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Libri da leggere

 

di Luigi Alviggi

 

 

I BATTENTI DI MADONNA DELL’ARCO

(fujenti)

di Raffaele Calafiore

 

 

Battenti sono chiamati i devoti della Madonna dell’Arco – la cui effigie (la Vergine Maria col Bambino Gesù) – è conservata nel miracoloso dipinto posto nell’omonimo Santuario sito in Sant’Anastasia (a 12 km da Napoli). Il luogo è chiamato Madonna dell’Arco perché in origine l’edicola era situata nei pressi di un antico acquedotto romano. I fedeli insieme si mettono in moto verso la chiesa in file interminabili, o meglio corrono verso di essa, compiendo un impressionante cammino devoto, simbolo di fede e penitenza, iniziato nel lontano 1450 in ogni Lunedì in Albis (giorno festivo dopo la Pasqua Cattolica), e mai interrotto da allora. Lungo il percorso si percuotono braccia, petto e gambe oltre a sdraiarsi in terra a faccia in giù quando il corteo è obbligato a fermarsi. Tale tradizione nasce in ambito familiare, ed è qui che viene tramandata da una generazione alla successiva, per il culto costante di questa veneratissima Madonna. Afferma Padre Gianpaolo O.P., attuale Rettore del Santuario:

 

A questa festa partecipa la stessa povera gente che si reca in molte altre feste ma­riane del meridione ma qui si riscontra una diversità e una unicità sostanziale. Entrando in profondità in questa cultura dei poveri, attraverso la diretta conoscenza dei comportamenti popolari e finanche dei suoi presupposti magico-religiosi, si osservano tre elementi in successione che caratterizzano il pellegrinaggio dei battenti e che ne istituzionalizzano il culto: la questua, le funzioni (atti devozionali codificati che le «paranze» compiono, accompagnate da bande musicali, presso le edicole della Madonna situate lungo le strade dei loro quartieri), e la corsa. Elementi che vengono caricati da un forte valore simbolico e che, aggiunti al malessere perso­nale e alle frustrazioni sociali che gravano sui pellegrini, nel momento in cui essi varcano il portone del Santuario spesso sfociano in fenomeni psicotici di trance e perfino di isteria personale o collettiva.”

 

Dalla prefazione di Gianfranco Rosi, scrittore e regista, leggiamo:

 

“La tortuosa e quasi interminabile processione sembrava letteralmente collegare il santuario e il vulcano, unendo il geologico e il liturgico. Stando dietro l'altare e guardando attraverso la macchina fotografica i pellegrini che entravano in chiesa, scivolando sul pavimento scintillante della navata, poi sollevandosi sulla balaustra come i naufraghi salvati dall'annegamento, singhiozzando, tremando, con i volti inondati di lacrime, mi sono reso conto che stavano fissando una vasta realtà invisibile che non potevo vedere. Ciò che riuscivo a cogliere nei loro occhi e nei loro volti era come la radiosità di un fuoco nascosto e una misteriosa compressione del presente e del pas­sato remoto.

Più che un altro rituale, mi è sembrato la nascita del rituale stesso, qualcosa che proviene dalle profondità del tempo, eppure con i tratti inconfondibili della contemporaneità, le tute bianche, i tatuaggi, le unghie a pressione, l'antico fervore religioso e la cultura pop, inestricabilmente uniti.”

 

E l’Autore, nella sua nota introduttiva, spazia:

 

“Un rituale uguale a se stesso, tramandato nei secoli, fatto di fede e penitenza che trova il suo apice nell'ultimo tragitto, lungo la navata centrale della chiesa fino all'altare, dove la condivisione della fede e della fatica comune del pellegrinaggio, lascia il posto ad un intimo dialogo tra il fedele e la sua "Mamma Santissima".

Con estremo pudore, ho provato a raccogliere negli anni, quel clima di festa e di condivisione che si sviluppa lungo il percorso, arricchito delle funzioni che prendono forma secondo un rituale antico, dinanzi alle edicole votive dedicate alla Madonna e dislocate lungo il tragitto del pellegrinaggio.

Ed alla stessa maniera, in un silenzio pregno di tensioni ed emozioni, provare a documentare l'intimo incontro del fedele con il sacro.”

