Papa Francesco
Il Papa che ha cambiato la storia
di Mariarosaria Figliola*
La morte del Papa è avvenuta in un momento storico particolare e in un contesto di passaggio. Tutti i social e i media si sono dati da fare per divulgare la notizia della sua morte. Ne hanno parlato nei tanti telegiornali delle varie TV e sulle testate dei quotidiani e così via. Insomma, il mondo intero ne è rimasto sconvolto. Ma ci sono state anche molte critiche sulla figura di Francesco perchè, rispetto al passato, oggi, qualunque cosa venga detta, è soggetta a commenti, giudizi e dietrologie. La figura del Papa è stata particolarmente interessante, perché la sua è stata una figura contraddittoria: Papa Bergoglio, all’inizio del suo pontificato, si è mostrato una persona attenta ai valori della Chiesa e poi si è rivelato in un’altra dimensione e, con il suo atteggiamento umano, vicino agli ultimi, ai dimenticati e ai più bisognosi, ha cambiato la storia. Il suo stile è stato uno stile non istituzionale, con atteggiamenti fuori programma, uno stile decisamente pastorale. Ed ecco che ha aperto una via nuova, ha inaugurato una via che, pian piano, porterà all’apertura dei cuori di tutti noi. Una via che non era prevista, ma che ci condurrà ad una Chiesa umana, più vicina al Vangelo. Non dobbiamo avere paura, dobbiamo avere coraggio, il coraggio per una Chiesa umana, improntata agli insegnamenti del Vangelo, una Chiesa in cui la persona è più importante della dottrina. È questo il messaggio che ci ha lasciato Papa Francesco ed è lo stesso atteggiamento di Gesù, che troviamo nel Vangelo.
* Presidente Unitre - Napoli
IL VICOLO DELL’AMORE
di Luigi Rezzuti
Il vicolo dell’amore è un piccolo passaggio nel cuore dei Quartieri Spagnoli, che attrae numerosi turisti, pronti a celebrare l’amore in ogni sua forma. In uno degli angoli più suggestivi e iconici di Napoli, sorge un’area in cui ogni passo sembra riecheggiare promesse di legami eterni. È il vicolo dell’amore, un piccolo paradiso, nascosto, come si è appena detto, tra le viuzze e le stradine dei Quartieri Spagnoli, che incanta chiunque vi si avventuri. Qui, tra antichi muri e cieli azzurri, l’aria è carica di magia e ogni pietra sembra custodire un segreto, sussurrato da innamorati che, da generazioni, si sono scambiati baci e abbracci. Un luogo, dove il tempo si ferma e l’amore diventa eterno, un piccolo e pittoresco passaggio, un labirinto di vie strette, colorate e sempre vivaci. Più precisamente attraversa il Vico Santa Maria delle Grazie a Toledo, che scende verso piazza Berlinguer. Questa stradina, sebbene meno conosciuta, rispetto ad altri luoghi iconici della città, ha conquistato il cuore degli innamorati e dei turisti, grazie alla sua atmosfera unica e incantata. La sua fama è legata al tripudio di cartelloni colorati, cuori giganteschi, frasi svolazzanti e fiori profumati, tra botteghe e negozi. Correva l’anno 2014, quando il fioraio Antonio Volo ha la straordinaria intuizione di allestire, proprio intorno al suo esercizio commerciale, nel cuore di Vico Santa Maria delle Grazie, una serie di cartelloni colorati e un mega cuore rosso. è subito boom di condivisioni social e visite. Il neonato Vicolo dell’Amore è preso d’assalto da turisti e cittadini e diventa un’attrattiva addirittura per registi ed anche perstilisti del calibro di Dolce e Gabbana. Nel 2018, però, c’è un brutto risveglio per napoletani e turisti: il vicolo dell’Amore è inaspettatamente smantellato proprio da colui che lo ha ideato. Il fioraio, stanco dei continui danni, prodotti alla sua bottega e alla sua merce, fa sparire striscioni e cuori in polistirolo. Eppure la cattiva educazione dei passanti non ha la meglio su questo angolo romantico che, tempo un paio di mesi, ritorna festoso, tra strofe di canzoni e slogan, in occasione del Black Friday. Set romantico per eccellenza e luogo ideale per una dedica a costo zero o per indimenticabili selfie, il partenopeo Vicolo dell’Amore colpisce per il suo essere un rifugio di intimità nel mezzo della vivacità dei Quartieri Spagnoli. Qui, tra i balconi fioriti, le pareti in pietra che raccontano storie di secoli e le strette viuzze che profumano di cucina tipica, l’amore trasuda nell’aria. Ogni passo è accompagnato dal suono delle voci dei napoletani, che discutono animatamente o si salutano con un sorriso, aggiungendo al luogo quella immersione nel calore umano, che rende la città così speciale.
