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DA ETHOS E NOMOS "LA PARLATA NAPOLITANA"     Comincia il 9 ottobre prossimo, da Ethos e Nomos (via Bernini, 50), il ciclo d'incontri su "La parlata...
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"ROVESCI"     Presentazione il 24 maggio, ore 17, al Tempietto della Floridiana. (Maggio 2024)
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NAPOLETANI TENDENTI AL CIBO SANO MA GOLOSO   CAMPANI E NAPOLETANI SEMPRE PIÙ ATTENTI A UNO STILE DI VITA HEALTHY, MA NON MANCANO MOMENTI DI COCCOLE...
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DE STEFANO IN MOSTRA AL MADRE   Giovedì 12 alle 17,30 al Museo Madre si inaugura una mostra di disegni inediti, realizzati da Armando De Stefano già...
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L’incendio tedesco dell’Archivio di Stato di Napoli nel 1943

 

di Antonio La Gala

 

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 i Tedeschi di stanza a Napoli cominciarono a trattare subito la città come una città occupata nemica, distruggendo, saccheggiando, terrorizzando la popolazione inerme con brutalità spietata, secondo il loro celebre copione in materia.

I Tedeschi sapevano che davanti all’avanzata anglo-americana avrebbero dovuto lasciare la città, ma decisero di fargliela trovare distrutta, dopo averla razziata di tutte le risorse, materiali ed umane, alcune da trasferire in Germania. Aiutati e guidati da fascisti locali, ricomparsi dopo essere cautamente scomparsi il 25 luglio, distrussero le attrezzature industriali di S. Giovanni a Teduccio e Bagnoli, quelle portuali e ferroviarie, cabine elettriche, acquedotto, gasometro, banche, edifici pubblici, alberghi; saccheggiarono depositi, rimesse, asportando tutto ciò che potesse essere loro utile.

A dimostrazione della barbarie che li animava, i nazisti non si limitavano a distruggere per finalità belliche, ma anche a titolo di pura gratuità.

Fra le innumerevoli gratuite nefandezze ce ne fu una che colpì gravemente il patrimonio culturale di Napoli e lasciò sgomento il mondo degli studiosi: l’incendio dell’Archivio di Stato.

Nei mesi precedenti, nel marzo 1943, per l’esplosione di una nave nel porto, alcuni spezzoni incendiari avevano sfondato il tetto dell’Archivio di Stato, ospitato dal 1835 nell’ex convento dei Santi Severino e Sossio, bruciando alcuni atti del debito pubblico borbonico. Dopo questo episodio i responsabili dell’Archivio ritennero opportuno trasferire il prezioso contenuto dell’Archivio in un luogo lontano dalla città, che si presumeva non preso di mira dal nemico, scegliendo la Villa Montesano in prossimità di San Paolo Belsito.

Così 866 casse, molte balle, pacchi e pacchetti, presero la via di questa nuova sede, per esservi conservati “al sicuro”.

Ma la scelta non fu felice.

Infatti il 30 settembre i Tedeschi, nel quadro di una rappresaglia verso i contadini del posto, responsabili della morte di un loro commilitone nel difendere derrate e bestiame dalle razzie tedesche, si presentarono armi in pugno a Villa Montesano e, vincendo con estrema facilità la resistenza e le suppliche dell’esiguo personale di custodia, dettero fuoco ai documenti dell’Archivio. La loro barbarie ridusse in cenere, in pochi minuti, secoli di storia.

Tra gli intellettuali addolorati per questa perdita, Benedetto Croce e Fausto Nicolini non riuscivano a farsene una ragione..

Fra le collezioni più importanti incendiate c’erano i circa 500 volumi della Cancelleria angioina, sopravvissuti alle distruzioni fatte dai napoletani stessi nel corso delle frequenti sommosse popolari dei secoli precedenti.

I documenti angioini erano indispensabili per la conoscenza degli atti di governo e amministrativi di quella dinastia, dal 1265 al 1442, e, per estensione, per la conoscenza della storia europea di quel periodo.

Andarono distrutti anche atti della Cancelleria del periodo Aragonese e parte della corrispondenza intercorsa fra uomini di Stato, dal Cinquecento al Settecento.

I documenti angioini, per fortuna, erano stati oggetto di studio fin dal Cinquecento e quindi erano stati trascritti per intero oppure riassunti in numerosi studi, sparpagliati in tutta Europa, consultando i quali è stato possibile, negli anni successivi all’incendio del 1943, ricostruirne in parte il contenuto, grazie soprattutto alle iniziative del Sovrintendente dell’Archivio di Stato dell’epoca, Riccardo Filangieri.