 

Per i “battenti” viene usato anche il termine “fujenti” – fuggenti, un equivalente nel dialetto del luogo – per quanti seguono questo storico rituale legato alla tradizione popolare, accostabile al “poplifugio”, una celebrazione degli antichi Romani in cui l’elemento tipico era il verificarsi di una fuga di popolo dopo aver compiuto un sacrificio sacro. Questa usanza ancor oggi è incompresa, come oscura resta quella del “regifugio”, cioè della fuga del re. Si può tentare un'interpretazione affermando che il suo compiersi aveva un carattere magico, simile ad altre cerimonie in cui la fuga rappresenta l’elemento costituente di un vero e proprio atto religioso. La reale motivazione però resta ignota.

Vestiti di bianco, con fasce rosse alla vita e azzurre a tracolla, preceduti da bandiere e stendardi con l’immagine della Vergine, arrivano a piedi scalzi alla Chiesa anche dopo ore di cammino. Nelle soste imposte molti si stendono a terra con il volto sul suolo. Il percorso termina nella navata della Chiesa dove si assiste alla funzione sacra. Molti ne rimangono fuori per la capienza. Scalzi per voto, devono sempre compiere almeno l’ultimo tratto del pellegrinaggio, di corsa. In Italia esistono altri gruppi di fujenti, il cui comune elemento è effettuare una corsa in genere durante le feste patronali. Il fenomeno è diffuso anche in manifestazioni sacre al di fuori dell’Italia.

Il pellegrinaggio, sin dai vicoli di Napoli e dall’entroterra vesuviano, ripete un rituale che la storia assicura essere del tutto simile a quello di quasi sei secoli fa. Un evento unico per fede, drammaticità, folklore e partecipazione, la cui tradizione viene trasmessa di padre in figlio! La preparazione dei “fujenti” incomincia qualche settimana prima del gran giorno con intensi allenamenti. Molte cose da provare e riprovare: per prima la “caduta”, l’abito, la questua fatta la domenica mattina in giro con canti e la Madonna in processione per la città. Il crollo a terra dei partecipanti richiama cineoperatori da ogni parte, e avviene in un clima di eccitazione che può esplodere in casi inspiegabili di epilessia o peggio. Rappresenta il punto cruciale nella venerazione del “fujente”, e avviene quando il capo paranza impartisce l’ordine col fischietto: il soggetto si lancia faccia a terra e vi rimane, rigido e immobile, fin quando non suona il comando di rialzarsi. Nel santuario più frequentato della Campania, dopo Pompei, i frati domenicani sono preparati a fronteggiare l’emergenza e, nel giorno in questione, allestiscono un vero e proprio ospedale da campo in sagrestia che a malapena riesce a fronteggiare le drammatiche situazioni che sempre si verificano.

Racconta la leggenda sul Sacro Quadro che, durante una festa in paese, due giovani giocavano a chi faceva andare più lontana una palla di legno colpendola con un bastone. Nel gioco, il colpo di uno dei due centrò il tronco di un albero vicino a una nicchia votiva. Il giocatore, bestemmiando per l’ira, scagliò la boccia contro la Madonna, colpendola alla guancia e questa iniziò a sanguinare. La gente si gettò sul sacrilego per linciarlo, ma proprio allora si trovò a passare un Sovrintendente del Regno che ordinò ai soldati di bloccare lo scontro. Constatato poi il miracolo avvenuto, dopo un sommario processo, egli diede l’ordine di impiccare il giovane allo stesso albero che aveva deviato la boccia. Il giorno successivo l’albero era seccato. Il quadro mantiene traccia sulla guancia sinistra della Vergine del colpo ricevuto.

Il Santuario, costruito verso la fine del XVI secolo alle falde del Vesuvio, è rimasto uguale alle vecchie stampe dell’epoca. Solo nel 1948, per facilitare il deflusso dei fedeli, furono aggiunte due navate laterali. L’esterno colpisce per il gioco del grigio della pietra vesuviana e del bianco delle pareti. All’interno spiccano i pannelli coperti con oltre quattromila ex voto: quadretti di legno dipinto che descrivono i miracoli avvenuti, con infermi e parenti a implorare la grazia.