Un paese di anziani
di Gilda Rezzuti
Il passaggio dalla società tradizionale alla società moderna, tra le tante cose, ha segnato anche l’inizio di un profondo cambiamento del concetto che si ha delle tappe della vita. Invecchiare non è sempre semplice e oggi lo è ancora meno. Diventare anziani è un processo naturale biologico, ma è anche un fenomeno storico, nel senso che la percezione è strettamente legata alla storia personale dell’individuo e alla realtà a cui appartiene. Un concetto, dunque, che non può essere definito in assoluto, non avendo lo stesso significato in tutti i paesi del mondo e nei vari periodi e contesti storici. Ma a quale età, in generale, si può essere definiti anziani? Nel nostro paese le persone iniziano ad essere considerate anziane intorno al periodo del pensionamento, all’incirca dopo il compimento dei 65 anni. Da questo momento si incomincia a parlare di terza età e cioè di quel delicato periodo, che coincide con l’inizio della senilità, condizione caratterizzata, nella maggioranza dei casi, da una salute non compromessa, tale, quindi, da consentire ancora un buon inserimento sociale e valide risorse psico-fisiche. Nel 2018, durante il Congresso nazionale della Società italiana di Gerontologia e Geriatria, è stato proposto di fare slittare questo passaggio ai 75 anni, per effetto dell’allungamento dell’aspettativa di vita, che, in Italia, si attesta, in media, sugli 85 anni per le donne e sugli 82 per gli uomini. Dai 75 anni in poi, si parla, dunque, di quarta età, praticamente di quell’arco temporale che accompagnerà l’essere umano fino alla fine del ciclo di vita. Rispetto al secolo scorso, l’aspettativa di vita si è notevolmente allungata, come si è appena detto, tanto che, nella nostra società, l’invecchiamento della popolazione sta diventando sempre più uno dei temi che necessitano di attenzione da parte delle istituzioni, e non solo, soprattutto per la responsabilità e il carico, che questo delicato stato comporta. Infatti, l’emergenza di una buona gestione della terza e quarta età, ha segnato, oggi, una vera e propria rivoluzione copernicana, una rivoluzione che affonda le radici nei cambiamenti epocali ed esistenziali. Ultimamente risulta a tutti evidente il costante e radicale processo di trasformazione che sta avvenendo nel considerare i tempi di vita e i percorsi dell’esistenza, rispetto agli anni passati, tempi e percorsi che hanno sostanzialmente modificato le relazioni umane all’interno del nucleo familiare e le interazioni nella comunità allargata. Un altro importante aspetto da considerare è quello che, con l’avanzare dell’età, inevitabilmente aumentano le difficoltà, principalmente di tipo medico e socio-economico, ma bisogna tener presente anche il serio problema connesso, e cioè la questione demografica del paese. che vede il rapporto fra nascite e morti estremamente sbilanciato. Infatti, l’Italia sta diventando sempre più un paese di vecchi. La vita. negli ultimi trent’anni, si è notevolmente allungata e patologie che, fino a qualche tempo fa, erano considerate inguaribili, oggi, grazie alla prevenzione e ai notevoli successi ottenuti in campo medico e chirurgico, sono maggiormente gestibili e curabili.
Queste costanti conquiste sono un fatto certamente positivo, che ha determinato una duplice visione dell’anziano, che va considerato sotto il profilo delle criticità, che possono dar luogo a svariati problemi per la famiglia e per la comunità, ma anche come risorsa per la società, per quel valido supporto che l’anziano può rappresentare per il ruolo redistributivo, di tipo intergenerazinale- Occorre, infatti, ricordare che, se da un certo punto di vista, la longevità raggiunta nelle società moderne, non può che essere considerata un traguardo importante, dall’altro risulta indispensabile dover far fronte energicamente alle serie problematiche a cui spesso si va incontro, in quanto, purtroppo, ci sono anche casi in cui si invecchia male, in povertà ed isolamento sociale, con un decadimento psico-fisico costante, condizioni queste che spesso comportano una significativa dipendenza dagli altri. Tutto ciò impone la necessità di lavorare con costanza perché si possa garantire, in futuro, la ripresa di un giusto equilibro demografico, assicurando, contestualmente, nel caso di anziani con una salute compromessa, se non la riconquista di uno stato di autosufficienza e completo benessere, quanto meno una qualità di vita decorosa, in grado di tutelare e conservare la dignità umana, integra fino alla fine dell’ esistenza, come diritto rigoroso e imprescindibile.
(Gennaio 2025)
ZIO PAPERONE PARLA ‘O NNAPULITANO
di Sergio Zazzera
Finalmente, l’Italia intera sta venendo fuori dalla dialettofobia, diffusa all’indomani della proclamazione dell’Unità d’Italia e durata fino a tempi recentissimi; così, grazie all’iniziativa dell’UNPLI. - Unione nazionale delle pro-loco, per sensibilizzare istituzioni e comunità locali sull’importanza di tutelare questi patrimoni culturali, il 17 gennaio di ogni anno ricorre la Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali.
Alla ricorrenza ha inteso partecipare anche il periodico per ragazzi Topolino, che ha pubblicato, nel numero in edicola dal precedente giorno 15, la storia Zio Paperone e il Pop-6000, nella quale i personaggi si esprimono in napoletano (ma lo stesso racconto è stato pubblicato, nelle edizioni diffuse nelle rispettive regioni, anche in fiorentino, milanese e siciliano-catanese). L’iniziativa è stata coordinata dal prof. Riccardo Regis, docente di Linguistica italiana dell’Università di Torino; la versione napoletana della storia è stata curata dal prof. Giovanni Abete, associato di Glottologia e Linguistica dell’Università di Napoli “Federico II”.