A partire dal 1949 fu così possibile pubblicare progressivamente in volumi il materiale recuperato dei registri della cancelleria angioina, riparando in parte al danno prodotto dal barbaro atto del barbaro occupante del 1943.

(Maggio 2023)

Il poeta del giorno

 

di Romano Rizzo

 

Antonino Alonge (Palermo, 20 Settembre 1871 - Milano, 13 Agosto 1958)

Poeta e giornalista, visse fin da bambino a Napoli ed anche quando dovette trasferirsi portò questa città sempre nel cuore.

Collaborò al don Marzio, al Mattino, al Giornale di Sicilia, a l’Ora, alla Gazzetta dell’Emilia e al Corriere della Sera.

Pubblicò, nel 1888, a soli 17 anni, Cusarelle, cui seguirono Pennellate napoletane, nel 1934, e Aria di Napoli, con la prefazione di Benedetto Croce, nel 1952.

I suoi versi ricevettero le “ambitissime lodi” di Ferdinando Russo e Roberto Bracco.

Di seguito, un breve saggio della sua produzione.

 

‘A sciuliarella

::::::::::::::::::::

 Quanno i’ passo mmiez’â ggente

comme fosse nu stunato

che nun vede e che nun sente

chi sa quante hanno penzato

che so’ n’ommo scumbinato,

anze peggio, n’ommo ‘e niente.

.

Ma nisciuno ha ‘nduvinato

ca è tristezza sulamente;

so’ ‘e ricorde d’’o ppassato

che avvelenano ‘o ppresente

e s’affollano ‘int’â mente

nu penziero appriesso a n’ato…

.

Tutt’’e ccose malamente

che aggio visto e aggio pruvato,

tutte ‘e ‘nfamità d’’a ggente,

tutte ‘e guaje che aggio passato !

I’..so’ n’ommo amariggiato

e nun già distratto ‘e mente..

 

Si’, però nun dico niente ;

che aggi’’a ddì? me so’ seccato!

cerco ‘e fà ll’indifferente,

ma nun è che so’ cagnato :

è ‘o vveleno d’’o passato,

è ‘a tristezza d’’o presente..!!

(Aprile 2023)

LESSICO FAMILIARE

 

di Luigi Rezzuti

 

Come lo prendete voi il caffè? Amaro? Zuccherato? Io amaro.

Vi assicuro però che un po' di zucchero lo gradirei. Ma è per via del lessico familiare, si quella cosa del personalissimo slang che ogni nucleo domestico si inventa e che va benissimo se speso tra le pareti di casa. Il problema è se esce fuori.

Mio padre si riferiva al bicchiere (anzi, mezzo bicchiere) di vino che beveva a pranzo definendolo sempre “un goccio” o anche “un goccetto”. E fin qui tutto ok. Era col caffè il problema: la consueta tazza di caffè l’aveva trasformata in “una lacrima di caffè” con “un’ombra di zucchero”.

Noi non solo eravamo abituati a queste sue espressioni ma presto le facemmo nostre.

Una volta ricordo che mio zio venne a trovare la sorella maggiore e come di formula consueta le chiese come stesse.

Mia mamma godeva di una salute invidiabile ma aveva questa ipocondria scaramantica di iniziare alla fatidica domanda un elenco infinito di acciacchi: “la schiena fa male e poi ho un dolorino allo sterno che mi preoccupa e l’artrosi cervicale che non mi fa dormire e poi lo stomaco…ah…ma non ti ho offerto niente?”. “Vuoi una lacrima di caffè?” E mio zio seriamente preoccupato per le precarie condizioni della sorella e già quasi lui con le lacrime agli occhi: “si, solo una lacrima però” pensando che in quel luogo di malanni e dolori una lacrima di qualsivoglia bevanda fosse l’unica possibile forma di ristoro.

Ma il problema diventava serio se quelle espressioni a noi consuete venivano esportatale fuori. Ho ancora perfettamente in mente la volta in cui a un bar con amici alla richiesta di cosa ciascuno volesse da bere mi venne spontaneo: “io una lacrima di caffè con un’ombra di zucchero”. Tutti, anche quel maleducato del barista, cominciarono a ridere e a fare scontate e interminabili battutine sulla mia richiesta.

Risultato. Il caffè lo prendo amaro onde evitare involontari esilaranti automatismi linguistici.