Nel 1592 papa Clemente VIII  inviò da  Roma  padre  Giovanni Leonardi (poi proclamato santo) a cui fu dato l'incarico, insieme con il Vescovo di Nola,  di amministrare elemosine e beni temporali ricevuti dal tempio. Posta la prima pietra del Santuario nel 1593, esso fu terminato nel 1610. Nel 1595 passò alla cura dei domenicani che iniziarono lavori di ampliamento. In seguito però a crolli e disguidi con il Reale Albergo dei Poveri (che possedeva ancora una parte del convento) la Chiesa avrebbe assunto la forma attuale solo nel 1973. Il complesso è oggi composto dal Santuario e dall’edificio conventuale. Un tempio a croce latina e navata unica con quattro cappelle per lato, termina dietro con l’abside semicircolare. Al centro della crociera, sotto la cupola, si trova l’edicola che ospita l’effigie della Madonna col Bambin Gesù sul braccio sinistro. Di fianco alla chiesa, sul versante occidentale, c’è il campanile. Il Santuario è tappezzato da ex voto, espressioni di arte popolare che ben rappresentano quasi sei secoli di terribili condizioni di vita del popolo campano. Verso la fine degli anni 80 del secolo scorso Il rettore del Santuario, frate Tommaso Tarantino, ebbe a dire durante un’omelia, volendo spiegare la plurisecolare fede dei “battenti” presenza costante seppure informale nella struttura sacra:

 

“Qui si viene per lanciare un urlo! Qui si viene per gridare! Qui si viene per far esplodere finalmente dal cuore il grido della povera vita umana stritolata ogni giorno. La Madonna dell’Arco è il luogo dove la vita umana porta all’aperto le sue malattie, i suoi dolori, le sue angosce, i suoi terrori. Qui l’urlo di dolore dell’umanità si materializza e si concretizza. Ecco: diventa pietra, diventa tavoletta, rito, manifestazione pubblica, diventa testimonianza nei secoli. Ecco cos’è la Madonna dell’Arco! La concretizzazione, la pietrificazione del dolore umano che viene qui per rovesciarsi, come lava incandescente ai piedi della Vergine. Così nasce questo Santuario! Per testimoniare cosa sia la vita umana! Questo Santuario siamo noi, con i nostri guai, con le nostre sventure, con i nostri mali, che stiamo a bocca e braccia spalancate verso di Lei. Tutta la sofferenza umana Lei la redime, la libera e la sublima. A Lei si rivolgono milioni di occhi da tutto il mondo e La invocano Regina dell’Arco. Lei prende tutto ciò che è umano e lo aggancia a Dio. In Maria ciò che è la miseria dell’uomo diventa misericordia di Dio; ciò che è incapacità dell’uomo diventa onnipotenza di Dio. Lei prende l’uomo così poveretto com’è e lo fa diventare figlio di Dio…”

 

Raffaele Calafiore vive a Napoli. È poeta, editore, scrittore e fotografo di valore: di tutte queste attività ha dato testimonianze ripetute di diffuso successo. Questo lavoro – un libro di grande formato: 19,2 x 29,0 cm – presenta una straordinaria serie di fotografie, caratterizzate da grande potenza espressiva e da un’indagine accurata dell’evento sotto ogni aspetto, articolata in tre parti: il Percorso, le Funzioni, l’Incontro. Possente la serie (in bianco/nero e a colori) ed esauriente nell’evidenziare minimi dettagli e particolari della complessa attività messa in atto. Vengono immortalate le fasi di questo cammino di riscatto plurisecolare: i quadri testimoniano in modo eccellente (come già fatto in altre sue opere) l’espressione della tradizione che, pur nella sua linearità esecutiva, è un evento maggiore in termini di venerazione della creatura umana verso l’Ente Supremo che tutto regge.