Dunque, zio Paperone, Archimede Pitagorico, il maggiordomo Battista e l’intera banda Bassotti dialogano fra loro adoperando una “parlata napolitana”, che il curatore ha scelto di rendere graficamente quanto più vicina possibile al napoletano parlato oggi. Scelta, questa, che ritengo un tantino discutibile, ma che può avere una sua utilità. Il pubblico, infatti, al quale il racconto è destinato è costituito soprattutto da giovani e giovanissimi, i quali si saranno sentiti ripetere in famiglia, ancora – e purtroppo! - «Parla bene», quasi che parlare il dialetto sia un “parlar male”. Trovare, perciò, l’idioma napoletano scritto nella maniera in cui va pronunciato (maniera che, però, qualche volta non mi è sembrata troppo corretta), potrà sicuramente aiutare questo pubblico a un migliore uso di quella, che può essere considerata la sua “vera” lingua madre.
(Gennaio 2025)
Pensando al futuro…
di Romano Rizzo
Ciò che più mi spaventa, in questi anni, è l’indifferibile necessità di una presa di coscienza sulle mutate condizioni di vivibilità che ci offrirà il nostro pianeta. È evidente ad ognuno che è già in atto un loro progressivo e irreversibile deterioramento.
Il clima, lo riconoscono gli esperti, già oggi non è più quello di una volta, ma è molto mutato ed è cambiato in peggio. troppi eventi catastrofici, che prima si verificavano con cadenza pluriennale, adesso li registriamo con maggiore frequenza e con effetti spesso molto più disastrosi. Basti pensare alle spaventose inondazioni, dovute allo straripamento di vari corsi d’acqua in Emilia Romagna e, purtroppo, vediamo che si ripetono quasi ogni anno con effetti sempre più devastanti. Talvolta siamo costretti a sentire che un certo fiume ha rotto gli argini in un punto preciso, dove già ciò era avvenuto nell’anno o negli anni precedenti.
Mi viene da pensare, a tale proposito, che forse qualcuno non avrà provveduto a rinforzare opportunamente le nostre difese e che mai nessuno viene chiamato a rendere conto del proprio operato e tutto viene accettato passivamente.
Le risorse stanziate dallo Stato sono state, è facile supporre, malamente impiegate per risarcire parzialmente i danni subiti dalle alluvioni e nulla o quasi nulla è stato fatto per prevenire il ripetersi delle stesse, confidando nelle tempistiche antiche, ormai superate dagli eventi. Cosa hanno fatto le istituzioni per garantire alle popolazioni colpite tempi migliori? Quali rimedi hanno ritenuto indispensabile adottare?
Poco si scrive al riguardo ed in concreto ci si trova dinanzi ad un assordante e colpevole silenzio . Pochissime sono le eccezioni e, fra queste, degne di nota, mi paiono solo alcune sporadiche iniziative che ritengo doveroso segnalare alla cortese attenzione di chi leggerà questa mia nota. Nella nostra regione, in Campania, è stata prevista, nel programma operativo, la costruzione, nel Beneventano, di una diga di vaste dimensioni che servirà a scongiurare il pericolo della siccità, che già affligge alcune regioni. In tale diga saranno installate, inoltre, diverse postazioni, con tralicci che potranno fornirci, in futuro, in maniera permanente, energia eolica e solare per renderci abbastanza autonomi dalle variazioni di prezzo dell’energia elettrica sul mercato. Non so dirvi quando e se tali progetti potranno tramutarsi in realtà effettive ma mi è parso doveroso segnalarli tra le poche idee costruttive, che si prefiggono di porre rimedio al previsto inasprimento delle condizioni di vivibilità sul nostro pianeta, in un non troppo lontano futuro.
Mi auguro che quella che ho segnalato non rimanga a lungo soltanto una voce che chiama nel deserto, ma che sia seguita ben presto dalle proposte fattive di quanti si renderanno conto che è tempo di riunire le nostre forze ed agire prontamente, prima che sia troppo tardi .
Al riguardo, credo che debbano agire in concerto i governi nazionali, europei e mondiali, con unità di intenti, a favore dell’intero genere umano, superando frizioni ed ostacoli, in nome del bene e dell’interesse comune.
(Dicembre 2024)
Un ricordo d’infanzia: il cimitero
di Gilda Rezzuti
Ricordo che, da piccola, provavo un sentimento misto di paura e di attrazione verso i camposanti. Li reputavo luoghi tetri, da evitare, ma anche misteriosi, da esplorare.
Quando mia madre mi conduceva con sé, a mettere i fiori freschi sulla tomba del nonno, provavo un‘indefinibile malinconia. Quella quiete innaturale densa di tristezza, il profumo acre dei crisantemi, l’odore pungente dei cipressi, le lapidi messe in fila come in un domino gigantesco, mi angosciavano, producendo in me uno stato di gravoso malessere, ma anche di affascinante curiosità.