E questo è niente. Prima o poi vi racconterò della mia (dis)avventura con lo champagne…

(Marzo 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

 “Il broccolo”

 

di Antonio La Gala

 

Testimonianze della vita artistica e letteraria napoletana a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta ci vengono fornite da un periodico che visse nel 1949 con il titolo “Il broccolo” e poi, nel 1950, con il titolo di “Belvedere”.

Il primo numero del periodico uscì il 12 febbraio 1949, con il sottotitolo “settimanale letterario umoristico”, sotto forma di foglio in quattro facciate di grande formato, del costo di lire 20, con uscita il sabato.

I fondatori furono l’Avv. Ugo Ragni (direttore responsabile), il commercialista Guido del Gaudio (direttore amministrativo) e i funzionari di banca Luigi (Gino) Apa ed Alessandro Zazzera (padre di Sergio Zazzera, magistrato, autore di pregevoli pubblicazioni di natura storico-culturale e attuale direttore del web magazine “Il revocatore”). I disegni erano firmati GIN (Gino Apa).

Le direzioni e la redazione erano in Via Tino da Camaino 13, e il foglio era stampato dalla tipografia del Dott. Dino Amodio, in Via Pignatelli a San Giovanni Maggiore 48.

Nella testata un disegno schematico raffigurava un broccolo dietro il quale s’intravedeva la sagoma di Castel Sant’Elmo e della Certosa di San Martino.

Come è noto la collina del Vomero in passato era nota per le sue estesissime coltivazioni di broccoli, ed i suoi abitanti venivano indicati spesso con il soprannome di “pier’’e vruoccole”.

Nell’articolo di fondo del primo numero, a firma di Ragni, veniva dichiarata l’intenzione di continuare l’opera a favore della cultura e della vita vomerese svolta fino a pochi anni addietro da Edoardo Ceci attraverso il “Corriere” delle colline.

In effetti nei primi numeri comparvero molti articoli che avevano per oggetto uomini e cose del Vomero, ma con il passare dei mesi il periodico assunse sempre di più le caratteristiche di una pubblicazione artistico-letteraria riguardante tutta Napoli, senza più alcuna preferenza per il Vomero.

Nel 1950 il periodico cambiò testata: il 7 gennaio 1950, con il sottotitolo “settimanale napoletano artistico letterario” uscì la testata “Belvedere”, che è da considerare la continuazione del “Broccolo”, visto che il primo numero portava l’indicazione “anno II n.1” e che i direttori, redattori sede e tipografia erano gli stessi, e che il giornale conservava lo stesso formato e lo stesso prezzo.

Il numero 2 uscì solo il 13 maggio, con una leggera modifica nella testata, da cui scomparve il sottotitolo.

Inoltre dal n.2 il Direttore responsabile diventò Mario Perrone, la redazione si spostò in via Ugo Niutta 25, la tipografia era quella del cav. Franco Severini, in via Tribunali 132. A luglio subentrò la tipografia “AA & F.Cicero”, al prolungamento di via Scarlatti (oggi via Cilea), n. 214.

Fra le firme apparse sul Broccolo-Belvedere ricordiamo quelle di Vittorio Paliotti, Pasquale Ruocco, Mario Spedacci, Enzo Palumbo, Antonio d’Auria, Antonio Spagnuolo, Enzo Armenio.

Nel n. 21 del 14.10.1950 comparve il seguente “Avviso importante”: “per ragioni di carattere tecnico siamo costretti a sospendere le nostre pubblicazioni settimanali. I lettori che vorranno conservarci la loro benevolenza potranno leggerci in rivista mensile a partire dal gennaio prossimo”. Firmato Belvedere.

A noi non risulta una ripresa della pubblicazione, ma abbiamo solo notizia di un numero “zero” del Broccolo, pubblicato nel dicembre 1999, in occasione del cinquantenario dell’uscita del primo numero.

(Marzo 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

Miti napoletani di oggi.95

L’OSPEDALE DEL MARE

 

di Sergio Zazzera

 


La sanità a Napoli gode di una salute tutt’altro che ottima, il che è quanto dire: se non sta bene lei, figuriamoci noi… Tuttavia, a darle una mano, perché potesse risollevarsi, fu progettato, nel 1997, un complesso ospedaliero a Ponticelli. Poi, si sa come vanno queste cose nella nostra città: la prima pietra è facile da posare, le altre un po’ meno: così, un mattone oggi, uno dopodomani, un terzo dopo qualche mese, un quarto dopo qualche anno, si è dovuti arrivare al 2015 perché la struttura potesse cominciare (dico: cominciare) a funzionare.