I primi piani dei partecipanti e dell’insieme in movimento ci fanno comprendere, anche meglio di una presenza diretta, la commozione e il piacere di far parte di una manifestazione partecipata nel profondo da devozione e amore verso la Sacra Famiglia. Vengono immortalati momenti di commozione, singola e collettiva, e il consolidarsi di quei sentimenti di fede e rispetto assoluti verso chi dall’Alto assiste ogni nostro passo. Noi lettori restiamo immersi in una partecipazione d’insieme che arriva a confrontarsi, il più strettamente possibile, ai tantissimi fratelli coinvolti nella Sacra Funzione. E ciò che più colpisce sono i tanti che, al sostare della processione, distesi a faccia in giù, poggiano il volto sulla strada o incollano a lungo le labbra, una volta entrati in Chiesa, sulle balaustre ivi presenti. Al fondo illumina l’apotropaica liberatoria da ogni congettura di influssi maligni che, sempre presunti, inquinano la vita di troppi di noi… Il fiume celeste, penetrando l’anima e impadronendosene, la monda da ogni ingombro malevolo!

A conclusione del testo, un’Appendice curata dall’Ufficio Battenti del Santuario Madonna dell’Arco.

 

Raffaele CALAFIORE: I BATTENTI DI MADONNA DELL’ARCO

Introduzione di Gianpaolo Pagano

Prefazione di Gianfranco Rosi

NonSoloParole Edizioni (2024) – p. 184 - € 35,00

(Febbraio 2025)

 

QUANDO LE DONNE NON SI ARRENDONO
 
 
(Giugno 2024)

Segnalibro

di Marisa Pumpo Pica

 

Rovesci di Giuseppe Farese

Absolutely Free Libri, 2024

 

 

Come il lettore avrà  potuto leggere nella nostra pagina degli Eventi, questo librosarà presentato il 24 maggio, alle ore 17,15 nella Villa Floridiana, presso il Tempietto, nell’ambito del Festival del Giallo Città di Napoli 2024. L’invito, preannunciato dall’autore, attraverso un caloroso messaggio di stima e simpatia, ci giunge particolarmente gradito.

Giuseppe Farese non è un nome nuovo nel panorama letterario della nostra città, per essere già al suo quarto libro, accompagnato, come gli altri, da vivo consenso di pubblico e di critica. Lo dimostra, del resto, la Locandina in cui egli figura tra nomi noti e prestigiosi della letteratura contemporanea e del giornalismo, napoletano e non solo, tra cui quello dello stesso Presidente della rassegna, Maurizio De Giovanni. Ma, a prescindere dai meriti, che ampiamente gli vengono riconosciuti ed evidenziabili anche attraverso la lettura di  questa sua ultima fatica, Giuseppe Farese è un nome a noi caro e  ben noto ai lettori de Il Vomerese, per essere stato, per diversi anni,  un giovane e valente collaboratore del nostro periodico, quando, in tempi non tanto lontani, ancora andavamo in stampa. Grazie alla pubblicazione degli articoli sul nostro giornale, ottenne l’ambìto “tesserino” di pubblicista. Lo riconosce egli stesso, con molto garbo ed affettuose parole di un rievocativo amarcord. Da allora, la passione per il giornalismo  e per la scrittura è rimasta sempre viva in lui, continuando ad ardere, come fuoco sotto la cenere. Infatti ha abbandonato la banca in cui lavorava, ma non  il giornalismo ed oggi cura l’ufficio stampa di una nota Compagnia  di navigazione internazionale.

