La Floridiana durante la seconda guerra mondiale
di Antonio La Gala
Molte città europee nel corso della seconda guerra mondiale sono state ferite dai bombardamenti, da occupazioni straniere, combattimenti, che dove più e dove meno vi si sono svolti. Chiese, musei, luoghi d'interesse storico ed artistico, opere d'arte, vi sono state ferite, talvolta distrutte,
Napoli non è stata da meno. Basti pensare solo a Santa Chiara.
Limitandoci alle vicissitudini occorse al piccolo mondo vomerese, abbiamo ricostruito le vicende vissute dalla Villa Floridiana, un gioiello d'impronta neoclassica e di livello regale, che impreziosisce la collina vomerese dagli inizi dell'Ottocento.
La posizione relativamente decentrata del Vomero rispetto ai teatri dei combattimenti degli anni Quaranta consentirono alla Floridiana una relativa tranquillità, almeno fino agli eventi del settembre 1943 che videro il quartiere al centro delle Quattro Giornate.
Subito dopo l'8 settembre, precisamente il giorno 10, i viali e la palazzina della Floridiana vennero occupati dai Tedeschi e divennero sede di acquartieramenti delle loro truppe. Ricorrono in molte testimonianze sulle Quattro Giornate il ricordo delle sortite dalla Floridiana di soldati e veicoli militari dei Tedeschi per azioni contro gli insorti.
Nei primi giorni di ottobre, gli Alleati, appena entrati, requisirono subito la Villa, assieme, come d’abitudine, alla requisizione per se stessi dei migliori edifici del quartiere.
L'occupazione della Floridiana da parte degli Alleati si protrasse dall'inizio di ottobre 1943 fino al 2 maggio 1945 e nella palazzina residenziale della villa si alternarono alloggiamenti di truppe, uffici e, per lunghi periodi anche ospedali militari; uno di essi da maggio ad ottobre del 1944 ospitava oltre 500 malati mentali.
Racconta Bruno Molajoli, il Sovrintendente alle Gallerie di quel periodo, nel suo libro "Musei napoletani attraverso la guerra", del 1948: "E' difficile immaginare le condizioni nelle quali fu progressivamente ridotto un edificio che all'originaria nitidezza neoclassica aggiungeva il pregio di una particolare cura di manutenzione; per la quale il visitatore era invitato a calzare strane pantofole, per non offuscare la lucentezza dei pavimenti verniciati! Mentre nel parco circostante venivano recise piante antiche e rare, e fatto scempio di prati, di viali, nelle sale della palazzina adorne di stucchi e di dorature, furono installate batterie di docce, di lavandini di cucine e di consequenziali servizi; sulle pareti rivestite di seta furono allineati fili elettrici, canne fumarie e condutture d'ogni specie, che trapassarono pavimenti e soffitti dipinti; e alle finestre furono infisse robuste inferriate".
Questa testimonianza del Molajoli non meraviglia, se si pensa, solo per fare un esempio, con quanta disinvoltura gli Alleati nello stesso periodo polverizzavano l'abbazia di Montecassino, oppure, per restare in ambito vomerese, e sempre a titolo di esempio, come a poche decine di metri dalla Floridiana, nella Villa Palazzolo-Haas, per far entrare i loro automezzi buttavano giù le ampie vetrate tardo liberty che vi si trovavano nell'androne.
Torniamo alla Floridiana: per fortuna le opere d'arte e gli oggetti del museo che si trovavano nella palazzina si sono salvate, perché quelle più pregiate erano state preventivamente trasferite a scopo precauzionale, soprattutto per difenderle dai bombardamenti, in località lontane da Napoli e le altre, ben imballate, erano state spostate nei sotterranei della villa. Queste ultime però si salvarono a stento perché nei primi giorni dell'occupazione alleata il generale americano che si era insediato nell'edificio, volle far controllare, una per una, le ottantadue casse che contenevano le ceramiche, per il sospetto che i Tedeschi vi avessero nascosto esplosivi a effetto ritardato.
La Floridiana era stata oggetto di pericolosa attenzione a fini bellici anche prima di Tedeschi e degli Alleati, in occasione delle iniziative del Regime che aveva sciaguratamente scatenato quella guerra. Dopo aver ridotto la gente alla fame, per mangiare fu lanciata un'iniziativa che la retorica di quegli anni definiva "la battaglia del grano per la Patria".
Nell’estate 1941 il Podestà partenopeo stabiliva “di porre a colture i terreni di proprietà del Comune e destinati a costruzioni ora rinviate”. Fra queste al Vomero erano comprese “alcune importanti zone dell’Arenella”. Divennero campi di grano le terre di S. Chiara (cioè parte delle zone non costruite attorno a Piazza Medaglie d’Oro), i giardini di Via Ruoppolo. Inoltre, nel programma di trasformazione dei pubblici giardini in “orti di guerra”, era previsto anche “di mettere a colture larghi appezzamenti del magnifico Parco della Floridiana”. Come dire friarielli e cavoli in Floridiana.
Oggi, ad oltre 80 anni dai giorni delle occupazioni militari straniere, la Floridiana sta subendo altre ferite nel corso di un'altra invasione, nella quale gli invasori stavolta non sono stranieri, ma indigeni, autoctoni, non "militari", ma, "civili", vocabolo improprio, visto che stiamo parlando di
frequentatori, non propriamente “civili”, che, con ampia libertà d'azione, vandalizzano la Villa, come mostra l'immagine che accompagna questo articolo.
(Novembre 2024)
«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».24
Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri
di Sergio Zazzera
Un dato accertato dalla scienza statistica è quello della superiorità numerica, delle donne rispetto agli uomini; dato che mi sollecita due considerazioni. La prima: tale situazione dev’essere l’evidente conseguenza della vana ricerca del figlio maschio: un amico di mio padre e la moglie si fermarono, dopo la nascita della quinta figlia, quando (finalmente!) si resero conto che il maschio non era “articolo loro”. La seconda: la situazione stessa spiega anche (benché non possa valere a giustificare) l’elevato numero di “corna al femminile”. Troppe, infatti, sono le donne che cercano un uomo, categoria il cui numero è ben più ridotto del loro; e troppo spesso lo trovano pure, benché già impegnato (e, magari, noncurante dell’impegno)..
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Il “Pulcinella” di Gaetano Pesce, eretto (absit iniuria verbis) in piazza Municipio, è il segno, secondo me, del fall…imento dell’arte contemporanea.
