era sempre di altissimo livello, sia tecnico che culturalmente interpretativo della realtà riprodotta, umana, sociale, ambientale.

Il Vomero-Arenella, non avendo un significativo peso turistico, fu quasi ignorato da questo tipo di produzione fotografica. E fu ignorato per lungo tempo anche dalla produzione delle sorelle povere delle immagini per turisti, cioè dalle cartoline illustrate, circostanza che spiega perché è così difficile reperire cartoline del Vomero e dell’Arenella, eccezion fatta per San Martino.

Al di fuori poi della produzione per i turisti, a Napoli, fin dall’inizio, anche la fotografia che documentava ambiente e società si occupò quasi esclusivamente del vedutismo paesaggistico, pittorico, folkloristico (Vesuvio col pino, Posillipo, il mare, Via Caracciolo, Santa Lucia, gli scugnizzi, i pescatori, l’ostricaro), ignorando la città non folkloristica, quella industriale, borghese, proletaria. Ciò rispecchiava la situazione di Napoli, una città “diversa” dalle altre grandi città europee dell’epoca. E poiché di folkloristico, all’epoca, al Vomero non c’era niente, il quartiere fotograficamente continuò ad essere del tutto ignorato.

Infine pure i pochissimi primi fotoamatori dilettanti non trovavano alcun motivo per riprendere le strade e le nuove costruzioni del Vomero, e le imprese stesse che realizzavano le opere non avevano l’abitudine di documentarne la costruzione. Né il quartiere era teatro di manifestazioni pubbliche o di fatti di cronaca: lo testimonia la sua totale assenza dalle “storie fotografiche di Napoli”. Perciò le poche immagini del Vomero del passato spesso sono quelle che sbucano dalle “foto ricordo” degli album familiari, talvolta sotto forma di elemento ambientale, complementare, come sfondo. Ma è difficilissimo reperire queste fotografie e purtroppo gran parte di esse, come ho constatato, con amarezza, sono destinate all’oblio, man mano che vengono disperse dal tempo e dalla insensibilità dei molti che, nello svuotare i cassetti degli anziani, “si liberano” degli “inutili” loro ricordi personali.

Il materiale fotografico del periodo di cui stiamo parlando è stato però integrato, in misura limitata, dalla pittura dell’epoca, quando il clima artistico della città era orientato verso forme di pittura aderenti alla realtà, portando il cavalletto in campagna. La pittura non poteva non essere attratta dal fascino ambientale della collina, considerando che il paesaggio era uno dei suoi temi preferiti, acquisendo il grande merito di aver rappresentato, si può dire in esclusiva, la parte migliore di quel Vomero-Arenella scomparso e decantato, suffragando ciò che la fotografia di quei tempi andava ignorando.

Molti pittori hanno poi scelto il Vomero anche come loro luogo di vita, circostanza che ha propiziato una loro maggiore attenzione al paesaggio del posto.

Fra questi ultimi vanno ricordati, in maniera particolare, come benemeriti della pittura vomerese, Attilio Pratella e Giuseppe Casciaro, vomeresi di adozione e per scelta artistica.

Che il bello al Vomero oggi sia scomparso, almeno quello pittorico di tipo tradizionale, è testimoniato anche dalla scomparsa di pittori che lo ritraggano: è difficile immaginare che il Vomero del secondo dopoguerra possa essere fonte di ispirazione per un qualche pittore.

(Settembre 2022)

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