Ne è passata di acqua sotto i ponti… e siamo ben lieti che non abbia dimenticato quelli che definisce “i bei tempi de Il Vomerese, lì dove tutto è iniziato.” Ma anche noi  non  abbiamo dimenticato i suoi eccellenti articoli, tra cui una brillante intervista a Roberta Capua, vomerese doc e conduttrice televisiva, né le eccellenti pagine  sul basket, che, successivamente, hanno prodotto un suo apprezzato libro, appunto sul basket, così come altri articoli, riguardanti lo sport ed il tennis, di cui si coglie l’eco in questo libro. Lo dimostra, infatti, chiaramente, come egli stesso ci spiega,  l’immagine di copertina, con quella pallina gialla da tennis, in bilico, ma pronta a rotolare, sul nastro della rete, con “sullo sfondo la collina del Vomero, sulla quale svetta la Certosa di San Martino.”  Ma  anche il titolo, Rovesci, si ispira al suo amore per il tennis, i rovesci del tennis, che poi nascondono, come apparirà dalla lettura, anche i rovesci della vita e i risvolti dell’animo umano, nelle sue pieghe più riposte. Rovesci, con i suoi tanti colpi di scena, che riservano molte sorprese, è un giallo intrigante ed appassionato in cui il Commissario Mino Gargiulo indaga sul delitto di un’anziana donna, avvenuto al Vomero. E qui, nell’intreccio tipico del noir, si riannodano anche i fili del retroterra umano e professionale dell’autore, con le  passioni mai abbandonate: il giornalismo, lo sport e, soprattutto, il Vomero, con i suoi  luoghi, nuovi e vecchi, tra cui l’antico borgo di Antignano, teatro dell’omicidio. Mino Gargiulo, però, mentre indaga sul misterioso delitto, da dirigente  del Commssariato Rione Alto  si trasforma in consumato psicologo, per cogliere, attraverso una raffinata indagine introspettiva, gli insondabili ed oscuri  abissi dell’animo umano. Ovviamente, è appena il caso di sottolinearlo, sotto le mentite spoglie di Mino Gargiulo, Giuseppe Farese cerca la verità, quella che si nasconde spesso dietro il falso apparire e tenta di capire perché, a volte, siamo, nel profondo, così diversi da come gli altri ci vedono. L’indagine poliziesca corre parallela all’indagine sul furto di anelli preziosi in una clinica privata, così come la storia del delitto si mescola e si sovrappone alle vicende quotidiane di un circolo di tennis. Due storie: l’una in primo piano, l’altra che fa da sfondo, entrambe attinte alla realtà, ma romanzate, come chiarisce l’autore stesso.  In definitiva, in questo libro, ancora più che negli altri, c’è tutto Giuseppe Farese, con le sue passioni: lo sport e il circolo di tennis, la tendenza introspettiva, che emerge dal noir, e il suo Vomero, vecchio e nuovo. Quel vecchio Vomero, con  gli antichi riti e credenze, tra cui la vestizione dei cadaveri e il miracolo di San Gennaro, avvenuto proprio nel vecchio abitato di Antignano. Ma, accanto a questo, il Vomero attuale, con i suoi usi e costumi, anche questi lenti a morire, come “l’abitudine vintage” dellacquisto mattutino del quotidiano e le quattro chiacchiere col gestore della vecchia edicola, seguite dal caffè, da gustare, pure  questo di buon mattino, presso il bar preferito, per scambiare, anche qui, qualche parola col barista e/o con l’amico, sopraggiunto per caso. Inveterate abitudini borghesi di un Vomero, che ancora veste borghese, da quartiere residenziale, per tentare di parare i colpi di una cementificazione selvaggia.

A questo punto a noi non resta che augurare ai nostri lettori di immergersi in questo intrigante noir conla stessa passione investigativa del suo autore per coglierne ulteriori significati e spunti.

L’AUTORE

Giuseppe Farese (Napoli, 1977) lavora nell’ufficio stampa di una Compagnia di navigazione internazionale. Laureato in giurisprudenza all’università di Napoli Federico II, è giornalista pubblicista dal 2013. Ha scritto di sport, politica e cultura, curando  i volumi “Identità fragile e integrazione difficile” (Rubettino, 2016) e “Cultura e spettacolo a Napoli negli anni della Giunta Valenzi (1975-1983)” (Artem, 2021). Per Absolutely Free Libri, ha esordito con “Un tempo bello”, ricordi sul Napoli basket, e ha collaborato al volume “Vince Napoli”.