Mi torna in mente quella volta in cui, approfittando della distrazione di mia madre, intenta a mettere l’acqua nei vasi dei fiori, mi allontanai rapita in quel viale silenzioso, perdendomi nei lunghi filari delle sepolture.
Era il pomeriggio di un ventoso giorno di tarda estate, avevo circa undici anni, e in quel viale eravamo solo io, il silenzio e quella distesa immensa di lapidi, con foto di volti sconosciuti, alcuni con sguardi severi, altri sorridenti, molte in bianco e nero, dai visi scoloriti, altre più recenti a colori sbiaditi, mi soffermai a leggere i necrologi, tristi pieni di rimpianto, le frasi nostalgiche incise sul freddo marmo.
Vidi una donna vestita tutta in nero disperarsi sulla bara del figlio e, in quel sordo silenzio, rotto dal pianto, per la prima volta provai lo sgomento della morte. Sentii il frusciare delle foglie nelle siepi, poste ad ombreggiare le lapidi, dove facce anonime raccontavano, mute, la propria sventura, la propria storia e mi sembrò di sentire il vento di una eco collettiva, di tutte le voci, di chi non era più in questo mondo, echeggiare tra le chiome dei cipressi.
Trovai anche qualche volto familiare, come quello di Peppino, il simpatico postino, che da molto tempo non passava più a consegnarci la posta e dal vicino. Vidi la vedova del macellaio Tito, che accendeva un lumino sulla nicchia del marito, lamentandosi a bassa voce del dolore provato.
Poi ,nascosta dietro un’aiuola c’era la stele marmorea di un vecchio, che era stato mio maestro alle elementari. Inoltre, sull’edicola funebre a fianco, vidi la foto a colori sgargianti di una bella ragazza, che si distingueva da tutte le altre immagini in bianco e nero, era Luisella una vicino di casa, che sorrideva malinconica, come se conoscesse già il suo tragico destino, uccisa per gelosia, a 16 anni, dal suo ex.
Proseguendo il cammino vidi una sontuosa cappella funebre che, come un lussuoso mausoleo, spiccava tra tutte per ostentata sfarzosità, con due statue di angeli in marmo rosa, poste a guardia del cancello, era l’ultima dimora di un famoso generale, morto di vecchiaia tra le sue medaglie.
Alle sue spalle un’altra tomba, abbandonata all’incuria; era l’ultima residenza di un soldato anonimo, morto in battaglia nella seconda guerra mondiale.
Provai un senso di indignazione. Pensai che i vivi, come affermava anche Totò, fossero davvero molto stupidi nel rimarcare le differenze anche tra i morti, e che,tutto sommato, a chi non apparteneva più alla vita terrena, non doveva interessare poi molto di avere una fossa comune o una tomba monumentale. Amareggiata, tornai da mia madre, che, preoccupata mi cercava, alla luce del crepuscolo, tra i viali del tramonto.
Oggi non ho più paura del mistero della morte e il cimitero non è più un luogo triste da evitare. Per me è solo un feticcio, usato a pretesto, per collegarci, con la memoria, ai defunti.
Loro ormai sono nel mondo astrale, in una nuova dimensione di eterno e di universale, liberi dai ceppi della materia, dalla forma, dall’apparenza. Ricordiamoli guardando le stelle, riconosciamoli come una goccia di mare, nelle carezze del vento, per averli vicini per sempre, in ogni momento.
(Novembre 2024)
Le orchestre e i cantanti della Radio.
di Romano Rizzo
Grande importanza ha avuto, per quelli della mia età, la radio, che è stata, per anni, l’unica occasione di svago per chi trascorreva il suo tempo per lo più in casa. Per questo a me capita spesso di ripensare alle orchestre che si sono succedute negli anni belli e che sono state fedeli compagne della vita mia. Tra le prime ricordo le orchestre d’archi di Tito Petralia e Cesare Gallino, che proponevano brani di operette interpretate da Franco Artioli, Franco Calderoli, Romana Righetti, Edda Vincenzi e tanti altri cantanti o accompagnavano le esibizioni canore di Tito Schipa, Beniamino Gigli, Franco Tagliavini o altri artisti lirici, che dedicavano un po’ del loro tempo alle canzoni.
Tutte le canzoni degli anni 20 erano in realtà delle belle storie, musicate e cantate anche da attori che si improvvisavano cantanti o semplicemente dicitori.
Durante il periodo fascista, oltre a quelle dichiaratamente politiche, gran parte delle altre inneggiavano alla vita semplice e al lavoro. Gli interpreti di queste ultime furono Angelo Servida, Daniele Serra, Aldo Masseglia, Tito Leardi ed altri, tra cui alcuni come Crivel e Michele Montanari che, caduto il Fascismo, non trovarono più modo di esibirsi in Rai se non a prezzo di notevoli sacrifici. Tipico il caso di Michele Montanari che, per riaffacciarsi ai microfoni, dovette portare con sè lo spartito della canzone Simphony, che era tra le maggiori.
