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Un agosto di tanti anni fa

 

di Luigi Rezzuti

 

Era l’agosto del 1960, in discoteca si ballava e ovunque imperversavan Peppino di Capri e Fred Bongusto.

Con un gruppetto di amici eravamo in vacanza ad Ischia che, per noi, a quei tempi, era il “divertimentificio”.

In un lido balneare vicino al nostro c’era un altro gruppo di ragazze, che conoscevamo.

Una sera decidemmo di andare tutti insieme a ballare al Castello Aragonese.

Gli amici invitarono due ragazze che stavano nella loro pensione e frequentavano lo stesso lido balneare.

Tra balli, barzellette e bevute, tracorremmo una bellissima serata, con ragazze, mai viste prima, con le quali, però, sembrava ci conoscessimo da una vita.

Rientrammo che era quasi mattina, due chiacchiere per salutarci e poi, senza accorgermene, alla fine, io e una delle due ragazze, Paola, restammo davanti all’auto parcheggiata.

Fino a quel momento avevo ballato con lei, ma non l’avevo osservata a fondo: era decisamente una bella ragazza: abbastanza alta, non magra, molto allegra e socievole e con quell’accento emiliano che mi faceva impazzire.

Aveva un paio di anni più di me, ma questo non era un problema, dimostravo più della mia età.

Tra le tante chiacchiere venne fuori che stavo aspettando di partire per militare: ero stato accettato come ausiliario di polizia.

“Ma dai, sai che io sto per diventare una poliziotta?” disse Paola.

In effetti era una notizia dei mesi precedenti che in polizia erano state ammesse, per la prima volta, le donne come agenti.

Lei aveva vinto il concorso e aspettava la chiamata in servizio.

“Non ci credo – rispose – ci chiamiamo allo stesso modo, Paolo e Paola e siamo entrambi praticamente poliziotti. Il destino voleva che ci incontrassimo”

Iniziammo a passeggiare senza far caso dove andare, discorrendo ininterrottamente di tutto e di più, ormai fuori dalla cognizione del tempo, finché ci fermammo a sedere su di una panchina, nella veranda semibuia di un bar, ormai chiuso, data l’ora.

Si era instaurata una certa complicità e ci “confessammo”… Io le raccontai di non aver mai avuto un vero amore, mentre lei disse che aveva avuto un ragazzo per diverso tempo, ma poi si erano lasciati.

Nel silenzio della notte i nostri sguardi si incrociarono con una luce diversa, intima.

“Ho bisogno di darti un bacio” le dissi.

“Accomodati” rispose lei, con un sorriso.

Le bocche si unirono, le sue labbra erano calde e morbide.

Poi ci guardammo negli occhi, ma gli sguardi erano annebbiati.

In un attimo fummo di nuovo avvinghiati “Certo qui non è molto romantico”, osservò lei.

“Andiamo in spiaggia – dissi io – ci sono lettini e ombrelloni per non essere visti”.

Attraversammo la strada con passo spedito, tenendoci per mano, come due fidanzatini.

La prima sdraio, fuori dai fasci di luce dei lampioni, fu nostra.

Seduti, stretti stretti, riprendemmo da dove avevamo lasciato poco prima, avvinghiati, l’uno nelle braccia dell’altra.

Ormai eravamo completamente in trance. Adesso lo spettacolo era completo. La luna  e i riverberi dei lampioni ci illuminavano quanto bastava per vederci meglio.

Era sdraiata sul lettino ed io inginocchiato da un lato, accanto a lei.

Non so quanto siamo stati in quella posizione a baciarci.

Ogni tanto mi fermavo per prendere fiato e ammirarla, incrociando il suo sguardo.

Credo proprio che sia trascorso un bel po' di tempo. Infatti albeggiava. Ci alzammo e andammo a cercare un bar per fare colazione.

Inutile dire quale fu il resto della vacanza.

(Febbraio 2022)

MI SENTO OSSERVATO

 

di Luigi Rezzuti

 

E’ sabato pomeriggio, la prossima settimana è l’Epifania, devo comprare ancora tanti regali: per mia moglie, i figli, i parenti, gli amici.

Sono in giro da questa mattina, adesso sono venuto in un grande Centro Commerciale, sperando di poter trovare qualche spunto, delle idee.

Ma cosa c’è ancora di originale oggi? Di fantasioso, di gradito?

Io ne ho già le scatole piene di questa Epifania, se non fosse per i figli.

Ovunque, ancora, le solite luci natalizie, i soliti addobbi, le canzoncine a tema, quel clima di falsa pace ed amicizia. Il solito rito che si ripete ogni anno, sempre uguale e sempre più noioso.

Ho già fatto due volte il giro di tutto il Centro commerciale, ho già visto le vetrine, adesso devo concentrarmi, devo darmi una mossa.

A Matteo comprerò un trenino della Lego, a Giorgia una trousse con i primi trucchi da bambina e a mia moglie una collanina e un braccialetto Pandora.

Entro ed esco dai negozi e mi sento osservato, sarà per il mio modo di fare, non certo in sintonia col clima di festa.

C’è una donna che mi guarda e mi segue a distanza, o forse mi sbaglio.

Provo a fermarmi davanti a una vetrina per vedere cosa succede, si è fermata anche lei, dall’altra parte del corridoio.

Non può essere un caso, vado avanti ancora un po' e poi entro in un negozio di scarpe, non devo comprare nulla, ma sono curioso di capire cosa farà.