(Maggio 2024)

 SEGNALIBRO

 

LIBRI

Da leggere

 

Parole. Estranee al linguaggio corrente, definite con dotta competenza dalla Treccani: ‘Ipotiposi’, ‘persiflage’, ‘metissaggio’...eccetera: incuriosiscono e sgomentano per la loro evidente ‘misteriosità’ (ma esiste misteriosità?)  Ce n’è a iosa nel dizionario Devoto & Oli, nell’ intervallo alfabetico tra la A di ‘amore’, e la Z di ‘zizzania‘. Che fare di queste astruserie lessicali? In ‘Uffa’ introducono minimi e ampi racconti, nati dopo aver premuto l’indice sull’icona della creatività.  Siffatto divertissement letterario è confluito nella fantasiosa idea di ‘Uffa’, per ribellione alla noia, alla banalità di intelletti negligenti. ‘Uffa’ è il pass per un intrigante viaggio nella fantasia, libero dalla tossica combinazione politica/corruzione, dai ‘fratelli gemelli d’Italia’ che inquinano la democrazia, dal vulnus mondiale di pupazzi mascherati da tycoons, (i Trump, Putin, Netanyau, tutti i signori delle guerre), zavorra da spedire nella Galassia più distante dalla Terra. ‘Uffa è ironia che sfiora la satira, è narrazione divertita, felicemente senza capo né coda, dall’A alla Z, o dalla Z alla A.

Alle 18 del primo febbraio, via Bernini 50, scala B (citofono Ethos Nomos), riflessioni con l’autore Luciano Scateni introdotte da Ambretta Occhiuzzi docente, Annella Prisco, scrittrice, Paolo Greco, linguista, Sergio Zazzera, scrittore. Letture a cura di Giancarlo Lobasso, conduce Laura Bufano, giornalista. Proiezione dei disegni di Luciano Scateni.

(Gennaio 2024)

 

Le donne spagnole che hanno lasciato un segno nella storia di Napoli

 

Incontro con Yvonne Carbonaro per la Giornata Mondiale del Libro

 

Martedì 23 aprile 2024 ore 17.30 Instituto Cervantes Via Chiatamone, 6G - Napoli

In occasione della Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore, l'Instituto Cervantes di Napoli organizza un incontro con la scrittrice Yvonne Carbonaro. Martedì 23 aprile alle ore 17.30 la scrittrice, saggista, giornalista e critica d'arte italo-venezualena sarà protagonista della conferenza (a ingresso gratuito fino ad esaurimento posti) dal titolo “Le donne spagnole che hanno lasciato un segno nella storia di Napoli”.

Introdotta da Ana Navarro, direttrice dell’Instituto Cervantes di Napoli, Yvonne Carbonaro parlerà di celebri donne, spagnole di nascita o di origine, che in vario modo si sono inserite nel mondo napoletano della cultura, della fede, del potere, così come narrato nel suo libro “Storia delle Donne di Napoli”, edito da Kairòs. 

Con l’ausilio di una videoproiezione che collega i personaggi ai luoghi della città che le ricordano, verranno raccontate figure femminili che si sono distinte nella storia di Napoli. Una rapida carrellata lungo la storia della città e le sue fonti documentarie per individuare, nel quadro della condizione femminile nei secoli, le personalità più significative e interessanti, fino alle donne dei nostri tempi.

Autrice di narrativa, poesia, spettacoli teatrali e ricerche storiche con particolare riguardo a Napoli e alla sua cultura, Yvonne Carbonaro è statadocente di ruolo di letteratura italiana, storia e storia dell'arte e ha collaborato con la Facoltà di Lettere dell'Università Federico II. Critico d'arte, traduttrice dallo spagnolo all'italiano e giornalista per riviste cartacee e online, ha vinto di recente il Premio intercontinentale “Le Nove Muse". Ha tradotto in italiano El Hombre Light dello psichiatra Enrique Rojas e poesie di autori venezuelani. In lingua spagnola ha scritto il testo didattico La Historia de Jorgito per il MECD e ha pubblicato poesie e brevi testi in spagnolo per la Universidad Abierta para el Mundo - Caracas. Un suo microrrelato è stato selezionato dalla rivista cilena Brevilla.