Gli anni 40 furono quelli comunque di Aldo Visconti, Alfredo Clerici, Norma Bruni, Meme Bianchi, Gino Bechi, Alberto Rabagliati, Carlo Buti, Tiola Silenzi, Luciana Dolliver, Lina Termini, Dea Garbaccio, Jone Caciagli, Enzo di Mola, Dino de Luca, Enzo Aita e segnarono l’avvento delle grandi orchestre di Dino Olivieri e Nello Segurini.
Negli anni 50, sotto l’influsso dei nuovi ritmi, la Rai ci regalò due orchestre, quella di Angelini e quella di Fragna. Le voci di allora hanno segnato un’epoca felice: Nilla Pizzi, Achille Togliani, Gino Latilla, Carla Boni, Oscar Carboni, il Duo Fasano e Clara Jaione, Giorgio Consolini, Vittoria Mongardi, Luciano Bonfiglioli. Prima di loro vanno ricordate anche l’orchestra di Beppe Mojetta con Aldo Donà e Gigi Beccaria, l’orchestra Nicelli con Alma Danieli, l’orchestra Ferrari con Natalino Otto, Flo Sandon’s, l’orchestra di Carlo Savina con Bruno Rosettani, Nella Colombo, Vittorio Tognarelli, Elsa Peyrone e il Duo Blengio. Quello per me è stato il periodo d’oro della Rai, il periodo in cui il duo Semprini Bodini furoreggiava e in cui altri grandi come Antonio Basurto, Lia Origoni facevano sfoggio della loro classe. Il regno dei cantanti alla Italiana come il reuccio Claudio Villa, che fa storia a sé, insieme a Luciano Tajoli, Claudio Terni, Alvaro Amici e Narciso Parigi, di Rino Salviati, Otello Boccaccini, Lando Fiorini ed altri.
Al ritiro del grande Angelini, la sua orchestra venne diretta da William Galassini che ci fece conoscere Giuseppe Negroni Gianni Ferraresi e Tonina Torrielli, Luciana Gonzales, Anita Sol, mentre il genio di Lelio Luttazzi ci deliziava con le voci di Jula de Palma e Teddy Reno e, più tardi, con Paolo Bacillss.Erminio Pericoli. Qui i miei ricordi si arrestano e devo chiedere scusa ai tanti, troppi cantanti, orchestre o complessi che non sono presenti in questa cavalcata di ricordi solo per colpa della mia veneranda età che mi gioca troppo spesso brutti scherzi.
Prima di chiudere spero di salvarmi in corner ricordando il grande Pippo Barzizza che fu tra i primi a celebrare l’avvento dello swing nella canzone italiana e ricordare, altresì, le cantanti Emilia Veldes e Nuccia Bongiovanni, assieme alle storiche Lidia Martorana, Carla Stella che, con Corrado Lojacono, Luciano Benevene, Renzo Mori e Nino Amorevoli ed i primi cantanti di Angelini,Vittorio Belleli, Carlo Moreno, Gilberto Mazzi e Pippo Starnazza, hanno occupato i posti lasciati liberi da Emilio Livi, Elena Beltrami, Paolo Sardisco, Ariodante Dalla, Armando Broglia e molti altri.
Ora i miei ricordi si affacciano in una maniera troppo disordinata e mi invitano ad inchinarmi all’arte di Milly, Gino Franzi e di tanti altri capisaldi della nostra canzone.
Passando ai giorni nostri venne il tempo di Gigliola Cinquetti, Fausto Leali, Iva Zanicchi, Massimo Ranieri, ma la canzone italiana già era profondamente cambiata e lontana dalla classica.
Meglio fermarci qui, perché le canzoni in questi ultimi anni, per me, andrebbero classificate in un diverso genere ed anche molti cantanti riescono solo a fare sfoggio di una grande estensione e duttilità vocale ma non sanno cosa è la modulazione.
Mi rendo conto che mancano in questa mia rassegna troppi nomi come, ad esempio, Giovanna e Rita Forte tra le più moderne e prego i miei attenti lettori di segnalarmi altri interpreti validi che non ho citato e che potrò inserire in una prossima e meno improvvisata stesura. Sperando di aver ridestato alcuni piacevoli ricordi in tutti quelli che hanno amato e amano la canzone italiana, ringrazio quanti mi hanno dedicato un po’ del loro tempo, scusandomi per involontarie imperfezioni ed omissioni.
A tutti dico: “Grazie”.