Già in tutto ciò, dunque, potrebbero essere ravvisati i connotati del mito; ma non basta: qui siamo in presenza di una vera e propria concentrazione di miti.

Tanto per cominciare, infatti, la collocazione del nosocomio in un’area mal servita dai trasporti pubblici ne rende difficoltoso il raggiungimento, se non si dispone di mezzo proprio; e, anche in questo caso, non è che la viabilità sia proprio delle più agevoli.

L’acme del mito, però, è nella denominazione del complesso: Ospedale del Mare, il quale, però, si trova a una decina di chilometri di distanza. Più falso linguaggio di così… A meno che il riferimento non sia proprio al mare …di problemi che vi si riconnettono.

(Febbraio 2023)

Prima era un’altra cosa

 

di Antonio La Gala

 

Fra i luoghi comuni più comini della nostra città luoghi comuni merita un posto d’onore quello che, con lacrime di coccodrilli, tiene banco da decenni: Lauro, lo scempio, i palazzinari, Rosi e "Le mani sulla città", e tutto il trito e stucchevole repertorio sull'argomento. L’anatema si limita al secondo dopoguerra.

Chi si scaglia, giustamente, contro la stagione postbellica delle nefandezze urbanistiche (laurine e, per obbiettività, anche abbondantemente post laurine), non riflette abbastanza sul fatto che quella stagione non è stata un momento anomalo nella storia della città, ma piuttosto uno dei punti di una coerente linea di continuità storica.

I corifei che si stracciano le vesti per le edificazioni del secondo dopoguerra, non dedicano nemmeno un attimo a riflettere sulle edificazioni dei periodi precedenti, per capire se esse erano diverse; se erano diversi gli uomini che le hanno gestite; se erano diversi i meccanismi; se c'erano o no intrallazzi; se Napoli prima del dopoguerra era tutta un giardino fiorito oppure no, ecc. ecc.

L’epicentro del luogo comune è “lo scempio del Vomero”

E' oggettiva constatazione che uno dei luoghi che più ha sofferto l'offesa palazzinara postbellica è stata la collina, in particolare quella vomerese.

E' troppo facile dimostrare la sciaguratezza con cui è stato espugnato il Vomero: paesaggio scomparso, preesistenze storiche disperse, antiche ville abbattute, ecc. ecc.

Io stesso, nei miei libri sull'argomento, non vado per il sottile nelle critiche.

Però mi pongo una domanda.

Quando nel 1885 sono saliti in collina i primi costruttori per erigere i palazzi di Piazza Vanvitelli, via Morghen, Scarlatti e Cimarosa, come hanno trattato il paesaggio che hanno trovato, le preesistenze e le ville antiche? Come è stata trattata la risorsa paesaggistica?

Una collina, per motivi orografici, consente il godimento del panorama se l'edificazione avviene mediante edifici bassi sui terrazzamenti che seguono l'andamento dei pendii.

Il "Nuovo Rione Vomero" a fine Ottocento è nato cementificando parte della collina con palazzoni alti trenta metri, allineati, secondo una pianta a maglie quadrangolari, una pianta sabauda buona per la val Padana. Portata sulal collina vomerese, addio panorama per tutti. E per sempre.

Qualcuno si domanda perché? Non c'entra per caso lo sfruttamento dei suoli da parte dei costruttori? Per realizzare più case possibili?

Allora, mi chiedo: in che cosa differiscono i costruttori di fine Ottocento, da quelli laurini e postlaurini?

Le immagini dei fianchi della collina vomerese coperti dal cemento armato posbellico ormai girano il mondo. Piangendo su di esse, i coccodrilli intonano in coro il ritornello "Il verde di prima non c'è più; è scomparso".

Qualcuno ha mai controllato il verde che "c'era" prima? Ha mai guardato le immagini di inizio Novecento in cui compaiono i fianchi della collina su cui spuntano i palazzoni dalle ampie facciate "panoramiche", di Parco Antonina e Parco Marcolini? Ha guardato le cartoline d'epoca che presentano con orgoglio quelle costruzioni?


Mutatis mutandis, nei “parchi” Marcolini, Antonina, ecc. non vi si intravede, qualche antenato della famigerata "muraglia Ottieri" di via Ugo Ricci che incombe su via Aniello Falcone?