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Nel racconto biblico del combattimento fra Amalek e Israele a Refidim (Es. 17,8-16) si legge che Israele prevaleva quando Mosè teneva le mani alzate, mentre a prevalere era Amalek, quando le abbassava. Ma, allora, non sarebbe il caso che oggi Mosè tenesse un poco giù quelle benedette mani?
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Per rimanere ancora a Israele, devo osservare che, forse, sarebbe stato preferibile che il nonno di Benjamin Netanyahu non gli avesse narrato la storia della Shoah, come sicuramente avrà fatto: a volte, ad ascoltare certi racconti, viene la voglia di fare le stesse cose.
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Ho appena terminato la lettura del volume, curato dall’Accademia della Crusca, dal titolo: Giusto, sbagliato, dipende (Mondadori), e mi sono formato il convincimento che l’istituzione sia transitata – o, quanto meno, stia transitando a grandi passi – dalla funzione originaria di tutela della lingua italiana a quella di scardinamento della stessa. Mi soffermo, in particolare, sull’aspetto che più mi ha colpito, quello, cioè, dell’accoglimento di vocaboli inglesi nella nostra espressione idiomatica. In proposito, l’Accademia ritiene che la loro diffusione in seno alla nostra popolazione ne giustifichi l’ingresso finanche nei vocabolari ed esclude la necessità di scriverli in caratteri corsivi, quando la loro accettazione sia particolarmente ampia. Mi accade, però, d’imbattermi, in un settimanale abbastanza diffuso, in un articolo di Claudio Marazzini, presidente emerito dell’Accademia, il quale, viceversa, raccomanda di contenere al massimo l’uso dei vocaboli inglesi, quando ne esistano d’italiani aventi identico significato, e di abbondare con l’uso del corsivo. Mi è venuto da compiangere l’organo epatico del povero Marazzini, durante le discussioni accademiche sull’argomento.
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L’ex-senatore (di destra) Domenico Gramazio, con riferimento alla presentazione del recente volume di Italo Bocchino, ha dichiarato che nelle presentazioni di libri il pubblico non può fare domande. Ebbene, giunto alla soglia degli ottanta, mi accorgo che, per una vita intera, ho commesso soltanto errori, sia come autore di libri, che come presentatore.
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Il tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità dell’invio di un gruppo di migranti nella struttura realizzata in Albania, con la motivazione che, nel caso del loro respingimento, il rimpatrio sarebbe dovuto avvenire nel paese di provenienza (Egitto), dichiarato “paese non sicuro”. Immediatamente dopo, il Governo ha approvato un decreto-legge, che dichiara quello Stato “paese sicuro”. In proposito, due considerazioni: a) ma l’Egitto non è lo Stato che, dopo la soppressione di Giulio Regeni, sta ostacolando la celebrazione del processo nei confronti dei responsabili? e questa la chiamiamo “sicurezza”? b) ribadisco un concetto, da me stesso più volte espresso: stiamo vivendo l’età del Basso Impero. Chi non ci crede, vada a leggersi il settimo libro del Codice Teodosiano, che concerne il diritto militare, nel quale, fra le tante, sono inserite tre costituzioni imperiali, emesse nell’arco di due giorni (e due addirittura nella stessa giornata), che si contraddicono a vicenda. Segno, questo, che i provvedimenti normativi – che dovrebbero essere “generali e astratti” – venivano adottati per disciplinare casi singoli. In poche parole, si travestivano da leggi gli atti amministrativi.
(Ottobre 2024)
Il “Parco Marcolini”
di Antonio La Gala
La vasta area vomerese attorno alle attuali vie Luigia Sanfelice, Toma e Palizzi, in passato veniva denominata Palazzolo, perché appartenente alla villa Ruffo-Palazzolo e denominata anche Parco Marcolini, perché fra fine Ottocento e inizio Novecento l’ingegnere romagnolo Gaetano Marcolini vi edificò molte sue costruzioni.
In quel periodo prevaleva l’idea di realizzare zone residenziali differenziate per fasce sociali, e nel caso di via Palizzi, l’orografia accidentata della zona suggeriva un’edificazione a tornanti che ben si adattava alla sua panoramicità, orientata verso la costruzione di begli edifici di piccole dimensioni, a pianta libera, ben inseriti nel declivio, destinata quindi a una committenza esigente, ad una fascia agiata, tutti fattori che combinati fra loro, e in piena belle époque, portavano alla realizzazione di un rione visto come un’estensione architettonica e anche socio-economica, dei coevi nascenti rione Amedeo e parco Margherita, ai quali peraltro il parco Marcolini, come previsto fin dall’inizio, sarebbe stato materialmente congiunto dalla funicolare di Chiaia.
Marcolini prevedeva di collegare il parco alla città, prolungando via Palizzi direttamente fino al corso Vittorio Emanuele e di convogliare l’utenza pedonale nella stazione intermedia della funicolare di Chiaia.
Previsione, grazie anche alla sua attiva presenza nella politica cittadina locale, risultò rispettata
Il parco fu sviluppato sull’unico percorso che l’attraversava, la sinuosa via Palizzi, sfruttandone le notevoli doti panoramiche.
La lottizzazione di Marcolini vide il sorgere di pregevoli villini liberty “firmati” dai maggiori architetti del settore (fra cui Stanislao Sorrentino, Adolfo Avena, Michele Platania), ma anche di edifici con numerosi piani, vagamente riecheggianti gli stessi modi stilistici, edifici anche allora edificati con disinvoltura rispetto all’equilibrio urbanistico, al paesaggio, tant’è che la parte di via Palizzi costruita in quella fase presenta un casuale alternarsi di edifici di diversa grandezza e impostazione, spesso dissonanti, insomma un’urbanizzazione “anarchica” che a nostro giudizio ben anticipa la iper-vituperata anarchia laurina.
(Luglio 2024)
«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».23
Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri
di Sergio Zazzera
Come sono maleducati gl’italiani! Ce lo dicono in tanti e, a volte, ce lo diciamo anche noi stessi; ma parliamo un momento anche degli “altri”. Aliscafo per le isole; una matura signora anglofona (ma non saprei dirne la provenienza) si siede di fronte a me e piazza i piedi sul sedile libero accanto al mio. Li ha rimossi soltanto dopo la terza (dico: terza!) occhiataccia.