(Luglio 2024)
La crisi della canzone napoletana
di Romano Rizzo
Parecchi tra i miei amici che ricordano che sono stato, per anni, conduttore di una piccola radio privata e che sanno il mio sconfinato amore per la canzone napoletana dell’epoca d’oro, mi hanno chiesto come, quando e perché, a mio parere, si è verificato il suo progressivo degrado. Ed è per questo che mi sono deciso ad esternare quello che penso al riguardo e che è rafforzato anche da mie personali esperienze. Premetto che, secondo me, il degrado è stato lento ma continuo ed è pacifico che la canzone classica si era ben sposata con i ritmi di origine “forestiera”, dando vita a molti capolavori, anche attraverso i Festival. Gli stessi Festival, nel tempo, quando forte è diventato il potere delle grandi imprese musicali, hanno attratto inevitabilmente gli appetiti di mestieranti e trafficanti. A questo punto si è cominciato a ricorrere a dei “prestanome”, per superare il vincolo del numero di canzoni di ciascun partecipante ed è venuto fuori che nelle canzoni finaliste sono stati presenti tali Parente e Palligiano, nomi dietro cui si nascondevano Bonagura e Vian ed ancora Lucilio, che era in realtà Concina. Ma come fossero ormai facile preda del sottobosco e del malaffare lo evidenzia un episodio, narrato a me e a pochi intimi, dal buon Antonio Basurto che, rientrato in Italia da poco, era stato avvicinato da un “personaggio”, il quale, parlando della partecipazione al Festival, gli aveva detto che valeva un milione e mezzo. Basurto si dichiarò disponibile pensando che si parlasse del suo compenso e sgranò tanto di occhi quando comprese che, invece, quella cifra era la “tangente” da pagare per assicurarsi la partecipazione alle tre serate. Voglio ricordare anche che, quando, per i noti motivi, si arrivò alla fine dei Festival, un grande come Sergio Bruni stappò una bottiglia di spumante perché solo così, a suo modo di vedere, si poteva ritornare a produrre, liberandosi dalle troppe catene di quanti godevano di un mal riposto prestigio.
Vale la pena di ricordare che all’inarrestabile degrado contribuirono anche le cosiddette Radio Libere, le quali, all’inizio, diedero un notevole apporta alla diffusione delle canzoni celebri di una volta. Successivamente, però, non godendo di alcun contributo per sopravvivere in una realtà, dove la concorrenza non aveva limiti, (Si pensi al tempo delle Antenne Pirate!) iniziarono a basarsi sui contributi degli associati, delle cene spettacolo sociali e quant’altro, per affrontare le spese delle eventuali concessioni, dei consumi, della manutenzione, della riparazione o dei ricambi dei pezzi degli impianti da aggiornare. In questa situazione di continua ricerca di una forma nuova di finanziamento ebbero vita facile le inserzioni pubblicitarie. A queste si aggiunse, col tempo, la cessione a pagamento di alcuni spazi a cosiddetti agenti e impresari i quali acquistavano dei “passaggi” per i loro cantanti, cui imponevano le loro “produzioni”, ossia canzoni di scarsissimo valore che incontravano, però, il favore di una certa fascia di pubblico, in genere del tutto ignara della melodia e della poesia delle canzoni del passato. Col passare del tempo e col moltiplicarsi di produttori e cantanti improvvisati, ma molto popolari nel loro quartiere, quasi tutte le radio libere diventarono soltanto la voce del nuovo, che pagava, e contribuirono, in tal modo, all’avvento dei cosiddetti Neomelodici. A dire il vero, ci sono state alcune eccezioni come la Tele Akery che curò la nostra bella musica e portò ad affermarsi cantanti del valore di Francesca Marini, Piero Cucco e tanti altri. Né si può ignorare, soprattutto, RADIO AMORE, di Antonio Romano e Teresa D’Alessio (credo, tra l’altro, che siano stati miei colleghi nella vecchia Sip, ora Tim) che riescono ancora a regalare momenti di vera felicità a quanti, come me, erano, sono e resteranno sempre innamorati della nostra grande canzone che, mi fa male dirlo, è forse più apprezzata all’estero che in patria e che è, purtroppo, trascurata anche da chi dovrebbe avere il compito di valorizzare la nostra tradizione ed incoraggiare tutte le iniziative che i privati ancora intraprendono per difenderla.
(Maggio 2024)
Manzoni e i parenti terribili
di Bernardina Moriconi
Qualche tempo fa leggendo su Facebook il post di uno scrittore su di un suo antenato di un certo prestigio, ma dalla condotta non del tutto irreprensibile, mi è venuto in mente il caso di Manzoni. Il quale, come alcuni sapranno, non dovette arrovellarsi troppo nel cercare referenti per le figure di cattivissimi per il suo romanzo. Gli bastò sfogliare un pò l’album di famiglia, sia quello di mamma che quello di papà. Dal primo attinse la figura di riferimento per l’Innominato, ispirandosi a tal Bernardino Visconti, vissuto nella prima metà del XVII secolo e imparentato con l’importante famiglia milanese nonché fratello di un antenato dello scrittore. Orbene, pare che ‘sto Bernardino ne combinasse di cotte e di crude scorrazzando in lungo e in largo per il Ducato di Milano in compagnia di una ventina di fidi bravi. Il tutto, fino alla conversione, avvenuta grazie all’incontro col cardinale Borromeo, in seguito alla quale si sarebbe ritirato a vita di meditazione ed espiazione fino alla morte. Per il personaggio di don Rodrigo, invece, Don Lisander si rivolse a un antenato dal ramo paterno di quel ramo del lago di Como su cui affaccia Lecco: precisamente a Giacomo Manzoni vissuto tra Cinque e Seicento e primo inquilino dell’elegante villa di Lecco in cui soggiornerà Alessandro Manzoni fanciullo (e che consiglio di visitare a chi si trovasse in quei luoghi ameni). Tornando a Giacomo Manzoni, costui era una sorta di imprenditore ante litteram in campo siderurgico, attività con cui arricchì sé e la famiglia anche perché pare non andasse molto per il sottile nel fare fuori (letteralmente, intendo) i concorrenti: tipino prepotente e dai modi tanto spicci quanto bruschi, si macchiò di numerosi crimini commessi dai suoi bravi. E non contento, piegò a suo utile anche la grande sciagura della pestilenza per eliminare altri rivali in affari, incaricando due monatti di ungere le porte delle loro abitazioni. I monatti furono poi individuati e condannati a morte con l’accusa di propagare il morbo, mentre l’antenato di Alessandro se la cavò perseverando in crimini e misfatti: morì infatti mentre era in corso contro di lui un procedimento giudiziario per un ennesimo omicidio. Mi sentirei di dire a questo punto che il Manzoni con I Promessi Sposi abbia dato vita a un nuovo genere di romanzo: il romanzo di espiazione. D’altronde se non è possibile scegliersi i familiari, figuriamoci un po' gli antenati…
(Aprile 2024)
Giuseppe Petrillo
di Romano Rizzo
Giuseppe Petrillo è stato un valido poeta, di cui, però, conosco molto poco e mi dispiace. Posso dirvi soltanto che pubblicò, nel 1972, nella Collana di poesia e narrativa, diretta da Giovanni Boccacciari, un volumetto di poesie dal titolo Suspiranno.