Alla muraglia Ottieri non sappiamo più quale insulto aggiungere, perché nella nostra memoria individuale e collettiva da quelle parti c'è il verde pre-Ottieri, perché alcuni di noi lo hanno  visto personalmente e se lo ricordano. Invece chi oggi ha meno di centoventi anni, (cioè tutti), i palazzoni di via Palizzi o di via Michetti li ha trovati e in un certo senso la sua memoria li ha incorporati nel paesaggio, lì da sempre. Della situazione paesaggistica precedente al Novecento nessuno ha visto niente direttamente. Anche attraverso le immagini il "verde" di fine Ottocento nessuno lo ha mai visto, perché nelle foto in bianco e nero il verde appare "nero". Forse lo ha dipinto qualche pittore. Ma, anche i pochi che conoscono i dipinti, pensano che, si sa, i pittori lavorano di fantasia.

Il secondo Novecento non ha distrutto "il verde", ma il verde "residuo".

Senza fare nomi, qualcuno ha mai notato che i nomi dei "parchi" dell'epoca coincidono con i cognomi dei maggiori costruttori del Vomero di fine Ottocento e inizio Novecento?

I sedicenti "parchi" costruiti distruggendo il vero parco preesistente li hanno inventati Otttieri e compagni di merenda nel secondo dopoguerra, oppure gli "Ottieri"di molti decenni prima?

Il palazzo di via Aniello Falcone 191, quello che sta sotto la scalinata che proviene da via Luca Giordano, sotto la Chiesa di San Francesco, anche se è un palazzo "firmato", un palazzo "d'autore", è o no un ecomostro che taglia il panorama? Non è stato costruito nel dopoguerra.

A carico dei costruttori del secondo dopoguerra i corifei dello "scempio" lanciano l'accusa che qualcuno di loro intratteneva buoni rapporti con la politica e gli amministratori pubblici, per riceverne sostegno nella propria attività.

Vero, verissimo.

Ma qualcuno si domanda perché anche i maggiori costruttori del Vomero belle èpoque si presentavano candidati alle elezioni comunali, erano amicissimi dei sindaci e sotto le  elezioni fondavano e finanziavano "Comitati per il bene del Vomero" con tanto di giornale, assieme a qualche leggendario vicesindaco del Vomero?

Una obiezione che i laudatori del tempo passato potrebbero fare è che, comunque, allora si costruivano palazzi signorili, strade larghe, belle ville, e nel dopoguerra invece si sono costruite via Ruta, via Falcomatà e i vicoli del Vomero Alto.

Ciò è incontestabile. Ma perché ciò è avvenuto?

Molti potrebbero rispondere "perché prima le cose erano più serie". Cioè ipotizzano maggiore virtù dei costruttori e degli amministratori. A prescindere dalle Commissioni d'inchiesta nazionali che le amministrazioni napoletane propiziavano anche allora, io avanzo una spiegazione diversa.

Chi erano gli acquirenti delle prime case del Vomero? Delle case  di piazza Vanvitelli, di via Scarlatti, di via Palizzi? Della nascente via Aniello Falcone?

Benestanti dell'epoca.

Chi erano gli acquirenti delle case del Vomero del secondo dopoguerra?

Impiegati che hanno formato cooperative e sottoscritto mutui, indebitandosi a vita.

I costruttori di fine Ottocento, quelli delle case di Piazza Vanvitelli avrebbero venduto ai benestanti belle époque case economiche di sessanta metri quadri, realizzati in strade modello via Falvo o via Capaldo?

I vituperati costruttori del dopoguerra avrebbero venduto agli insegnanti con il mutuo trentennale, alloggi spaziosi tipo quelli del centro Vomero, di via Morghen, panoramici, o le villette di via Palizzi?

Cambiato il mercato, è cambiato il prodotto.

Tutto quanto qui esposto vuole essere solo un invito a non ripetere a pappagallo i luoghi comuni dello "scempio", ma riflettere sul fatto che prima di pontificare assiomaticamente che i tempi andati erano migliori dei nostri, dovremmo prima cercare di conoscerli e analizzarne le logiche. Per scoprire che sono le stesse.

(Febbraio 2023)

Il complesso di San Francesco al Vomero

 

di Antonio La Gala

 

Quando negli ultimi decenni dell'Ottocento iniziò a sorgere il nuovo quartiere del Vomero, le istituzioni ecclesiali si adoperarono con tempestività per soddisfare le esigenze dei nuovi abitanti della collina. Nell'arco di pochi anni vi realizzarono complessi religiosi e chiese. Fu eretta la parrocchia di San Gennaro in via Bernini e, poco dopo, il complesso dei Salesiani e quello di San Francesco.

Raccontiamo qualcosa su quest’ultimo.