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Dai manzoniani polli di Renzo ai “polli di Renzi (e di Calenda)”: si sono beccati a vicenda durante tutta la campagna elettorale e sono rimasti entrambi fuori dal Parlamento Europeo.
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Udita in tv: “si era trasferita dal Meridione al Sud”. Ora, è vero che, fino al Sudafrica e alla Terra del Fuoco (al singolare!) esiste sempre un sud, per ogni località, ma questa mi sembra un po’ eccessiva.
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Ormai è ufficiale: sbagliava Totò, quando, insieme col suo compare Peppino, credeva che il Colosseo stesse a Milano. No, ora il ministro della Cultura (!) lo ha autorevolmente collocato a Pompei. In realtà, dopo si è scusato, attribuendo la colpa dell’errore ai collaboratori che gli gestiscono i social. Senonché, il ministro, che è laureato in giurisprudenza, dovrebbe conoscere un istituto – giuridico, ma applicabile anche alla vita quotidiana –, che si chiama culpa in eligendo, ovvero: ti sei scelto i collaboratori sbagliati e, dunque, sei responsabile anche dei loro errori.
(Luglio 2024)
«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».22
Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri
di Sergio Zazzera
A sostegno della necessità d’integrazione, anche giuridica, dei migranti si continua a ripetere, da più parti, che anche i Romani concessero la cittadinanza a tutti i popoli sottomessi, citando, quale fonte, la celebre Constitutio Antoniniana, emanata da Antonino Caracalla nel 212 d. C. Ebbene, fermo restando che sarebbe giusto che l’Italia non frapponesse ostacoli pretestuosi alla concessione della cittadinanza agl’immigrati – e, in proposito, esprimo il mio favore (per quel che può valere) per il parametro del ius soli –, tuttavia, osservo che la Costituzione di Caracalla è richiamata a sproposito. Essa, infatti (ma pochi lo sanno), condizionava il riconoscimento della Civitas Romana al fatto che quei popoli si fossero dati un’organizzazione politico-amministrativa modellata su quella di Roma; il che determinò che a beneficiare della concessione fu, in realtà, un numero di sudditi ben più ridotto di quanto non si sia creduto.
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Le violenze che si assumono poste in essere dal personale penitenziario dell’istituto minorile “Cesare Beccaria” di Milano nei confronti dei giovani detenuti sollecitano in me, da una parte, il ricordo del mio triennio milanese di mezzo secolo fa ma, dall’altra, la riflessione circa il tradimento del pensiero di Colui, al quale quell’istituto è intitolato. La violenza, infatti, non può mai produrre rieducazione.
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Mi è accaduto di leggere, di recente, ciò che scrive lo storico Tommaso di Carpegna Falconieri, a proposito della “storia immediata”, il cui studio – da compiersi mentre i fatti, che ne costituiscono l’oggetto, stanno accadendo – egli ritiene possibile, mediante il ricorso agli stessi criteri metodologici applicabili allo studio della storia “tradizionale”. Poi, però, mi sono domandato come sia attuabile un tal genere d’indagine, a fronte della difficoltà di storicizzare già avvenimenti del secolo scorso; e sia chiaro che non mi riferisco al fascismo, che – al pari di Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini e Luciano Canfora, giusto per citare gli esempi più significativi e sempre si parva licet componere magnis – credo che, almeno finora, si stia dimostrando ancora “eterno”.
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Negli ultimi giorni c’è stata, a Napoli, contro le feste che si svolgono, di sera, all’aperto, sulle strade pubbliche, davanti a bar e baretti, una sollevazione popolare, sfociata nell’intervento dell’autorità di polizia. In realtà, già subito dopo Pasqua, per lo stesso motivo, era stata disposta la chiusura di un bar di Procida. Ma qui s’impone una domanda: è mai possibile che si rilascino licenze di esercizio a bar che dispongono di un locale al chiuso di un paio di metri per un altro paio? Nemmeno un wc!
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La Francia di Emmanuel Macron ha inserito nella propria Costituzione il diritto all’aborto e subito in Italia si sono levate alte le voci di coloro che vorrebbero che altrettanto si facesse nella nostra Costituzione, che ha origine, struttura e ispirazione completamente diverse da quella francese. Ebbene, fermo restando il diritto della donna alla libertà di scelta in materia, in uno Stato laico, trovo inaccettabile la sua costituzionalizzazione, che darebbe la stura a tutta un’altra serie d’interventi analoghi e parimenti inutili. Sarebbe sufficiente, infatti, limitare in misura maggiore la facoltà degli organismi preposti – medici, paramedici, ospedali interi – di ricorrere all’obiezione di coscienza. Soprattutto, poi, quando quegli stessi medici e paramedici eseguono quegl’interventi in forma clandestina e – com’è ovvio – a pagamento.
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La “pacificazione” che, all’indomani della proclamazione dei risultati del referendum istituzionale del 1946, si manifestò attraverso l’“assoluzione” di coloro che avevano aderito al fascismo e sfociò nell’“amnistia-Togliatti”, non trovò riscontro nell’atteggiamento della Germania, che, viceversa, escluse dalle cariche pubbliche gli ex-aderenti al nazismo. Letta, però, con gli occhi di oggi, quella “pacificazione” fu finalizzata a coprire i misfatti degl’innumerevoli politici che si riciclarono, che ben possono essere considerati i responsabili delle condizioni, nelle quali versa l’Italia di questo primo scorcio di millennio.
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Nella trasmissione Che tempo che fa del 28 aprile su La7, il conduttore Fabio Fazio ha manifestato meraviglia, di fronte al fatto che lo scrittore Antonio Scurati, nel parlare dei rapporti tra fascismo e populismo, abbia fatto riferimento alla «seduzione del fascismo». Evidentemente, a Fazio non è noto il fenomeno psicologico della “sindrome di Stoccolma”.
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Quando sento giornalisti della Rai dire “diga foranèa” (!) e le ore “venti e zerodieci” (!!), le braccia non mi cascano, mi precipitano.
(Maggio 2024)
La diaspora dei titolari
di Antonio La Gala
Personaggi illustri a cui sono intitolati alcuni licei classici, i “titolari” eponimi, spesso li troviamo disseminati in una diaspora cittadina, in punti diversi di Napoli.