E’ entrata anche lei, faccio finta di niente e mi aggiro tra gli scaffali, senza guardarla.

In realtà fisso lo specchio sulla parete che riflette l’intera immagine del negozio per spiare lei cosa fa e come è.

E’ una bella donna, alta, mora, elegante, finge di osservare un paio di scarpe, ma poi alza gli occhi verso lo specchio.

I nostri sguardi s’incrociano per un attimo, lei sorride, mi domando: perché mi sta seguendo? Chi è? Cosa vuole?

Esco dal negozio di scarpe e, pochi metri più avanti, entro in un altro, specializzato in lingerie da donna.

Mi metto a cercare un completino carino, oppure un body, per mia moglie.

Ne scelgo uno, mi volto e lei è lì, sta parlando con una commessa.

Non sento cosa sta dicendo ma è sorridente, gioviale, seducente nel modo di parlare, di gesticolare.

Forse è una mia suggestione, magari non è vero che sta seguendo me, la cerco distrattamente con gli occhi, non la vedo.

Se ne sarà andata, penso, era tutta una mia fantasia.

Consegno il completino alla commessa, che lo mette in una busta e mi accompagna alla cassa.

La donna è ancora in giro nel negozio, vado alla cassa per pagare, tiro fuori la carta di credito e sento che lei è dietro di me, anche lei in coda per pagare.

Non mi giro ma sento il suo profumo, un profumo francese, ne sono sicuro, mi piace molto.

Ritiro lo scontrino e, allontanandomi, sono costretto a passare al suo fianco.

Questa volta i nostri sguardi si incrociano più a lungo, mi sento fulminato dai suoi occhi, ma non abbasso i miei.

E’ stato uno sguardo penetrante, non mi sono mai sentito guardato in questo modo, mi volto per vedere se mi segue ancora. Sta uscendo adesso dal negozio, con un pacchetto tra le mani, magari è il regalo per suo marito o per l’amante, immagino.

Figurarsi se una bella donna non ha un uomo a cui fare un regalo!

Intanto, però, mi vede e si dirige lentamente verso di me. E adesso che faccio? - mi chiedo - sono con i regali per la mia famiglia, in un centro commerciale, tra un po' devo tornare a casa. Cosa mi invento?

Entro nella toilette, c’è un vecchio che si sta asciugando le mani.

Esco dal bagno, è fuori ad aspettarmi, mi guarda e non dice niente, neanche una parola.

La guardo e le chiedo: “Per caso ci conosciamo? Siamo stati fidanzati, da ragazzi? Siamo lontani parenti?”

Mi guarda, non parla e, sorridendo, mi dice: “Buon Anno.” E se ne va…

(Gennaio 2022)

I cannibali del sentimento

 

di Alfredo Imperatore

 

Antonio Pietraverde adorava l’onestà al di sopra d’ogni cosa. Riteneva la sua vita una missione e la compiva con apostolico fervore.

Conosceva la cattiveria, ma non l’ammetteva, sapeva del tradimento, ma lo detestava; il denaro lo considerava nei limiti delle necessità della vita, per cui aborriva gli avari.

La sua psicologia strana, tipica e fortunata, lo induceva a gioire dei successi altrui e a soffrire per i bisogni degli uomini. Non concepiva l’invidia; l’umanità la racchiudeva nella seguente proposizione: far bene a tutti.

Del resto, egli affermava, “a che vale avere dei nemici, quando la preoccupazione costante del giorno è quella di fare del bene?” Inoltre sentenziava: “Se uno non desse retta ai propri nemici, questi cesserebbero di essere tali.”

La neve lo inebriava per il suo candore, ma, nello stesso tempo, si rattristava al cospetto dei ragazzi infreddoliti e, a volte, senza scarpe.

Tra i fiori adorava soprattutto le mammole, perché piccole e fragili come i bimbi poveri.

                                                       ***

Antonio Pietraverde, alto e robusto, a cinquant’anni aveva ancora un viso fresco e roseo, con due occhi neri, dai quali s’irradiavano vivacità ed esuberanza. Nessuno, neanche il peggiore dei perfidi, gli avrebbe attribuito della malvagità.

Inoltre era solito dire che Dio, volendo punire l’uomo per il Peccato originale in modo implacabile, avesse creato la gelosia, dalla quale, nessun essere vivente, in misura più o meno grave, era scevro. Nemmeno le bestie, sentenziava.

Aveva sempre detto che non poteva considerarsi direttamente responsabile della colpa di Adamo, tuttavia voleva evitare il matrimonio per scansare se stesso ed evitare di incappare nell’implacabile punizione.

Per tale ragione a cinquant’anni era ancora scapolo.

Finché, un giorno, una bella, giovane fanciulla, di nome Carolina, ricca, sprezzante e meticolosa nella scelta del suo uomo, fu affascinata da quella mistica, raffinata bellezza, e s’innamorò di lui, divenendo docile e affidabile.

Anche lui non poté sottrarsi alle branche di quella tenaglia infuocata che è la passione amorosa, improvvisa e violenta, comunemente chiamata “cotta”, per cui decisero di convolare a nozze.

Vivevano felici ed ebbero quattro figli.

                                                        ***

Antonio, anche perché indotto dalla giovane e ambiziosa moglie, senza che ne avesse avuto la pretesa, si presentò alle elezioni, e fu eletto Sindaco al primo scrutinio.