In quegli anni i Francescani erano alla ricerca di una sede dove svolgere le loro attività, soprattutto quella della formazione dei giovani aspiranti all’Ordine, messe in crisi dalle confische dei conventi operate dall'Italia postunitaria, con la perdita di tante case. Allo scopo di averne una a Napoli, nel 1891 essi comprarono dalla Banca Tiberina (che stava realizzando il Nuovo Rione Vomero), il terreno dove ora sorge il complesso.

La posa della prima pietra per la costruzione del complesso fu posata il 19 maggio 1892 dal cardinale Gugliemo Sanfelice.

I lavori partirono a rilento per il rarefarsi delle elemosine su cui si era fatto affidamento per la realizzazione dell’opera. I Francescani ricorsero allora all’aiuto della Custodia della Terra Santa: essi le donavano la fabbrica fino ad allora realizzata e la Custodia in cambio s’impegnava a finanziare il completamento dell’opera, per aprirvi una scuola per aspiranti religiosi. Questo è il motivo per cui sull’ingresso originario del convento si legge “Collegio di Terra Santa”.

Fra gli accordi fu previsto anche l’affidamento dei lavori all’architetto frate Wendelino Hinterkeuser, un fratello laico tedesco, di notevoli capacità tecniche, che riuscì a completare l’opera, chiesa più convento, in tempi brevissimi. All’inizio di ottobre del 1894 il cardinale Sanfelice tornò al Vomero per consacrarvi la nuova chiesa.

Completata la costruzione, negli anni immediatamente successivi, non avendo l’Ordine francescano ancora personalità giuridica, sorsero complesse procedure per il passaggio della proprietà del complesso dalla Custodia di Terra Santa all’Ordine Francescano

Descriviamo la chiesa. Le due torri campanarie laterali che inquadrano un portale eclettico su cui si apre un finestrone tripartito a vetrate istoriate, conferiscono alla facciata aspetti d’ispirazione romanica.

L’interno è a una sola navata ed è improntato ad una semplicità goticheggiante nel suo slancio verso l’alto. Fra le sobrie decorazioni spiccano le vetrate istoriate.

Dalla prima Guerra mondiale in poi, per una quindicina d’anni, i religiosi di fatto non potettero usare i locali del secondo piano del convento annesso alla chiesa,perché in essa furono ospitati estranei di ogni specie, la cui lunga presenza rese necessaria addirittura la costruzione della scala che immette al secondo piano direttamente dalla strada senza passare per il chiostro. Dal 1916 al 1919 si succedettero bersaglieri, arditi, prigionieri jugoslavi, sfollati di un palazzo vicino pericolante, la sede del Partito Popolare di Don Sturzo. Più a lungo di tutti vi stettero le Scuole Normali femminili (futuro Istituto Magistrale Mazzini), dal 1920 al 1928.

Nel 1992, in occasione del centenario della posa della prima pietra del complesso, è stata posta una statua bronzea di San Francesco in Piazzetta Aniello Falcone.

(Gennaio 2023)

Miti napoletani di oggi.94

Il “Patrimonio dell’Umanità” UNESCO

 

di Sergio Zazzera

 

L’ingegno e la fantasia dei napoletani sono universalmente noti: dunque, non desta alcuna meraviglia il fatto che Napoli abbia posto (ma, forse, sarà meglio dire “escogitato”) la candidatura al riconoscimento, da parte dell’UNESCO, di numerose sue realtà, quali elementi costitutivi del “Patrimonio dell’Umanità”. Fra le tante candidature – alcune delle quali già accolte –, ricordo il Centro antico, l’arte presepiale, san Gennaro, il dialetto, Pulcinella, la pizza, il caffè.


Dove sia il mito in tutto ciò, è presto detto: ricordate il passaggio della carrozza del gran cancelliere Antonio Ferrer, nel capitolo XIII dei Promessi sposi? e ricordate che «tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s'annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant'è, tutti s'alzavano»?

Eccolo qui, il mito: nel momento in cui la qualunque avrà conseguito il riconoscimento da parte dell’UNESCO, sarà come se a nulla esso sia stato accordato. Ed esserne privi costituirà sicuramente un elemento di distinzione.

(Dicembre 2022)

Le utilitarie del Primo Novecento

 

di Antonio La Gala

 

Nel periodo fra le due guerre l’automobile ebbe un forte sviluppo sia come diffusione che come evoluzione tecnica ed estetica.

Senza entrare in particolari tecnici ricordiamo solo la maggiore agevolezza e leggerezza delle vetture; l’introduzione dell’accensione elettrica del motore, al posto di quella faticosa della manovella; la scomparsa della separazione fra posto di guida e abitacolo; la scomparsa della catena di trasmissione, la più facile reperibilità dei pezzi di ricambio.