Istituita dall’UNESCO nel 1995 e celebrata in oltre 80 paesi del mondo, la Giornata Mondiale del Libro e del Diritto d’Autore si festeggia in tutto il mondo ogni 23 aprile per commemorare tre grandi figure della letteratura universale: lo spagnolo Miguel de Cervantes, il britannico William Shakespeare ed il peruviano Inca Garcilaso de la Vega. L'idea di questa celebrazione nasce in Catalogna dove il 23 aprile, giorno di San Giorgio, una rosa viene donata per ogni libro venduto. Inizialmente istituita il 7 ottobre del 1926 per commemorare la nascita di Miguel de Cervantes, la Giornata Mondiale del Libro fu ideata da Vicent Clavel Andrés, scrittore ed editore di Valencia, che la propose alla Cámara Oficial del Libro della città e ricevette l’approvazione del Governo, con Alfonso XIII che istituì ufficialmente la “Festa del Libro Spagnolo”. Nel 1930 si decise di cambiare la data al 23 aprile, giorno della morte di Cervantes, oltre che di Shakespeare e Inca Garcilaso, tre autori che hanno oltrepassato frontiere e che sono diventati riferimenti imprescindibili della letteratura universale.

Per informazioni e contatti:

Instituto Cervantes di Napoli, tel. 08119563311, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. E' necessario abilitare JavaScript per vederlo.

(Aprile 2024)

L’ARTE DI LEGARE LE PERSONE, di Paolo Milone

 

di Luigi Alviggi

 

Si riesce a lavorare in Psichiatria solo se ci si diverte.

Io mi sono divertito per anni.

Non tutti gli anni:

non i primi – troppe illusioni,

non gli ultimi – troppi moduli,

non quelli di mezzo – troppo mestiere.

 

Il Reparto 77 è un’unità ospedaliera di Psichiatria d’Urgenza. È qui che lavora per decenni Paolo Milone (Genova, 1954), psichiatra, entrando in contatto con la parte più debole e delicata dell’umanità. Una consistente fetta che, nel silenzio generalizzato se non del corpo dello spirito, richiede massima cura nel tentativo disperato, e a volte vano, di tenderle la mano per l’indispensabile vitale soccorso. “Se tu non fossi tu, se io non fossi io”: due mondi ben distinti che devono venire a patti, interagire, ma il potere dell’uno sovrasta drammaticamente quello dell’altro, e dunque l’effetto più temibile e incombente è che il primo finisca per distruggere irrimediabilmente il secondo. Sicuramente uno dei rapporti sociali più fragili e complessi: la psichiatria, più di qualsiasi altro “mestiere”, è decisamente da sconsigliarsi alla grande maggioranza delle persone... Il titolo è una “battuta”: non si lega materialmente nessuno, piuttosto è da intendere – e questa è la vera ARTE! – sul come “legarsi” alla persona che è venuta per trovare aiuto… I letti di contenzione ci sono stati in altri tempi e luoghi!

Cento intoppi lungo la strada: da una parte il riserbo comprensibile dell’ammalato che, per motivi a volte insormontabili, soffre di un blocco comunicativo; dall’altra lo sforzo non piccolo del terapeuta per individuare la chiave che consenta di iniziare a penetrare l’universo dell’altro. Connubio non sempre possibile, ma è questo il primo passo che può condurre a una qualche riuscita.

In agguato, costante e perenne, c’è il fantasma del transfert. Quando il medico è uomo e la paziente, specie se giovane e piacente, è donna, inevitabile che tra i due inizi a strutturarsi un qualcosa che travalica il rapporto medico-paziente per accostarsi alla fisicità propria di due persone di sesso opposto. Lo stesso, ovvio, anche a sessi invertiti. È un aspetto delicato di ogni rapporto professionale ma in questo caso è certo speciale. Quando è indispensabile spalancare le porte di un’anima, il terreno diventa molto più sdrucciolevole.  A indagare il problema sono stati in molti ma non per questo il relativo approccio è divenuto più facile. Fondamentale tenerlo sotto controllo nell’interesse e per il benessere di entrambi. La responsabilità maggiore – chiaro - ricade sulle spalle dell’esperto ma, tenuto a bada, può essere un aspetto coinvolgente, e spesso opportuno, dell’efficacia del rapporto guaritore-ammalato. L’argomento, inevitabile nell’esperienza prolungata di qualsiasi terapeuta, viene toccato più volte in questo “diario”, additandone vari aspetti e dissociando con perizia pericolosi sentimenti transitori da benefici concreti per il malato. Qualcosa di simile si verifica nell’Autore con l’affetto che gira a mezzo tra istinto paterno e impulsi maschili verso Lucrezia, una bella ventenne che arriva in reparto con piccoli tagli recenti oltre a numerose cicatrici di vecchia data. Milone lo descrive con una cura più estesa, forse proprio perché dimostra come anche l’attenzione maggiore a volte non assicuri il successo del percorso compiuto:   

 

Ti siedi e il tuo corpo si siede con te.