Man mano, entrò sempre più nel personaggio di Capo del Paese, si convinse che questo era il mezzo migliore per fare del bene e operò sempre in tal senso. Talché, al tramonto, il pastore in coda al suo gregge, ritornando dal pascolo, si scopriva il capo nel passare dinanzi a lui, così come facevano anche gli uomini più importanti del luogo, salutandolo per primi.

                                                      ***

Un brutto giorno, in quel piccolo paese, giunse un giovane maestro, di nome Armando, di aspetto sgradevole, tarchiato e con il naso schiacciato come quello di un pugile. Era, però, molto colto e, oltre a conoscere bene la sua materia, s’intendeva di arte, di letteratura e di politica.

Aveva sperato di ottenere la nomina a Presidente della Congregazione di Carità, ma, non essendo riuscito nell’intento, perdette la misura nel disseminare discordie.

La cattiveria del suo carattere, tenuta fino ad allora in sordina, incominciò a dar luogo ad eventi perversi. Appena se ne presentava l’occasione, sparlava di ogni persona e finanche della grazia e delle movenze della signora Pietraverde, insinuando una certa incompatibilità tra lei, giovanissima, e suo marito, piuttosto anziano.

A volte, Armando, approfittando delle assenze del marito, perché trattenuto in Municipio, si recava dalla signora Carolina, con la scusa di parlare di politica, o di illustrarle qualcosa sulla storia dell’arte e si tratteneva per qualche ora.

In seguito le visite divennero sempre più abituali e gradite, per cui fu quasi inevitabile che tra loro nascesse una simpatia che, man mano, sfociò in un sentimento più forte.

Incominciarono a frequentarsi a orari fissi, proprio quando erano sicuri di non poter essere visti da nessuno; e così, la tresca divenne consuetudine.

Un giorno, il signor Sindaco, ebbe un invito a conferire col Prefetto con una certa urgenza, su questioni annonarie, per cui lasciò l’ufficio prima del solito, per recarsi a casa. Appena giunto, impallidì quando vide la giovane moglie che, cercando di nascondere un biglietto, sbiancò anche lei.

Colto da improvviso sospetto, per una misteriosa previsione di un atto immorale, egli, che non aveva avuto mai uno scatto, con un tono che non ammetteva repliche, impose alla moglie di consegnargli subito il foglietto e, alla sua indecisione, glielo strappò da mano: lo lesse.

A cinquant’anni, Antonio Pietraverde, morì di crepacuore; di sincope, fu scritto sul certificato d’inumazione del medico.

Di gelosia, avrebbe detto lui, dal catafalco, se avesse potuto…

(Dicembre 2021)

IL PASSAGGIO SEGRETO

 

di Luigi Rezzuti

 

E se dietro la libreria di casa dei nonni si nascondesse un passaggio segreto?

Non è l’incipit di una storia di fantasia, ma l’incredibile avventura, vissuta da un giovane. Ed era stato proprio lui a porsi la domanda.

Il giovane studiò, visitò e consultò con attenzione la planimetria della casa dei nonni, risalente al 1800.

Notò la presenza di una porta che, in realtà, corrispondeva alla posizione della biblioteca. Infatti, guardando bene nella libreria, dietro uno dei libri, trovò un pulsante e, premendolo, scoprì l’accesso ad una stanza nascosta.

Tutto era cominciato in quel momento, quando il giovane aveva iniziato a rimuovere i libri dagli scaffali, quindi aveva proceduto svitando con cura le viti sul pannello frontale, di legno.

Dopo aver sollevato il pannello della libreria, rimase letteralmente scioccato nel trovare una stanza buia e vuota, proprio dietro il mobile.

Ma la sorpresa non finì lì, perché il giovane notò sul pavimento un altro pannello e, sollevando anche questo, si aprì un altro passaggio segreto, che conduceva ad alcune stanze sotterranee, con una scala che portava in un’altra stanza superiore, più grande e piena di ragnatele, polvere e persino nidi di vespe.

Le stanze erano piene di passaggi, tunnel, che, uno dietro l’altro, si diramavano tutto intorno alla casa dei nonni.

L’ipotesi del giovane fu che quei passaggi fossero usati dai domestici per muoversi indisturbati, senza che i padroni di casa se ne accorgessero.

Tra tunnel, cunicoli, muri di mattoni e incisioni misteriose, il giovane scovò anche una vecchia cassaforte: una volta aperta, vi trovò un tesoro prezioso.

Oltre ad alcuni libri, risalenti al 1848, e lettere scritte a mano, c’erano anche anelli, collane e bracciali d’oro.

Il giovane non credeva ai propri occhi. Tutti quei gioielli valevano un’enorme fortuna.

Li raccolse e li consegnò ai suoi genitori, ma volle lasciare, per sempre, le stanze così come erano. Gli piaceva l’idea che rimanessero le stesse di centinaia di anni prima perché, giustamente, c’era tanta storia in ogni stanza.

(Dicembre 2021)

DONNA LUCIA

 

di Luigi Rezzuti

 

La vita scorreva lenta nel piccolo borgo di Casalvelino, in provincia di Salerno.

Era appena l’alba e un pallido sole accompagnava donna Lucia dalla sua casetta, ubicata nell’altra parte del paese, al vicino cimitero.

Erano le cinque del mattino, una fresca brezza di mare le accarezzava i capelli.

