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Pennelli barocchi nelle strade del Vomero

 

di Antonio La Gala

 

La letteratura sulla pittura barocca napoletana conta una miriade di pubblicazioni, spesso con linguaggio interno alla cerchia degli addetti ai lavori, o comunque di chi già conosce la materia.

In questo articolo non vogliamo aggiungerci ai filoni di tali pubblicazioni ma, scendendo dalle vette della critica d'arte al più modesto filone dell'aneddotica, ci limitiamo a esporre qualche notiziola ricavata fra le pieghe delle vicende quotidiane degli artisti di quel periodo, e in particolare di alcuni pittori nei cui nomi i vomeresi s’imbattono quotidianamente, perché sono titolari toponomastici delle strade del quartiere. Notiziole che riteniamo possano servire anche a comprendere un pò meglio il contesto di quell'epoca, ricordando, come recitano autorevoli critici, che il barocco è una metafora, o meglio, una manifestazione concreta, della condizione di Napoli e dei napoletani, delle sue contraddizioni, dei suoi vizi e virtù, della sua misera e nobiltà. Ieri come oggi, e, prevediamo, anche domani.

Secondo De Dominici, settecentesco biografo degli artisti che ci riguardano, Belisario Corenzio capeggiava con modi di fare mafiosi, un gruppo di pittori che impedivano agli altri di fare il loro stesso lavoro.

Sempre secondo de Dominici, nel perseguitare i pittori forestieri il Corenzio era aiutato da Battistello Caracciolo e da Ribera.

C'è però chi sostiene che se ciò è vero, il boicottaggio sarebbe avvenuto solo contro i pittori forestieri particolarmente bravi, come ad esempio il Domenichino, Guido Reni, i quali potevano insidiare la committenza alta, di provenienza clericale, quella che più interessava al "clan" di pittori che Corenzio capeggiava. Infatti, in quel periodo non fu impedito l'insediamento a Napoli di una colonia di artisti stranieri che invece si integrarono nell'ambiente partenopeo “senza dare fastidio”. Questi, assieme ad altri artisti locali, abitavano in gran numero nel tratto di strada compreso fra lo Spirito Santo e Piazza Carità, costituendo un quartiere di artisti, ricercati da committenti del mondo forense, borghese e religioso, per piccoli quadri di natura morta, di paesaggio e ritrattistica, committenti che non volevano "appesantire" le loro collezioni già ricche di temi sacri.

In effetti il "boss" Corenzio produsse moltissimo, fin quando poté, fin quando non morì cadendo da un ponteggio da cui stava dipingendo in una chiesa.

Giuseppe Ribera lavorò dal 1637 al 1640 nella Certosa di S. Martino, dove ha lasciato una grande Deposizione, di alta drammaticità, e quattordici  Profeti nelle arcate della chiesa. Cronache e documenti dell'epoca raccontano di una tormentata vicenda attraversata dal pittore e dai suoi eredi per ricevere il pagamento delle opere eseguite nella Certosa, perché i monaci li fecero penare a lungo.

Un tipo di personaggio che era frequente incontrare a Napoli a quell’epoca, è Francesco Solimena. Quando venne a Napoli dalla natìa Irpinia  prese "gli ordini minori", secondo una tradizione dell'epoca che non badava tanto alla vera vocazione, ma al fatto che tale condizione facilitava l'inserimento negli ambienti che contavano, le conventicole di artisti, studiosi e mecenati.

"L'abate Ciccio" Solimena, che fu anche scultore e architetto, dette vita ad una prestigiosa bottega da cui uscirono, fra altri, Bonito e De Mura. Narrano i cronisti che quando gli allievi della sua bottega, ai quali imponeva l'abito talare, uscivano in gruppo per la città, sembrava di assistere alla passeggiata  di un collegio di religiosi, piuttosto che di artisti.

La retta annuale della scuola prevedeva la coabitazione obbligatoria nella stessa casa del pittore e  pasti comuni, in modo da distogliere gli allievi il meno possibile dallo studio e dal lavoro.


Interessante la vicenda di una pittrice, una donna, cosa assai rara per quei tempi, Annella di Massimo, nata a inizio Seicento e morta nel 1641. Si chiamava Diana de Rosa. Annella è un diminutivo di Dianella e poiché entrò nello studio di Massimo Stanzione, è ricordata come Annella di Massimo. L’immagine che accompagna questo articolo la ritrae.

Nata in una famiglia di pittori, per non cambiare ambiente sposò un pittore, detto Agostiniello, pare per mano del quale morì perché questi sospettò, non si sa se a torto o a ragione, che Annella lo tradisse con il maestro Stanzione.

Massimo Stanzione era un pittore costretto a lavorare molto, a produrre una gran quantità di opere per diversi ordini religiosi e di devozione privata, nonché pale di altare, anche perché  dal suo lavoro doveva ricavare i soldi per soddisfare il lusso smodato della moglie.

Un altro pittore che produsse molto nell’ambito delle opere di carattere religioso fu l'eclettico Luca Giordano. tanto rapido nel dipingere, da essere chiamato “Luca fa presto”. Spesso per far prima usava le dita invece dei pennelli. Da giovane, nei primi tempi, visse vendendo ai turisti di Roma, assieme al padre, copie di quadri famosi, fra cui, forse, anche dei falsi ben riusciti. Una leggenda raccontava che Luca, dopo aver dipinto una tela con diavoli molto realistici, durante una gita al Vesuvio vide un diavolo uscire dal cratere che, avvicinandosi sghignazzando, si rallegrava del bel lavoro fatto. Luca, appena tornato a casa, distrusse la tela.

Spero che queste curiosità ci rendano, nel percorrere le strade del Vomero, questi artisti più “familiari”, vicini ai vizi e virtù degli artisti di oggi. Non solo di Napoli. e non solo pittori.

(Luglio 2023)

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