In Italia i Saloni automobilistici dopo il primo conflitto mondiale si riaprirono, con la tredicesima edizione, a Milano, dove resteranno fino al 1937, eccettuato quello del 1929, che per motivi di propaganda politica si tenne a Roma.

Auto molto note dei ruggenti anni Venti erano la FIAT 501 e la Lancia Lambda.

Gli anni Trenta furono quelli dell’introduzione delle cosiddette “utilitarie”.

La Fiat aveva sperimentato vetture economiche fin dal 1915, ma fu nel 1932 che lanciò, come utilitaria, la Fiat 508 Balilla. Da allora si cominciò ad usare l’aggettivo “utilitaria” per indicare un’auto destinata ad un pubblico più vasto.

Era il momento della reazione alla crisi del 1929, e la Balilla era l’equivalente della Ford T americana.

Il primo modello della Balilla, la 508, con 995 cc. di cilindrata, raggiungeva gli 85 km/h ed era prodotta nelle versioni a due posti, torpedo, spider e sportiva.

Nel 1932 la Balilla dette alla Fiat una grande risonanza mondiale. Basti pensare che nel solo 1932 ne furono prodotti 22.122 esemplari, di cui 6.578 destinati all’estero.

Dal 1934 la Balilla fu prodotta nella versione a 4 marce, con carrozzeria meno severa e il portabagagli incorporato nella parte posteriore della scocca.

Nel 1936 nacque la Fiat 500 A, di 570 cc. di cilindrata, nota come “Topolino”, la più piccola macchina fino ad allora costruita in Italia.

Venne prodotta nelle versioni convertibile e berlina, risolvendo così il problema della piccola utilitaria a due posti, adatta anche alle persone di alta statura.  Quando uscì costava 9.750 lire e raggiungeva 85 km. all’ora. Fu prodotta come “Topolino” fino al 1948, e poi modificata in altre versioni (500 B e 500 C), fino al 1955.

Nel 1937, la FIAT cominciò a produrre la 508 chiamata “Nuova Balilla 1100”, che con modifiche varie terrà banco anche negli anni successivi.

Nello stesso 1937 anche la Lancia presentò una sua auto di successo, l’Aprilia, prodotta in varie versioni fino al 1949. Due anni dopo, nel 1939, immise nel mercato l’Ardea, la sua vettura più piccola, di cui presenterà la seconda versione nel 1945, la terza nel 1948 e la quarta, l’ultima, nel 1949.

Negli anni della seconda guerra mondiale l’industria automobilistica si concentrò, come era logico, nella produzione di tantissimi veicoli ad uso militare ma fermò praticamente quella per uso civile. Quindi, subito dopo il conflitto, non poté fare altro che continuare la produzione dei modelli anteguerra, fra cui la Topolino, l’Aprilia. La riconversione delle fabbriche e la ripresa fu lenta. I saloni espositivi riaprirono nel 1948.

Bisognerà aspettare la fine del decennio per vedere comparire nuovi modelli.

(Dicembre 2022)

L’architettura delle stazioni ferroviarie dell’Ottocento

 

di Antonio La Gala

 


Le prime stazioni ferroviarie, quando sorsero attorno a metà Ottocento, non avevano modelli architettonici precedenti di riferimento. La loro funzione era del tutto inedita. Dovevano affacciarsi all’esterno su una piazza, una strada, e all’interno coprire uno spazio “di lavoro”, fatto di binari, officine, uffici, servizi, frequentati da persone, fra cui i viaggiatori.

La prima stazione di Napoli (e d’Italia), quella costruita da Bayard nel 1839 sul futuro Corso Garibaldi, inizialmente era una piccola tettoia sorretta da colonnine, una struttura leggera strettamente legata alla sua funzione di coprire binari e marciapiedi.

Le stazioni che cominciarono a sorgere subito dopo in tutta Italia, adottarono, in sintonia con le tendenze architettoniche dell’epoca, uno stile cinquecentesco, rivisitato verso soluzioni  funzionali, anche quando fra gli anni Sessanta e Ottanta si andranno a costruire nelle principali città le grandi stazioni monumentali, fra cui quella di Napoli Centrale, stazioni che andavano a collocarsi nei tessuti urbani, appunto, come grossi monumenti.

A Napoli fu rifatta la stazione di Bayard, in epoca ancora borbonica, appena qualche anno dopo la sua costruzione; assunse l’aspetto di un palazzotto, la stessa configurazione secondo cui, nel 1843, fu eretta la vicina stazione della linea per Caserta-Capua.