Sentiva il corpo affaticato, le gambe pesanti, il cuore stanco. Una vita sofferta alle spalle.

Ancora, come chiodo nella testa, le urla del marito e nel corpo le botte subite, le violenze carnali, protrattesi fino alla separazione, avvenuta due anni prima.

Le figlie l’avevano trascinata dal giudice contro la sua volontà, l’avevano spinta a sporgere denuncia contro quell’ubriacone del padre, che si era allontanato dal paese.

E quando stava tirando un sospiro di sollievo, un male incurabile le aveva portato via la più giovane delle figlie, dopo un anno di cure e dolori strazianti.

Donna Lucia ricorda il tormento: la diagnosi, la prognosi infausta, l’assenza di speranza di vita, il cuore in frantumi, il senso di impotenza di fronte al male che faceva scempio del giovane corpo.

Le era stara vicina, nemmeno un attimo si era allontanata da quel maledetto ospedale, nel reparto di ematologia.

Aveva visto tanti giovani e bambini morire in quell’anno e il suo cuore non reggeva davanti alla virulenza del male.

Un anno di buio totale, nemmeno confortato dalla fede: Dio non era stato clemente con lei, fin dall’infanzia.

Figlia di una famiglia di pescatori, aveva perso i genitori in mare in tenera età ed era stata adottata dalla famiglia degli zii paterni.

Ora, tutte le mattine si alzava alle prime luci dell’alba, per recarsi al cimitero, a salutare la sua “bimba”, come lei la chiamava.

Camminava a passi lenti e non faceva nemmeno più caso alla bellezza del suo paesino e non avvertiva il sole che si levava all’orizzonte.

Dopo la visita al cimitero, tornava a casa per le faccende domestiche.

Quella mattina sentì uno strano richiamo. In lontananza il profumo del mare: lo seguì ad occhi chiusi, sentì il cuore sobbalzare d’un tratto, accelerò il passo, la stanchezza si sciolse, camminò sempre più svelta, superò il porticciolo, alzò gli occhi a guardare il paese in festa per il patrono.

Si ricordò dei sapori antichi, dei piatti tipici del paese, sentì venirle alla gola qualche frammento dei pochi piaceri vissuti da piccola, prima della morte dei genitori.

Due lacrime le rigarono il volto, camminò ancora più svelta e d’un tratto vide il sole, alto nel cielo, che illuminava la distesa marina.

Si tolse le scarpe e si bagnò nell’acqua fredda del mattino: erano le otto di un anno lontano…

Si rivide piccola, vide sua madre chinarsi su di lei mentre le baciava la fronte. Le sembrò un sogno, si stropicciò gli occhi, ma la percezione permaneva vivida, stampata nella memoria.

“Allora non tutto muore di noi – pensò – finché ne conserviamo il ricordo”.

Si ricordò del mare che l’aveva accolta fin dai primi anni di vita, si sentì serena e così abbandonata si spogliò e si lasciò cullare dalle acque.

Non sentiva freddo, anzi, un calore attraversò il suo corpo, avvertì un sentimento di rinascita e rimase in ascolto del rumore del mare, le cui onde lentamente si infrangevano sulla battigia.

Era sola, ma provava una strana gioia dentro, come se il mondo fosse popolato di figure amiche, pronte a farle compagnia.

Il ricordo era vago, eppure presente. Si sentì per la prima volta al centro del mondo.

Era un senso di riscatto, accompagnato dal desiderio prepotente di tornare a vivere.

Si specchiò nell’acqua illuminata dal sole e vide la sua figura, esile e ancora gradevole. Aveva appena 40 anni.

D’un tratto avvertì alle sue spalle una presenza umana, quella di un uomo che l’osservava in disparte, mentre si nascondeva dietro un giornale.

Intravide i suoi occhi neri, i capelli castani e sentì il cuore in tumulto.

Restò nell’acqua immergendo anche la testa, mentre le lacrime le bagnavano il viso, ma erano lacrime di gioia.

L’uomo continuava ad osservarla, non distoglieva lo sguardo da lei, poi mise da parte il giornale, le si avvicinò e le sorrise.

Avvertì una strana sensazione dentro, come un gusto antico di vita, che riaffiorava prepotente.

Egli la strinse a sé forte e, così abbracciati, andarono verso il piccolo bar, poco distante.

Mentre erano seduti l’uno di fronte all’altra, arrivò il profumo del mare con il rumore delle onde. In lontananza le campane suonavano a festa ed essi brindarono al loro indimenticabile, primo amore.

(Ottobre 2021)

Luigi si comprò un nemico

 

di Alfredo Imperatore

 

La storia si svolge a Giugliano, in Campania, negli anni trenta del ventesimo secolo.

Il bullismo è stato ed è tuttora sempre presente tra gli operai, in un cantiere, tra i vari impiegati di un ufficio, ma specialmente a scuola fra gli alunni.

Sono generalmente i ripetenti, perché più grandi, a fare gli spavaldi e a “sfottere” i più gracili e i più sgobboni tra i compagni di classe.

La storia che andiamo a raccontare riguarda, però, un ufficio municipale, ove Luigi era impiegato. Tra essi vi era un dipendente grande e grosso che, come tutti i bulli, aveva preso di mira un impiegato di nome Giovanni, docile e mingherlino; il suo nome era Antonio, ma tutti lo chiamavano Totonno.

Non mancava occasione per prendere in giro il gracile collega, a volte dandogli anche qualche scappellotto sulla testa.