Vittorio Emanuele II, dalla scuola di via S. Sebastiano, è stato a cavallo per decenni in piazza Municipio, in un monumento scolpito a puntate da autori diversi, oggi spostato in piazza Bovio. La strada che ricorda il conquistatore sabaudo è ancora in altro luogo: il lungo Corso fra via Salvator Rosa e Mergellina.
L'altro artefice dell'Unità d'Italia, Giuseppe Garibaldi, dalla sede liceale di piazza Carlo III se ne va per il “suo Corso" omonimo, passando davanti al retorico piedistallo eretto al centro della piazza che ricorda il suo nome.
Non trova quiete nemmeno Umberto I, che dividendosi fra il suo "Corso" e la sua "Galleria", va a guardarsi il mare dal piedistallo del monumento erettogli da Achille D’Orsi nel 1910 nell’esedra di via Nazario Sauro.
Non vengono fatti girare solo re e generali, ma anche tranquilli studiosi.
Antonio Genovesi si deve dividere fra la scuola di piazza del Gesù e la piazza che lo ricorda, dalle parti della strada che da via Foria porta a Capodichino, sebbene lui abbia scelto di riposare per l'eternità nella chiesa di Sant’Eframo Nuovo alla "Salute", all'inizio di via Matteo Renato Imbriani.
Dalle parti che conducono a Capodichino gli è quasi vicino di piazza l'altro grande napoletano del Settecento, Giambattista Vico, che dalla Cesarea deve andare nella Villa Comunale per vedersi effigiato in un monumento. Per un nostalgico ricordo della casa natale deve recarsi a S. Biagio dei Librai.
Jacopo Sannazaro oscilla fra l'aria della collina del suo liceo vomerese e l'aria marina di Mergellina, dove trova una "sua" piazza, non distante dalla Chiesa di Santa Maria del Parto dove riposa per l'eternità. Se vuole andare nel “suo” teatro deve allungarsi fino a via Chiaia.
Per non far torto ai soli titolari dei licei classici, vengono fatti girovagare anche i titolari di altre categorie di licei e di scuole.
Giuseppe Mazzini per vedere la “sua” piazza, deve scendere dal “suo” liceo di via Solimèna al Vomero, fino alla Cesarea e poi, per vedersi in un mezzo busto, scendere ancora e arrivare nei giardini di piazza Cavour.
Qui ci siamo fermati solo ai titolari eponimi di licei, ma se volessimo estendere la ricerca alle diaspore degli eponimi di altre categorie, potremmo pubblicare almeno una monografia invece di un breve articolo.
(Maggio 2024)
«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».21
Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri
di Sergio Zazzera
Nel corso della trasmissione “Piazza pulita” del 21 marzo scorso, su “La7”, Michele Serra ha affermato che, quando l’antiamericanismo diventa filoputinismo, non è più un atteggiamento contro gli U.S.A., ma contro la democrazia. Ciò mi fa scoprire che quello U.S.A. è un… imperialismo democratico: vale a dire, democrazia (!) nei confini dell’Unione e imperialismo fuori della stessa.
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Al dottor Henry Jekyll – personaggio nato dalla penna di Robert Louis Stevenson – sfugge di mano, progressivamente, il controllo sulla sua trasformazione nel proprio alter ego, mr. Edward Hyde, autentica incarnazione del male.
Ai “ragazzi di via Panisperna” sfugge di mano, a partire da un certo momento, il controllo dell’atomo, che essi avevano scoperto, al punto che Robert Oppenheimer coglie l’occasione per applicare la scoperta all’armamento nucleare.
Sembrerebbe avvicinarsi il turno dell’AI – l’Intelligenza artificiale –, che, stando a quanto periodicamente si legge e si sente dire, potrebb’essere adoperata, fra l’altro, anche per realizzare “cloni digitali” di persone realmente esistenti. Cosa, questa, che avrebbe perfino semplificato le cose a Gianni Schicchi, ma che creerà anche seri problemi agli “uomini di buona volontà”.
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Torno, ancora una volta, sulla questione israelo-palestinese, per dire che non condivido l’atteggiamento di quanti stigmatizzano il comportamento, tanto degl’israeliani, quanto dei palestinesi. La mia “precedente esistenza” di magistrato, infatti, mi ha insegnato, fra l’altro, il principio di personalità della responsabilità – penale, ma ritengo che lo si possa estendere anche a quella morale e a quella politica, avuto riguardo alla loro contiguità –. Il che non mi consente di considerare il singolo individuo israeliano o palestinese responsabile delle azioni – quasi sempre criminose, più che semplicemente belliche – volute, rispettivamente, da Hamas o da Netanyahu. Azioni che, con molta probabilità, neanch’egli approva.
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L’eterogenesi dei fini ha caratterizzato un’infinità di situazioni, dalla nascita della Repubblica a oggi. E faccio un salto all’indietro, fino a quel momento iniziale: credo che sia legittimo ipotizzare che i potenziali vincitori, non tanto del referendum, quanto dell’elezione dei deputati della Costituente, ben prevedendo per chi avrebbe votato la maggioranza delle donne, conferirono loro, per la prima volta, l’elettorato attivo.
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Leggo sul numero di Famiglia cristiana del 21 aprile che la Chiesa, sostanzialmente, “tollera” la cremazione dei cadaveri, più che ammetterla, e rimango stupito, per le ragioni che mi accingo a esporre. L’Onnipotenza divina (Catechismo di S. Giovanni Paolo II. Compendio, § 50), in quanto tale – vale a dire, illimitata –, ben potrà risuscitare, il Giorno del Giudizio, anche i corpi cremati. Altrimenti, che cosa ne sarà degl’innumerevoli corpi dispersi, a seguito di calamità naturali o di eventi bellici? Ma, forse (o senza forse), da questa maniera di affrontare i problemi sono dipese le condanne (penso a Galileo e a Tommaso Campanella) e perfino i roghi (penso a Giovanna d’Arco e a Giordano Bruno); anzi, secondo la concezione “tollerante”, soprattutto la resurrezione dei corpi di queste ultime due figure, proprio perché “cremati”, dovrebbe incontrare qualche difficoltà di attuazione. Ma tutto ciò può servire, se non altro, a comprendere, da una parte, le ragioni della durata della riabilitazione di Galileo e, dall’altra, il maggiore ammontare dei diritti d’immissione nei loculi, previsti per le urne cinerarie, rispetto a quelli determinati per i resti mortali.