Questa bella raccolta, che è articolata in due distinte sezioni, ci presenta, per così dire, due facce del poeta, molto diverse. La prima ce lo fa vedere come un malinconico e rassegnato cantore della caducità delle cose, che assiste all’inarrestabile fluire dell’esistenza verso la naturale conclusione. La seconda mette in luce la sua straordinaria capacità di cogliere i lati buffi della esistenza umana e di tratteggiarla con partecipazione sincera, con grande vivacità e forza espressiva.
È qui che Petrillo riesce, con molto buon gusto, a donare a chi legge i suoi scritti dei momenti di sana allegria. Non a caso questa seconda sezione è intitolata Alleramente. Alla prima categoria di poesie appartengono, tra le altre, Suspiranno (che dà il titolo all’intera raccolta), Tristezza ‘e vierno, Sempe Sempe, Mamma! . Allaseconda,ripeto, diversissima e molto gustosa, tra le migliori, a mio parere, (vado a memoria) : Ll’arracquata, ‘O raffreddore,‘Ngiulina, Cagno ‘e casa, Faccefronte ed altre. Mi corre, peraltro, l’obbligo di aggiungere che, in tutte le poesie del Petrillo, si riscontrano sempre una grande spontaneità ed originalità di ispirazione, supportate da una apprezzabile maestria nella realizzazione.
Va riconosciuto a Boccacciari il gran merito di avere inserito Petrillo nella sua bella Collana di poesia e narrativa accanto a poeti come Eduardo Fasano, Enzo d’Orsi, Domenico Rossi, Giovanni Improva, Alfredo de Lucia, Salvatore Tolino ed altri di cui ora mi sfugge il nome. Se il suo esemplare comportamento di sostenere ed incoraggiare tanti cultori della nostra Poesia, fosse stato seguito da tanti altri grandi poeti, ne avrebbe tratto un indiscutibile giovamento la maggiore diffusione dell’amore per la Poesia.
* * *
Ll’arracquata.
di Giuseppe Petrillo.
Tutt’’e mmatine scengo p’’a ‘Nfrascata
siscanno na canzona malandrina..
Nocopp’’o balcone, meza scammesata
arracqua sempe ‘e tteste, Cuncettina.
Penzo ca nun ‘o fa ‘nnucentemente..
( Me tene mente cu ‘a cudella ‘e ll’uocchie ),
Embè, ve ll’aggia dì sinceramente..
guardannola, me tremmano ‘e ddenocchie!
Cu tanta grazia ‘e Ddio ca mette ‘mmosta.
maje ca dicesse : “ Oj nì, ne vuò nu poco ?”
“ Neh, Cuncettì, ma è tutta rrobba vosta ?”
e me facette na guardata ‘e…fuoco !
Dinto se ne trasette e po’ turnaje
cu nu vacile mmano, bellu gruosso
e ‘ncuollo a me priciso ‘o svacantaje
dicenno : “ T’’o spurpasse tu chist’uosso ?”
Giesù, Giesù…vedite che se passa…
Songo tre mise ca se fa ‘a resella..
Sta figlia ‘e bona mamma mo se spassa
e ride, ride ‘nfaccia a sta…fresella!!
* * *
Mamma!
di Giuseppe Petrillo
Oi voce amata, voce ‘e mamma mia,
che musica pe st’anema ire tu…
‘A quanno t’ha distrutto ‘a malatia,
i’ scunzulato nun te sento cchiù.
Ll’urdema vota che tu m’abbracciaste,
oi ma’, era Natale e tu chiagnive…
E chi s’’o scorda, ‘a mano me vasaste
e mme diciste : “ Statte buono e scrive..”