Al mattino, nella cosiddetta pausa caffè, se Giovanni si faceva portare, dal ragazzo del bar, un cornetto e un cappuccino, Totonno si divertiva, passandogli dietro le spalle, quatto quatto, a inzuppare la sua brioche nel caffellatte della sua vittima.

Protraendosi queste burle quasi quotidianamente, un mattino Luigi vide Giovanni rosso in volto e con gli occhi lucidi, in seguito all’ennesimo sopruso subìto; gli si avvicinò e gli disse: <Se mi dai mille lire, la prossima volta che Totonno ti sfotte, lo piglio a schiaffi>.

Quasi incredulo, Giovanni gli rispose: <Stamattina non ho le mille lire ma, se sei sincero, domani ti porto i soldi e poi vediamo>.

Il giorno seguente, manco a farla apposta, non successe niente. Ma Giovanni disse a Luigi: <Io porterò sempre con me le mille lire e, appena capiterà l’occasione e tu gli darai dei “paccheri”, io ti darò i soldi>.

Avvenne che un giorno Giovanni fosse molto raffreddato ed era venuto con una sciarpa che gli girava attorno al collo e alla bocca, lasciandogli scoperte le orecchie. Totonno furtivamente gli venne alle spalle e, piegando il dito medio sotto il pollice e lasciandolo velocemente, gli colpì un orecchio, facendogli molto male (in napoletano si chiama zàcchero).

Giovanni diede un grido di dolore, Luigi si avvicinò ai due e, rivolto a Totonno, gli disse: <Ma ‘a vuò fernì o no e turmentà a Giuvanno>. La risposta fu: <Fatti e cazzi tuoie>. Fu l’occasione propizia per Luigi di dargli due paccheri (ceffoni) molto sonori. Totonno, preso alla sprovvista, tra la meraviglia degli altri impiegati, non seppe dire altro: <Po’ ciò vedimmo a bascio> (Poi ce lo vediamo giù all’uscita> e se ne andò nella sua stanza.

Sta di fatto che Totonno, né quel giorno né gli altri, seppe affrontare Luigi e, come se non bastasse, la smise anche di tormentare Giovanni. Da allora Luigi e Totonno divennero nemci giurati e non si parlarono più.

Giovanni diede le mille lire a Luigi e questi gli disse: <Pe’ via toia, pe’ mille lire, me so’ accattato ‘nu nemico!> (Per colpa tua, per mille lire, mi sono comprato un nemico!).

 

Codicillo. Se ci ribellassimo ai prepotenti fin dall’inizio, con urla e qualche calcio negli stinchi, si taglierebbe dal principio la testa al toro, anche a rischio di buscarle, ma qoestp accadrebbe una volta per tutte!

(Luglio 2021)

E' ARRIVATA L’ESTATE

 

di Luigi  Rezzuti

 

Finita la scuola, è arrivata l’estate ed anche il giorno in cui Elsa e Lina rivedono il mare.

Finalmente, una domenica mattina, si parte alla volta della spiaggia di un lido balneare tanto agognato.

Si preparano le borse da mare con tutto il necessario: ciabatte, cappellini, asciugamani, teli da mare e le creme solari, per non scottarsi.

Da casa portano un contenitore pieno di frutta, già tagliata, cosparsa di limone per non farla annerire e conservata con cubetti di ghiaccio.

Alle otto di domenica mattina qualsiasi lungomare è bello come una cartolina.

Indossati i costumi, le ciabatte di plastica bucherellate per far uscire la sabbia, Elsa e Lina, con la famiglia, conquistano il loro pezzo di spiaggia.

Arrivato sulla spiaggia, il padre, con un secchiello, va a prendere l’acqua di mare per bagnare la sabbia e piantare l’ombrellone.

Le due ragazze si ungono di crema dalla testa ai piedi e iniziano a giocare a racchettoni sulla battigia, ma un’onda anomala, all’improvviso, le investe in pieno. Lina cade in acqua, beve ed è in palese difficoltà, per cui si mettono più distanti dalla riva e ricominciano a giocare.

Finita la partita a racchettoni, Elsa e Lina, soddisfatte, si sdraiano sui loro teli da mare, in attesa che arrivi l’ora di fare il bagno.

Intanto da lontano si intravede un palestrato sudatissimo, che fa la sua ginnastica mattutina.

Ha deposto le scarpe da ginnastica in riva al mare ed Elsa e Lina pensano di fargli uno scherzo, nascondendogli le scarpe sotto la sabbia.

Finita la ginnastica, il palestrato si guarda intorno per scoprire dove siano finite le scarpe.

Mai potrebbe sospettare di quelle due ragazze, stese al sole ad abbronzarsi, che ridono tra loro.

Il palestrato le vede ridere ma pensa che ciò dipenda solo dal fatto che la scena può essere buffa.

La mamma delle due ragazze in un istante si rende conto di come siano andate le cose.

Visto che il palestrato non riesce a trovare le scarpe da ginnastica evita di smascherare le figlie e le sembra giusto aiutare il giovane.

Trovate le scarpe, il ragazzo ringrazia la signora, la quale lo invita a mangiare un po' di frutta fresca, ma lui promette di ritornare verso mezzogiorno, dopo aver fatto una doccia calda.

Andato via il palestrato, la mamma riprende le figlie dicendo loro che certe cose non vanno fatte.