(Aprile 2024)
La più antica religiosità dei Vomeresi
di Antonio La Gala
Qual era la religiosità dei primi abitanti delle alture vomeresi?
Non lo sappiamo, perché storicamente riusciamo a trovare tracce della vita dei collinari solo nei tempi maturi dell’epoca dei Romani, in base a pochi e piccoli ritrovamenti sparsi da Antignano a via Belvedere.
Per epoche anteriori possiamo fare soltanto delle congetture. Nei secoli più lontani gli abitanti saranno stati gruppetti di pochi individui, sparpagliati sulle colline, dove c’era l’essenziale per vivere, e per la scarsità del loro numero (qualche centinaio di persone in tutto), non hanno lasciato particolari testimonianze.
Sappiamo che Greci e Romani avevano inclusa la collina nel loro immaginario sacro: i primi marinai greci che si addentrarono nel golfo dedicarono la boscosa altura dei Camaldoli a Hera (la dea dei boschi) e l’altura di San Martino a Zeus, una specie di Olimpo; i Romani la collina la dedicarono a Giano.
Sono rimaste tracce di templi e manufatti sacri pagani? Noi non ne abbiamo notizia. Forse se ne potrebbe intravedere una non sicura traccia in una malandata (e vilipesa) pietra incastrata nella facciata della chiesa di San Gennariello (la “Piccola Pompei”), che secondo alcuni sarebbe un possibile materiale di ricavo di un preesistente tempio pagano, pietra di cui parleremo più avanti e presentata nell’immagine che accompagna questo articolo, risalente al 2003.
È ragionevole immaginare che in epoca romana, in qualcuna delle grosse entità rurali autosufficienti, le masserie, i “Praedia”, che i Romani avevano insediato al di fuori del centro abitato, e quindi anche sulle alture vomeresi, avremmo visto qualche antenata delle nostre edicole votive, i piccoli sacrari che i Romani erigevano all’ingresso o all’interno delle abitazioni, in cui veneravano i Lari, divinità dispensatrici di grazie alle famiglie, e i Penati, divinità ereditarie che ogni famiglia si trasmetteva. Oppure avremmo visto, in piccoli sacrari situati agli incroci delle strade, i Lari “di territorio”, anime di antenati defunti comuni agli abitanti di un luogo, che proteggevano quel luogo.
Le tracce più antiche della religiosità collinare finora rinvenute sono cristiane: alcune tombe con simboli cristiani risalenti al IV secolo, emerse nel corso dei lavori di edificazione del Nuovo Rione Vomero eseguiti a fine Ottocento.
Più precisamente, nel 1898, nel corso di lavori nella Villa Bellettieri, che sorgeva in area piazza degli Artisti, venne alla luce una tomba in muratura e tegoli piani, in uno dei quali si leggeva, a profondo graffito, il monogramma di Cristo, del tipo chiamato costantiniano, una X intrecciata con erre greca (P), iniziali del nome di Cristo scritto in greco, simbolo molto diffuso nel IV sec. d.C., ritrovamento che sembra localizzarvi una piccola necropoli cristiana, forse risalente addirittura al III sec.
L’archeologia, le tradizioni e le leggende sorte nei primi tempi del cristianesimo ci dicono che a Napoli il cristianesimo ebbe le sue prime manifestazioni anche per iniziativa di persone provenienti da Pozzuoli, alcune convertite direttamente da San Paolo Apostolo, sbarcato a Pozzuoli si ritiene nel 60 d. C. o poco dopo.
Pozzuoli riveste molta importanza per ricostruire la religiosità collinare perché il suo collegamento viario con Napoli attraversando il Vomero, vi porterà il nascente cristianesimo, e soprattutto il culto, tuttora molto vivo, di San Gennaro, come vedremo in un altro articolo.
(Aprile 2024)
Parlanno ‘e poesia
Vincenzo De Bernardo
di Romano Rizzo
Quando frequentavo con assiduità nei vari salotti gli incontri periodici di poesia ho avuto modo di conoscere tanti amici che amavano tutti la poesia ma in modo parecchio diverso. C’era chi conosceva solo le sue composizioni e moriva dalla voglia di declamarle con impegno a tutti per riceverne sempre i consueti ma molto spesso non sinceri applausi degli astanti. Molti, fra i Poeti, terminata la loro esibizione trovavano il modo per eclissarsi alla chetichella oppure iniziavano un chiacchiericcio interminabile con chi gli era seduto accanto. Tra i tanti c’era anche chi dichiarava con malcelato orgoglio di non aver mai letto e di non avere alcuna intenzione di leggere le opere dei grandi classici per paura che la spontaneità assoluta delle sue composizioni potesse esserne in qualche modo influenzata. La maggiore e miglior parte dei convenuti, per fortuna, era formata da persone che, avendone approfondito lo studio, ne riprendevano la forma più che corretta e la forza espressiva, ovviamente, come meglio potevano.
Con questi ci scambiavamo spesso sinceri e calorosi complimenti ogni volta che ci incontravamo e di loro conservo un vivo ricordo. Vorrei avere il tempo necessario, anzi, ma so già che non sarà possibile, di presentare un domani alcune opere, a mio parere più significative, di ognuno di loro. Oggi, però, ho in animo di farvi conoscere uno strano personaggio che catturò subito la mia attenzione e che, in realtà, non finisce mai di stupirmi: un Maresciallo dell’Aviazione in pensione che mi colpì subito per la varietà dei temi, trattati sempre con grande forza espressiva e con sincera spontaneità, Vincenzo De Bernardo, persona molto cordiale, semplice, tranquilla e modesta, con cui entrai in grande sintonia. Alcune delle sue inattese, ma molto spontanee risposte, le ho impresse nella mente e voglio riferirvele perché serviranno di certo a farvi meglio comprendere la sua personalità e la sua grande bonomia. Una volta in cui, per errore, riportai i suoi dati anagrafici con il depiccolo mi corresse all’improvviso dicendo così: “ Romà, ma comme hê fatto a te sbaglià…t’aggio ditto tanti vvote ca nun tengo niente ‘a spartere io cu ‘a nubiltà e ca me n’avanto !!”
Poiché anche io son solito fare uso spesso di espressioni simili, finì che ci abbracciammo e da allora in poi ci accomodammo sempre vicini e vicendevolmente ci complimentammo spesso, lo confesso.
Non posso tacere che a quell’epoca anche io ero molto prolifico nel comporre ma mai tanto da poter competere in una gara con lui.