Mo, quanno so’ sti ffeste, ‘a nustalgia
m’astregne ‘o core; tu nun ce staje cchiù..
ma si veco na femmena, p’’a via..
vestuta ‘e scuro, i’ penzo..che si’ tu !!
* * *
Pe’ viche
di Giuseppe Petrillo
I’ quanno voglio sbarïà nu poco,
nun vaco pe’ Tuledo o p’’a Riviera,
me ‘nfizzo dint’’e viche cchiù stramane,
addò se sente addore ‘e cose antiche.
Ma quanta viche a Napule ce stanno
e quanti vecarielle annascunnute,
cu cierti vasce ca pareno tavute
addò c’è gente ca vurrìa pittà.
‘A centenare d’anne, nasce e more
dint’’a sti viche…n’ata umanità!!!!
(Marzo 2024)
La condizione femminile
A quando la reale parità tra uomo e donna?
di Gilda Rezzuti
Il tema dell’uguaglianza tra uomini e donne e, soprattutto, quello della condizione femminile sono argomenti estremamente attuali e discussi sempre ad ampio raggio nella società contemporanea. Se facciamo un piccolo passo indietro, la storia ci ricorda che, nell’Europa dell’Ottocento, agli albori delle istanze femminili, la donna viveva davvero una condizione marginale e di sottomissione. Le venivano negati il diritto al voto, all’istruzione, l’accesso al mondo del lavoro e altri diritti fondamentali. Rispetto all’uomo, dunque, era considerata un essere inferiore, che doveva assolvere soltanto a compiti di cura e responsabilità della famiglia. Per molto tempo si è sentito dire: “la donna è la regina della casa”, ma solo in casa, se pure… Fu con gli anni Sessanta, invece, che si andò pian piano affermando, pur nel rispetto delle peculiarità della natura e dei ruoli, il principio della parità dei sessi, in senso socio-culturale. In quegli anni nacque il Movimento di liberazione della donna, che aspirava a contrastare la condizione di sottomissione della donna all’uomo e a farle acquisire una maggiore consapevolezza individuale e collettiva, riguardo ai suoi diritti, sia in ambito familiare, che in un più vasto contesto pubblico, con particolare attenzione al mondo del lavoro. In questo periodo di mutamenti sociali e politici, il movimento delle femministe (anche se a volte esasperato e spesso esaltato) contribuì, in modo determinante, a conquiste e riconoscimenti femminili. Attualmente, infatti, nella nostra cultura, altamente civilizzata o presunta tale, la donna, anche se a fatica e non in tutte le realtà, sta affermando, a volte tra forti resistenze, il suo valore, conquistando sempre maggiori spazi, soprattutto in un mondo del lavoro, decisamente competitivo e maschilista. Malgrado i grandi passi, compiuti in lunghi decenni, resistono ancora stereotipi e luoghi comuni, rispetto alla sua condizione, soprattutto in quei paesi del terzo mondo e medio orientali, dove ancora l’emancipazione femminile è appena agli inizi. In ogni caso, uomo e donna, in quanto esseri umani, dovrebbero avere pari dignità, sia in una dimensione laica della vita, che in una prospettiva religiosa, pur continuando a considerare e rispettare le naturali peculiarità di carattere fisiologico e psicologico. Parità non significa “equivalenza”, bensì riconoscimento e valorizzazione delle diversità. Comunque, malgrado i progressi compiuti, per quanto concerne la condizione femminile c’è ancora molta strada da fare, per garantire una reale parità di genere. Infatti, se è vero che lo sviluppo umano, nel suo complesso, è un processo teso ad espandere costantemente le possibilità di libere scelte da parte di tutte le persone, indipendentemente da sesso, razza, lingua, religione, da qualsiasi condizione personale e sociale (principio d’eguaglianza proclamato nell’art 3 della nostra carta costituzionale), non bisogna tralasciare l’impegno e l’educazione costante, per far sì che questo processo vada sempre avanti e venga sempre più rispettato e riconosciuto. Già i filosofi francesi del diciottesimo secolo sostenevano che illuminismo ed emancipazione andavano di pari passo, poiché l’essere umano, in quanto tale, al di là del sesso, aveva universalmente gli stessi diritti e gli stessi doveri.
Occorre riconoscere, senza dubbio, che gli uomini e le donne, come si è già detto, sono diversi nelle caratteristiche fisiche, ma questo non significa che bisogna considerare la donna un essere inferiore, sottomessa all’uomo. Purtroppo, ancora oggi la situazione di sottomissione della donna è presente in modo subdolo anche nel nostro paese, soprattutto in ambienti sociali, culturali ed economici svantaggiati. Per questo bisognerebbe combattere la misoginia, il maschilismo e anche il femminismo esasperato e fanatico. Per ogni aspetto della vita ci vuole equilibrio, che si può raggiungere solo attraverso un impegno costante, per cui l’educazione alla sana affettività e al rispetto della persona, di cui ultimamente si sente tanto parlare, si può ottenere solo lavorando in una logica di prevenzione, partendo dalla scuola, fin dalla tenera età. Se si vuole pensare ad un futuro migliore per tutti, non c’è altro modo che investire nel presente in modo chiaro e proficuo.
(Marzo 2024)