Le ragazze ridono e poi si tuffano in un mare calmo, nuotando fino alla boa.

È dalla boa, da quella ventina di metri dalla spiaggia, che le ragazze vedono arrivare il palestrato in versione beach che saluta la mamma con una stretta di mano.

Allora Elsa e Lina ritornano a riva e propongono al ragazzo di fare una passeggiata sulla spiaggia mentre i genitori restano a controllare borse, asciugamani e teli da mare.

Ai bagnanti non sfugge il trio, formato da un bel ragazzo palestrato e da due ragazze molto carine.

Ma non sfugge nemmeno ad una robusta signora che li aggredisce violentemente.

Apprendono dal ragazzo che la signora è la zia della sua fidanzata e che chiede spiegazioni di questa passeggiata con due belle ragazze.

Il palestrato inventa, al volo, che ha incontrato un signore che frequenta la sua palestra e che le ragazze sono le sue figlie e ha chiesto di accompagnarle per una passeggiata per evitare che qualche male intenzionato le possa infastidire.

Il palestrato non sa se vergognarsi di più del fatto che ha una fidanzata o del fatto che ha una zia così…

Una volta arrivati all’ombrellone delle due ragazze, saluta i genitori e va via.

Elsa e Lina ci rimangono male e, lontano dalle orecchie dei genitori, propongomo al palestrato di incontrarsi di nuovo il giorno dopo, per fare un bagno insieme.

(Giugno 2021)

UN GIORNO A CAPRI

 

di Luigi Rezzuti

 

Visitare Capri in un giorno è stato possibile in quanto la sua vicinanza a Napoli, Sorrento, Positano e Amalfi la rende perfetta per l’escursione di un giorno.

Capri è l’isola più popolata soprattutto durante il periodo estivo.

Per non trovare molta gente, siamo partiti durante la settimana, raggiungendo l’isola in aliscafo e, anche se non è la prima volta che sbarchiamo su questa isola, la sua magia è innegabile.

Non si può stare via da Capri più di un anno. Come si fa a non vedere la mitica piazzetta e i suoi colori? E poi, quando scendi dall’aliscafo, ti accorgi che il tuo cuore scoppia di gioia.

L’isola fu amata anche dalla famosa Rita Hayworth che, innumerevoli volte, ha passeggiato tra le sue stradine.

Nonostante le dimensioni possano sembrare ridotte, non è poi tanto piccola ed è divisa in due frazioni, Capri e Anacapri, che regalano panorami e strade incantevoli, fre limoni e fichi d’india.

Passeggiando a piedi per questo piccolo gioiello, vediamo una miriade di cartelli che invitano alla visita della Grotta Azzurra tramite tour organizzati.

La Grotta Azzurra  è sicuramente una delle attrattive più ambite di Capri  e, se la vacanza dura più di un giorno, è un’escursione che si può fare. Noi abbiamo  noleggiato una barca per un paio d’ore e siamo andati a vedere la Grotta Bianca, la grotta dell’Amore e la grotta Verde.

La Piazzetta è il vero cuore di Capri e, nel corso del tempo, è diventata la parte glamour dell’isola.

Molto affollata durante il giorno, ma,quando cala la sera, assume un’atmosfera completamente diversa.

I turisti, in visita per un giorno, vanno via al calar del sole, quando l’ultimo traghetto lascia l’isola.

Ed è allora che i personaggi famosi cominciano a fare capolino ai tavoli dei bar della piazzetta.

Quando cala la sera Capri diventa ancora più magica, tranquilla, pacata e decisamente romantica.

Abbiamo lasciato la piazzetta per proseguire in via Camerelle che conduce al belvedere di Tragara. Da qui è stato possibile ammirare i faraglioni nella loro interezza: tre rocce, dalle altezze e dalle forme diverse, sulle cui cime si crede che un tempo venissero accesi dei fuochi di segnalazione.

Ci spostiamo, poi, nei meravigliosi Giardini di Augusto,  terrazze a picco sul mare che ospitano una grande quantità di fiori ornamentali.

A due passi dai giardini troviamo via Krupp, la regina delle strade di Capri, che collega i giardini di Augusto con Marina Piccola, dove ci siamo fermati per il pranzo.

Dopo pranzo, dalla piazzetta di Anacapri, abbiamo preso la seggiovia che porta al Monte Solaro. Di qui la vista su Capri, sui Faraglioni e sulla penisola sorrentina toglie il fiato.

Prima di far ritorno a Napoli, siamo andati a fare shopping in via Camerelle, dove abbiamo comprato una bottiglina di profumo Carthusia, il famoso profumo di Capri.

(Giugno 2021)

Una favola cinese

 

di Alfredo Imperatore

 

Mao-Tse-Men, il “ciglio di Budda”, così parlò: < Il servo dei servi che, alzando lo sguardo alle nobili e autorevoli vostre persone, onora la sua vista e la sua casa, vi ha chiamato a consiglio e giudizio. Che la vita serbi a lungo la felicità nostra e della nostra terra. Parlo con il cuore spezzato dal tradimento, davanti all’altare dei nostri grandi antenati. Voi ascolterete e giudicherete>.

I venerabili, intervenuti all’assemblea, rimasero in religioso silenzio, perché presi da una fortissima emozione, benché fossero uomini plasmati di granito e dall’anima forgiata di fatalismo.