Portavamo entrambi dei foglietti con le nostre ultime composizioni,ed io, più di una volta, lo esortai a raccogliere in un volume una accurata selezione delle poesie che gli erano più care e che gli piacevano di più .Ricordo bene che lui sempre si schermì e, per convincermi a chiudere la questione una volta per tutte, mi disse convinto: “No, Romà, nun so’ nu poeta comm’a te ca parle d’’a lunae d’’e stelle e faje fremmere ‘o core, io… nun so’ poeta, so’ nu contastorie. Scrivo ‘e ccose ‘e tutte ‘e juorne cu parole semplice ca ‘a gente capisce senza se sfurzà. I’ nun cerco e nun m’aspetto niente, ‘e scrivo surtanto pecchè me piace d’’o fa’, me vene facile.”
Comprenderete tutti che un tipo così non si incontra facilmente, ma io ero e sono più che convinto che stava commettendo un imperdonabile errore e che faceva un gran torto a se stesso non evidenziando e non mettendo nella giusta luce gli innegabili pregi che ritrovavamo in tutte le sue composizioni: la freschezza e varietà della ispirazione, l’appropriato uso di espressioni molto significative, la grande musicalità del verso, spesso condita da quel pizzico di ironia che è propria di chi è un vero napoletano. Sarei davvero lieto se le poche poesie che ho scelto riuscissero a dare a Voi un gustoso, vario e gradevole saggio delle sue indubbie e non comuni qualità che spero possiate apprezzare, rafforzando il mio convincimento di aver reso alla Sua opera un buon servizio!
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‘A primmavera
di Vincenzo De Bernardo
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E’ venuta ‘a primmavera,
siente, già, a primma matina,
nu profumo ‘e ciclamino,
int’’a l’aria sta a saglì.
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Int’’o vaso, so’ spuntate,
di basilico, ddoje foglie:
-“Miette l’acqua - fa mia moglie -
poco, nun ‘e nfracetà!”-
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‘E rimpetto, ‘o primmo piano,
‘onna Assunta stenne ‘e panni,
‘o marito, don Giuvanni,
se surzea ‘o ppoco ‘e cafè!
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Int’’o vico, già, a primm’ora,
è passato l’arrotino,
for’’o vascio, ‘onna Titina,
‘e pezzelle sta a mpastà.
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Ogni tanto da’ na voce,
allucca: “ Uè, so’ pronte ‘e ppizze -
da’ na sistemata ‘e zizze -
neh, chi ‘e vò, io stongo ccà!”
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‘On Giovanni, puveriello,
sente e se fa tutto russo,
‘a mugliera storce ‘o musso:
-“Trase dinto primma ‘e mò!”-
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Poeta
di Vincenzo De Bernardo.
Quando leggo int’a n’intestazione,
‘o nomme e po’, virgolettato “artista”,
me volle ‘o sango, me s’abbaglia ‘a vista
e nun riesco a me capacità!
.
‘A stessa cosa vale per “poeta”,
chi scrive o che si nutre di poesia…,
ma io ca scrivo ‘e ccose ‘e miez’’a via…,
no, nun ce ‘a faccio a me catalogà!
.
Per cui, mi reputo un “raccontastorie”,
poeta è na parola troppo grossa,
ca quando metto ‘o pere, dint’’a fossa,
nun voglio ca me stanno a criticà!
.
Pecchè, annanze, tutte quante a dicere:
è bravo, la sua poesia è un’arte…,
quando si’ muorto e stai all’ata parte:
poetà? Quando mai… bla, bla, bla!
.
Scrivere, pe’ mme, è nu bisogno,
me nasce mpietto e, po’, voglio o nun voglio,
scenne int’’o braccio, scorre ncopp’’o foglio…,
nun me l’aggio saputo, mai, spiegà!
.
E io ca, ormai, me saccio e me cunosco,
‘o passo ‘o faccio a misura ‘e pere,
racconto storie tristi, a volte, allere…,
ve piacene? Ve stongo a ringrazià !
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Riunione ‘e condominio
di Vincenzo De Bernardo
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So’ stato a na riunione ‘e condominio
ca ce mancavo, ormai, ‘a 3-4 anni,
mò, m’addimanno: ll’ate comme fanno...
e, ancora, ma chi me l’ha fatto fa !?
.
Ma chiste teneno ‘o stommaco ‘e fierro,
gente ca se pigliava, quasi, ‘e pietto,
ce steve chi vutava pe’ dispietto,
neganno ll’evidenza... e che vuò fa!
.
L’albero perde ‘e ffoglie? E’ nu problema!
‘A colpa è ‘a soja o è d’’o ciardeniere?
E ce sta chillu cane ca, tutt’’e ssere,
abbaia e nun ‘o putimmo suppurtà !
.
...e ‘o canciello sta apierto oppure nchiuso...
e ‘a caldaia s’hadda stutà a ll’otto o ‘e nnove,
ll’ombrello addà sta apierto, quando chiove...?,
Ma ‘o fanno apposta o so’ proprio accussì?
.
Po’ diceno ca ‘e pazze stanno ‘a dinto?
Ma quanno maje, ‘e pazze stanno ‘a fore...,
‘O dico a vuje cu ‘a mano ncopp’’o core
ve giuro ca i’ nun ce ghiarraggio cchiù!
(Aprile 2024)
«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».20
Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri
di Sergio Zazzera
E' dei giorni scorsi l’epicedio di Barbara Balzerani – la “compagna Luna” –, scritto e diffuso via web da Donatella Di Cesare, del quale riporto qui di seguito il testo: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna». Energiche proteste si sono levate da una consistente quota della società civile, rappresentatativa delle più diverse appartenenze, la quale non ha dimenticato le responsabilità della defunta nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro e in numerosi altri omicidi perpetrati dalle b.r. (sono di rigore le minuscole): addirittura, la rettrice dell’Università “La Sapienza”, dove la Di Cesare insegna, ha sottoposto il caso all’attenzione dei competenti organi dell’ateneo. A fronte di tutto ciò, l’interessata ha tentato di mettere una toppa peggiore dello strappo, sostenendo di aver inteso esprimere soltanto la sua «vicinanza generazionale» alla Balzerani. Ma qui, oltre a richiamare il brocardo giuridico (la cui valenza, però, travalica i confini del diritto), secondo il quale protestatio contra factum non valet, mi permetto di ricordare, ancora una volta, la natura convenzionale del linguaggio, affermata dai tempi di Democrito fino almeno a quelli di Ernst Cassirer. Dunque, affido a ciascun lettore la lettura delle parole della professoressa Di Cesare – filosofa e, perciò, sicuramente conoscitrice del pensiero dei filosofi appena menzionati – e la loro interpretazione, parametrandola a quella “autentica” fornita dalla stessa.