E sta assiso in mezzo alla stanza,

in impaziente attesa che noi finiamo le parole.

Senza fartene accorgere, tu tieni il tuo corpo il più possibile

lontano da me: che non mi distragga.

Anch’io sento il mio corpo. Si agita.

Continuiamo a parlare indifferenti,

come se il tuo corpo e il mio non esistessero.

Ma il tuo corpo è una cavalla bianca in mezzo alla stanza,

e il mio è un cavallo nero.

Noli me tangere. Ma i cavalli non sanno il latino.

 

Dobbiamo riconoscere fluttuante il confine tra pazzia e trascendenza. Questa constatazione nasce - nelle tante succinte descrizioni di pazienti che affollano le pagine del libro - dal rilevare come lo sguardo guaritore del medico si debba allargare da parole o atteggiamenti del soggetto in esame, anche fugaci, alle radici primarie dell’individuo di fronte. Molti gli esempi. Il fulcro nasce dall’indispensabilità di immergersi negli abissi dell’animo, fino al suo consistente fondo. Chi indaga in tal senso, è costretto a perfezionare al massimo la metodologia per percepire, anche solo per sommi capi, quanto si cela sotto la superficie, quasi sempre all’apparenza placida e quieta.

 

Beati gli psicoanalisti che stanno celati alle spalle.

Possono arrossire, piangere, sbadigliare,

e se vogliono, anche dormire.

Noi combattiamo in piena luce.

Se rinasco, faccio lo psicoanalista.

 

A lungo andare l’esperienza di uno psichiatra - quando descritta nella profondità di una professione quarantennale come avviene in questo caso - fa comprendere che la sensibilità esterna resta variata per l’effetto di trovarsi a contatto con singole realtà di migliaia di pazienti, talune certo stravolte ma altre buone a trovare echi ignoti in eventi ordinari. Per esempio, il diverso sguardo verso il perenne movimento del mare, il constatare in esso una capacità distensiva del tutto spontanea, capace di far impallidire anche la terapia più valida del miglior medico:

 

Che maestro!

In confronto al mare, noi psichiatri siamo nulla,

siamo la pozzetta d’acqua nel palmo della mano

usata per spegnere un incendio.

 

Milone ci parla anche degli aspetti difficili, dei problemi irrisolti che rimangono punti interrogativi fissi – i più indelebili nella mente –, delle cose che, nonostante i ripetuti colloqui, non si riesce a chiarire a causa di impuntature improvvise su cui la situazione si blocca per non più risolversi. E - più gravi e dolenti di tutti – i suicidi imprevisti e inspiegabili come quello della paziente che, appena entrata in reparto, si butta giù dalla prima finestra aperta incontrata lungo il cammino. Molti i casi possibili in una lunga carriera. Sono questi i punti fermi che restano più complessi e dolorosi nei ricordi di un accordatore mentale. È là che il terapeuta deve registrare, suo malgrado, la completa disfatta senza che, a volte, ci sia stata per lui alcuna possibilità di combattere. Le ferite permanenti di una professione complicata ove è molto difficile portare a segno una piena vittoria sulle forze disorganizzate ma tenaci del disagio mentale. Contro di esse il medico scrupoloso sta sempre in guardia per uscire dal confronto con il minor danno reciproco possibile ma anche per conservare al meglio quanto ancora intatto del proprio benessere psichico.

 

C’è chi ritiene che il ricovero in Psichiatria sia la cosa più brutta al mondo.

Talvolta la vita è ancora più brutta.

Gli animali feriti si nascondono in una tana e si leccano le ferite.

Psichiatria è una tana.

 

Compito del terapeuta è

scendere ogni giorno all’inferno

per aiutare chi ci vive.

                                                                                             

Paolo MILONE: L’arte di legare le persone

Einaudi, 2021 – pp. 196 - € 18,50

(Marzo 2021)

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