Gli iperbolici draghi, raffigurati negli arazzi pendenti tutt’intorno alle pareti del salone delle riunioni, parvero animarsi e dalle forge dilatate sembrava che spirassero grosse lingue scarlatte, emettenti intensi lampi di luce.

La grande casa di Mao-Tse-Men era in alto a un lago tondo e dalle acque limpide, incastonato in una collina, chiamata il Colle dei mandorli, ove la primavera sembrava più lunga, con i mandorli sempre fioriti. In un alternarsi di gemme e sbocci, si dilettavano i meravigliosi petali rosei dei loro fiori, mischiandosi ai mirabili tappeti offerti dal caprifoglio, sorgenti dalla soffice terra odorosa.

Il fiore di loto, adorato dalle moltitudini di cinesi, si rispecchiava, insieme agli altri fiori di più basso rango, narcisisticamente, nell’azzurro del lago.

Anche la luna, sembrava posare più a lungo il suo sguardo sereno, su quello spazio privilegiato, offerto dalla collina col suo lago.

All’esterno dell’altura si estendeva la verde, sterminata pianura, con rade casette e, lontano, all’orizzonte, la sagoma imprecisa di una cittadella.

Sul lato interno, più orientale, di questa collina, al primo saluto del sole, si aprivano le porte di accesso della casetta di Lee-Tsi-Mey, figlia del grande sapiente, venerato come il “ciglio di Budda”; essa era posta al lato destro del grande edificio del padre.

Bella come un raggio di sole, lieve come il petalo di un mandorlo, buona come la rugiada ai suoi fiori prediletti. L’usignolo taceva se il canto di Lee-Tsi-May effondeva le sue note di dolcezza, a blandire tutte le cose d’intorno.

Quando, nelle inesplicabili controversie, le persone più importanti oppure i manovali e i contadini del Colle dei mandorli, chiedevano il consiglio del Saggio, si fermavano a mezza strada sui gradini della vecchia Pagoda, prima di ascoltare il suo illuminato parere.

Il vegliardo scendeva sollecito, quasi fino a loro, e sempre decretava con una norma infallibile ed efficace.

 

***

 

Gene-Sua-Pin, agente commerciale della S.O.T., succursale di Shanghai, aveva attraversato molti chilometri del fu Celeste Impero, per conto della sua società, onde giungere alla vecchia Pagoda.

Aveva trent’anni, era biondo, intelligente, forte, così armonicamente creato da sembrare un semidio.

Il successo negli affari, molti lo attribuivano più che alla sua capacità speculativa, al fascino della sua persona. Egli lavorava, si divertiva e viveva felice: ma il suo destino si doveva concludere sul Colle dei mandorli.

Nel breve periodo d’intrattenimento per definire una commissione con Mao-Tse-Men, un meriggio, mentre, tra una trattativa e l’altra, passeggiava attorno al lago, inaspettatamente gli capitò di vedere Lee-Tsi-May, uscire dall’acqua, vestita solamente dalla sua bellezza.

La figlia del “ciglio di Budda”, si accorse che Gene la guardava come abbagliato dal suo splendore e si arrestò senza paura di fronte al giovane sconosciuto, come l’avesse atteso durante le sue notti sognanti.

Per il breve tempo che Gene sostò alla Pagoda, s’incontrarono ogni giorno sulle rive del lago, per dissetare la febbre dei loro sensi, e i giorni della sua trasferta trascorsero e furono anche superati, senza che Gene se ne rendesse conto.

Lee gli offriva la sua anima incontaminata e il corpo divino, mentre Gene ricambiava con tutta la sua baldanza e la sua virilità.

Gene improvvisamente si rese conto di aver oltrepassato di molto il tempo datogli per la sua missione e, senza avere la possibilità di salutare i suoi clienti, repentinamente partì, come dicevano gli antichi romani insalutata ospite.

Mao-Tse-Men, messo al corrente dalla figlia per l’illecito comportamento dell’agente commerciale, da quel giorno non conobbe più il sonno, finché i suoi fedeli, girando in lungo e in largo per Shanghai, non gli riportarono il fedifrago, dopo averlo drogato.

I venerabili, che erano stati convocati per emettere il loro giudizio, chiesero tre giorni di riflessione e si ritirarono, come in una specie di conclave. Trascorso il periodo richiesto, il vegliardo tra loro, lesse la sofferta sentenza:

<Avendo noi, valutato attentamente e accuratamente il peccaminoso comportamento dell’agente Gene-Sua-Pin, che ha inusitatamente approfittato dell’ospitalità del sacro maestro Mao-Tse-Men, lo condanniamo alla seguente pena: deve essere recluso per la durata di tre anni, in una piccola dimora, sita in un luogo diametralmente opposto alla casetta di Lee-Tsi-Mey. Solo allo scadere del 1095esimo giorno, potrà uscire dalla detenzione e scivolare sull’acqua cristallina del lago, fino a raggiungere a nuoto la sponda di fronte; soltanto allora potrà congiungersi con Lee-Tsi-Mey, e potranno vivere felici e contenti per il resto dei loro giorni>.

Le successive, sfarzose nozze eliminarono ogni precedente dissapore. La S.O.T. creò una grossa succursale anche sul Colle dei mandorli, di cui Gene-Sua-Pin fu nominato Direttore generale, ampliando i successi che aveva sempre ottenuto nei precedenti affari.

(Giugno 2021)

Quell’avventura di una notte di 50 anni fa

 

di Luigi Rezzuti

 

Il mondo si divide fra quelli capaci di avere l’avventura di una notte e quelli che, invece, non ce la fanno.