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A proposito di linguaggio: che cosa pensano i lettori di espressioni lessicali oggi sempre più diffuse, del tipo: “quello che è” e “piuttosto che” (in luogo di “oppure”)? Da parte mia, la prima mi sembra un pleonasmo, meritevole del risparmio di fiato. Quanto alla seconda, mi si risveglia la nostalgia del mio triennio milanese di mezzo secolo fa: nel dialetto meneghino, infatti, l’interrogativo retorico “o no?” diventa “piuttost che no?”, che, però, una volta italianizzato, trasforma un’alternativa in una comparazione di tipo valoriale.
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L’annunciata competizione elettorale USA fra Trump e Biden si presenta, ai miei occhi, come sospesa tra il mitologico e il wagneriano: come, cioè, il Götterdämmerung, il “crepuscolo degli dei”.
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E, sempre a proposito di USA, il lancio dall’aereo di generi alimentari alla popolazione affamata di Gaza ha tutto l’aspetto dell’attualizzazione di quella distribuzione, via terra (a tempi diversi, modi diversi), di polvere di uova e di piselli, di cioccolata e di sigarette alla popolazione napoletana, anch’essa affamata, da parte dei militari statunitensi, giunti nel capoluogo dopo lo sbarco a Salerno. Per intenderci: due maniere, apparentemente diverse, ma sostanzialmente uguali, di “lavarsi la faccia” (o, magari, la coscienza).
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Scriveva Giuseppe Prezzolini, nella sua Storia tascabile della letteratura italiana (1976): «la Chiesa cattolica… è la sola monarchia che sia durata dalle origini a oggi in Italia». Ebbene, dopo quasi mezzo secolo, qualcosa mi sembra che sia cambiata, almeno nei fatti, dal momento che la monarchia, soprattutto se assoluta, assicura sempre al suo vertice una posizione d’intangibilità. Viceversa, oggi una quota consistente di ecclesiastici non si fa mancare le occasioni di critica dell’operato del “monarca assoluto”, ovvero del papa. Ma, forse, questo è il segno del fatto che il verticismo assicura sempre una buona libertà di azione, quanto più in basso si scende nella piramide.
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Passando, ora, al mondo dell’arte, cominciamo dalla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, insediatasi nuovamente in piazza Municipio. A me essa sembra il simbolo del mondo politico dei giorni nostri, nel quale il lancio degli stracci è diventato lo sport preferito.
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Due mostre, in corso a Napoli in questo momento, hanno attirato la mia attenzione, vale a dire, quella della Flagellazione di Cristo del Caravaggio, al Museo diocesano, e quella della Testa di Tito, alle Gallerie d’Italia. La prima di tali opere proviene dal Museo di Capodimonte, l’altra dal MANN; e sono proprio tali provenienze a rendermi più che perplesso, circa l’utilità delle due esposizioni. Finché, infatti, un’opera d’arte viene temporaneamente trasferita in una città diversa, l’utilità dell’operazione è da ravvisarsi nella possibilità, offerta a chi non può recarsi nella sede in cui essa dimora stabilmente, di poterla ugualmente ammirare. Viceversa, non riesco a immaginare altro senso dell’operazione compiuta nell’ambito della stessa città, se non quello di dirottare il pubblico (e gl’incassi) da una struttura museale all’altra.
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Dulcis (ma non lo direi troppo) in fundo: la relazione positiva, emersa di recente, tra lo street artist napoletano Jorit e Vladimir Putin. Vero è che la qualità artistica è un valore che va apprezzato in sé, senza alcuna connessione con possibili ideologie (per tutti, valga la qualità dell’architettura del ventennio fascista); è innegabile, però, che il caso di specie è idoneo a risvegliare nelle menti il ricordo di figure, come Muzio Attendolo Sforza, Braccio da Montone e Giovanni delle Bande Nere. Intelligenti pauca.
(Marzo 2024)
«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».19
Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri
di Sergio Zazzera
Un capitolo dei Simboli della Scienza sacra di René Guénon è intitolato «Riunire ciò ch’è sparso», il che è ciò che tentai di fare, alcuni anni fa, sul periodico Il Brigante, provando a mettere insieme alcune considerazioni che facevo su avvenimenti di quel tempo, con la speranza di non avere messo troppa carne a cuocere. L’iniziativa s’interruppe giusto dieci anni fa; peraltro, essa aveva incontrato il gradimento di Marisa Pumpo Pica, che egregiamente dirige questa testata, il che m’induce a riprenderla in questa sede, conservando la numerazione consecutiva, rispetto a quella della serie precedente.
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L’indagine circa le responsabilità della “questione israelo-palestinese”, eufemismo che designa la realtà della guerra tra gli arabi di Hamas e gl’israeliani di Netanyahu, è più complessa – ma, forse, anche più semplice – di quanto non possa apparire; dunque, proviamo a compierla anche noi.
Yahweh, la divinità dell’ebraismo, è “il Dio degli eserciti”: soltanto il cattolicesimo postconciliare ha adottato la foglia di fico, che lo ha reso “il Signore Dio dell’universo”. A sua volta, il Jihād (sissignore, il sostantivo è di genere maschile) dell’Islām è vocabolo polisemico, tra i cui significati c’è quello di “guerra santa”, vale a dire, combattuta – sul modello di quella di Maometto per la conquista della Mecca (629-630) – contro gl’infedeli, tra i quali non v’è dubbio che, nell’ottica islamica, vanno annoverati anche gli ebrei.
Ciò posto, l’aggressione attuata da Hamas – organizzazione terroristica, che non può essere identificata con l’intero popolo palestinese – ai danni d’Israele ha costituito, sicuramente, una forma di Jihād, sferrata sotto l’egida di Allāh, divinità islamica, alla quale lo Stato aggredito non poteva reagire, che con le modalità ben note, attraverso l’intervento del proprio esercito, che Jahvè ha preso sotto la propria egida. A questo punto, non soltanto ogni considerazione circa la sproporzione tra offesa e difesa diventa vana, né è superfluo sottolineare il danno che Hamas ha causato al popolo palestinese, ma, addirittura, nell’iniziativa di Hamas medesimo dev’essere ravvisata quella che i penalisti definiscono “colpa con previsione”, se non finanche quello che sempre i penalisti definiscono “dolo eventuale”.