Nelle stazioni del secondo Ottocento si badava principalmente a proteggere binari e spazi “industriali” sempre più ampi, e quindi per lungo tempo si dette più importanza alle tettoie, in ferro e vetro, che ai fabbricati in muratura per i viaggiatori. Le tettoie, inoltre, erano sempre più tecnologicamente capaci di assolvere alle crescenti esigenze della loro funzione, sempre più monumentali. In genere nelle stazioni delle grandi città le tettoie erano in bella evidenza.

Le tettoie metalliche ebbero fortuna anche per altre ragioni. Consentivano ampie coperture senza creare l’intralcio di pilastri di sostegno; assicuravano circolazione d’aria in luoghi saturi di fumi di locomotive; erano luminose; erano sempre più ardite e quindi offrivano soluzioni monumentali e di richiamo propagandistico; cominciarono ad essere disegnate da architetti rinomati ed erano viste vicine a quelle che coprivano spazi pregiati, come i giardini d’inverno, esposizioni, “Gallerie” per passeggio.

A Napoli l’architetto più noto che si occupò di tettoie fu Alfredo Cottrau. La sua tettoia più importante fu quella di Napoli Centrale, cominciata a costruire nel 1870 e  demolita nel 1957. Costruì anche le coperture in ferro delle piccole stazioni delle funicolari vomeresi. 

Queste riproducevano in miniatura gli schemi delle stazioni ferroviarie: dalla piazzetta antistante si accedeva ai binari coperti da una tettoia, passando per una sala d’attesa posta allo stesso livello della strada. Poiché carrozze e binari delle funicolari erano inclinati, nelle stazioni terminali occorreva creare gradini per accedere ai treni. Ne bastavano una quindicina per stazione. Chi sa perché, rifacendo qualche decennio fa la funicolare di Chiaia, inspiegabilmente, i gradini, sia nella stazione superiore che inferiore, sono diventati inutilmente tanti, che non si riesce più nemmeno a contarli. Rischiando i femori in discesa e affannando in salita. 

(Novembre 2022)

Miti napoletani di oggi.93

“L’ARMONIA PERDUTA”

 

di Sergio Zazzera

 

Sono sempre stato convinto che Raffaele La Capria abbia costituito, già di per sé stesso, un mito e, tuttavia, poiché egli non è più fra noi, non è di questo che intendo scrivere qui; due parole, però, sulla sua concezione dell’“Armonia perduta” da Napoli vorrei dirle, a dimostrazione di quanto anche questa sua tesi costituisca un mito. Credo, infatti, che di quell’“armonia”, che egli assume “perduta” dalla città, dopo i noti avvenimenti del 1799 e a causa di essi, in realtà, la città stessa non abbia mai goduto, né prima, né dopo.


Riflettiamo un momento: a differenza di quasi tutti i centri del Nord d’Italia, i più grandi e i più piccoli, tutto il regno di Napoli non ha attraversato l’esperienza dei liberi Comuni, né quella delle Signorie, bensì si è retto, almeno fino al 1806, su un regime feudale (meglio: è stato retto da esso). Ciò significa che già le monarchie che vi hanno governato – e, sotto sotto, perfino quella Aragonese, che passa per essere stata la più illuminata – hanno favorito la formazione di un carattere antagonisticamente classista della società. Peraltro, anche quell’esperienza, essa pure fallimentare, della “Serenissima Real Repubblica” del 1647 (gli avvenimenti dei quali fu protagonista Masaniello, per intenderci) fu un’operazione orchestrata dalla classe dei togati, rispetto alla quale il popolo vascio non fu nulla più che uno spettatore.

Dunque, la rivoluzione borghese del 1799 aggiunse soltanto ll’uόglio ‘ncopp’ô peretto (come dicono a Oslo) ai più che tesi rapporti tra le classi della società napoletana, né un vero riscatto vi fu nel 1943, col pur glorioso episodio delle Quattro Giornate, quando la (cosiddetta) nobiltà napoletana si mantenne fedele al re, fuggito a Brindisi, al punto che, tre anni dopo, il risultato del Referendum costituzionale al Sud fu nettamente favorevole a lui, a differenza di quanto avvenne nell’Italia centro-settentrionale.

Attribuire, dunque, al 1799 la responsabilità della “perdita” dell’“Armonia” da parte di Napoli costituisce un errore di datazione, ovvero un falso linguaggio, ovvero un mito. C.v.d.

(Ottobre 2022)

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