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Il Governo attualmente in carica aveva esordito, ponendo al bando l’uso dei vocaboli stranieri, in luogo di quelli della lingua italiana. Riterrei utile, perciò, che il professor Giuseppe Valditara, ministro dell’istruzione (oltre che “del merito”!) spiegasse perché il nuovo corso di studi superiori, da lui annunciato e finora non ancora istituito, dovrebbe chiamarsi “Liceo del made in Italy”.
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Ci sono cafoni in tutti gli ambienti, anche in quelli apparentemente più “elevati”; perfino nel mondo della politica (ma di che cosa vogliamo meravigliarci?). e tra una consistente parte di tutti costoro è invalso l’uso di rivolgersi ai giornalisti, che li intervistano, dandogli del tu.
Signori (si fa per dire)! il giornalista è un professionista, ma, prima ancora, un uomo e, soprattutto come tale, merita rispetto. Torna appropriato, qui, il ricordo del mio Maestro, al tempo della mia collaborazione con lui, il quale stringeva la mano al bidello, prima che a noi, e una volta ci spiegò, con la sua nota saggezza: «Se faccio così, poi lui mi rispetta».
Quanto, poi, al “tu”, sono completamente fuori strada coloro che affermano che anche gl’inglesi danno dello you perfino al re. È vero; solamente, però, che lo you equivale al nostro “voi”, mentre in Albione si è perso l’uso del thou, seconda persona singolare del pronome personale: si ricordi, fra l’altro, il racconto di Edgar Allan Poe, Thou art the man (= Tu sei l’uomo - 1844). Dunque, in realtà, in Inghilterra i padri danno del voi finanche ai figli.
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Come si sarebbe dovuta attendere ogni persona avvezza a guardare oltre il proprio naso (che, come dice mio figlio, non è neppure quello di Cyrano de Bergerac), giunti alla scadenza del secondo mandato, fissato dalla legge come limite massimo di eleggibilità, presidenti di Regione e sindaci, affezionati alla loro poltrona, premono – e protestano –, perché sia consentito loro di aspirare al terzo. Ciò mi ricorda le modalità della transizione delle città italiane, tra Medioevo e Rinascimento, dall’esperienza dei Comuni a quella delle Signorie, nelle quali fu stabilizzata e divenne ereditaria la premiership (sì, se l’inglese lo usa il ministro, voglio usarlo anch’io) dei Capitani, fin allora eletti dal popolo dei primi. Dunque, honi soit (come sopra: comincio a prenderci gusto) che pensa che la storia non si ripeta.
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Le premesse per il gemellaggio tra il Vomero e Appenzell, città della groviera, si stanno consolidando, tra voragini già aperte e altre ventilate (se non altro) dai geologi. Mi piacerebbe sapere che cosa ne penserebbe Georges Ivanovič Gurdjieff, il filosofo armeno, maestro di René Guénon, che ho citato in apertura dell’articolo, dal momento che fra i cardini del suo pensiero c’è la formula “come sopra così sotto”, sia pure riferita all’intero Universo.
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Il napoletano non sarà una lingua (non è vero che tale lo abbia definito l’UNESCO) e potrebbe non essere neanche un dialetto – in un mio recente volumetto l’ho definito “parlata” –, però è innegabile che esso abbia un suo corpus di regole grammaticali e sintattiche, al pari della lingua italiana; e, quanto a quest’ultima, la violazione di quelle regole da parte degli studenti ha sempre subìto le impietose sottolineature rosse e blu da parte dei professori. Viceversa, la violazione delle regole del napoletano da parte di Geolier, cantante (?!) esibitosi al recente festival di Sanremo, ha incontrato l’assoluzione per opera finanche di qualificati docenti: unica voce di spessore, levatasi a protestare, è stata quella di Maurizio De Giovanni, presidente (ora dimissionario) del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano della Regione Campania.
Ricordo che, alcuni anni fa, Aldo Oliveri tentò di accreditare un sistema di “lessigrafia” del napoletano, molto simile al modo in cui è scritta la canzone sanremese di Geolier, ma fu contestato da un folto manipolo di studiosi – tra i quali, modestamente, anche il sottoscritto –, intervenuti alla presentazione; e ricordo, in particolare, la violenta filippica del compianto Raffaele De Novellis.
Bene, non mi sarebbe dispiaciuto che altrettanto fosse accaduto oggi; ma, viceversa – De Giovanni a parte –, nessuno si è fatto sentire; io stesso lo sto facendo soltanto ora, che mi se n’è presentata l’opportunità.
Bene, sono stufo di dover leggere frasi, che sembrano scritte in polacco (quattro o cinque consonanti di seguito, senza una sola vocale) e, viceversa, vorrebbero esserlo in napoletano: non bastavano i manifesti pubblicitari e quelli funebri, ora ci si mette anche la canzone.
Bene, dal Nord d’Italia hanno protestato contro Geolier, non per il modo di scrivere (suo e degli altri ben sei autori!) il testo della canzone in sé, ma per contestare la presenza di Napoli e della sua “parlata” al festival. Allora, mettiamola così: voglio prenderla come una ipotesi di eterogenesi dei fini.
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È pacifico che, da Democrito, almeno fino a Ernst Cassirer, al linguaggio è stato sempre riconosciuto carattere convenzionale, vale a dire, che la sua comprensione non necessita dell’intervento d’intermediari, fatta salva l’ipotesi di dialogo tra soggetti allofoni. È altrettanto pacifico che quello dell’arte sia un linguaggio, per di più, universale, vale a dire, che la necessità d’intermediazione rimane esclusa in ogni caso.
Da tutto ciò discende la considerazione che l’affannarsi dei cosiddetti “critici d’arte”, per spiegare il significato di certe opere di autori contemporanei, solitamente con l’impiego di circonlocuzioni ancor meno comprensibili di quelle opere, è da considerare del tutto superfluo. Con il corollario che quelle non sono opere d’arte. E sia chiaro che non lo dico io, bensì Jean Clair, accademico di Francia; e scusate se è poco.
(Febbraio 2024)