Non perché non riescono ad andare a letto con una donna appena incontrata ma perché il giorno dopo non riescono ad impedirsi di sognare che, da quelle poche ore trascorse insieme, nasca qualcosa.

Sandro non era di quelli che riuscivano a vivere una notte d’amore e poi, il giorno dopo, pensare ad altro, senza colpo ferire.

L’avventura di una notte può diventare un ricordo da tenere in serbo per tutta la vita.

Ed è questa la storia di Sandro, 70 anni, sposato e felice, che però, di tanto in tanto, digita su Google un nome e un cognome: quelli della ragazza con la quale ha avuto la sua prima volta, cinquant’anni fa.

Una prima volta speciale, perché lei era fidanzata e fra loro c’è stata solo l’avventura di una notte, l’ultima notte delle vacanze, con il fidanzato di lei, che dormiva nella sua camera.

Quando Sandro racconta la sua storia si emoziona come se quella notte d’amore fosse accaduta il giorno precedente.

Ricorda tutto, nei minimi particolari: quella serata in gruppo, il primo bacio, tornando in hotel, il saluto in atrio, lei che, a sorpresa, pochi minuti dopo, bussa alla sua porta. Sembra quasi un romanzo, eppure è tutto vero, anche se ammette che per lui quella notte è stata come un sogno, quasi non ha capito ciò che gli stava capitando.

Ha scoperto di non essere fatto per le avventure di una notte.

Sarà perché era la sua prima volta o perché è uno di quelli che, il giorno dopo, non fanno a meno di sognare ad occhi aperti?

Lui però non si è limitato a sognare: prima che lei lasciasse la stanza per tornare dal fidanzato le ha chiesto il numero di telefono.

E ancora oggi, di tanto in tanto, prova a cercarla on line.

Questo il suo racconto: “La mia storia risale a una cinquantina di anni fa, avevo 20 anni quando ebbi la mia prima storia di una notte, che era anche la mia prima volta in assoluto. A ripensarci ora sembra quasi un sogno, oppure la trama di un libro rosa. Ero in vacanza con un mio amico e nel nostro hotel c’erano molti ragazzi della nostra età tra cui anche una coppia di fidanzati molto simpatici. Avevamo dato vita ad un bel gruppo e uscivamo spesso tutti insieme. Anche l’ultima sera, prima di ripartire. Ma lui, il fidanzato, era stanco e andò a letto presto mentre lei rimase a far baldoria con il resto del gruppo. Era una serata strana, la ricordo benissimo: l’ultima sera di una vacanza ha sempre un’atmosfera particolare, forse perché si sa che non ci si rivedrà più. Io sarei tornato nella mia città, lei nella sua. Forse, proprio il fatto di sapere che non ci sarebbero state altre occasioni, mi diede il coraggio. Ero timido e impacciato ma, non so come, tornando in hotel, presi coraggio e provai a baciarla. A quel punto eravamo da soli, perché tutti gli altri, anche il mio amico e compagno di stanza, erano andati in discoteca. Continuammo a baciarci e, come in sogno, non osai chiederle niente e andai nella mia camera. Per me la serata era finita, ero emozionato e felice. Ma, pochi minuti dopo, sentii bussare alla porta … era lei. Io l’abbracciai in modo goffo e impacciato, non sapevo cosa fare. Fu lei a dirmi: “Se vuoi fare l’amore, dobbiamo farlo bene.” E si spogliò. Per me era la prima volta, ma non ero nervoso, ero come drogato, eccitatissimo, sia fisicamente che mentalmente. Quasi non mi rendevo conto di quello che mi stava accadendo e non ricordo neanche le sensazioni che provai, il mio corpo era come estraneo a me stesso. Ripeto, come se stessi vivendo un sogno. Quella notte, per me, durò un tempo indefinito, non saprei dire a che ora lei andò via per tornare nella sua camera, dal fidanzato. Potevano essere passate poche decine di minuti o delle ore. Io, a quel punto, ero innamorato perso, al punto tanto che, al ritorno dalle vacanze, non seppi rassegnarmi e cominciai a chiamarla. Un giorno andai anche a trovarla senza preavviso. Per lei, però, era finito tutto o, meglio, non era mai cominciato niente, ero stato solo un’avventura. Per me, invece, questa esperienza è stata fondamentale, nel bene come nel male. Nel bene perché, a cinquant’anni di distanza, ricordo ancora benissimo quella notte e. come mi ha chiesto lei, ho mantenuto il segreto fino a pochi mesi fa, quando finalmente ho avuto il coraggio di confessare tutto anche al mio amico dell’epoca, che non sapeva nulla. Nel male, perché, per un paio d’anni, rimasi a terra, ancora preso da lei. E quando trovai una ragazza non fu facile fare l’amore senza la paura di essere lasciato subito dopo. La mia prima volta non l’ho dimenticata e, negli anni, ammetto di aver cercato quella ragazza. Però su face book non c’è né ho trovato sue foto sul web.

(Marzo 2021)

La vendetta

 

di Alfredo Imperatore

 

Il marchese Antonio De Franciscis aveva un grande negozio per la rivendita di tappeti, a Palermo. e un magazzino, a Casablanca, per la loro raccolta da vari paesi dell’Africa settentrionale.

I tappeti sono prodotti in diverse zone della Terra e i più pregiati sono quelli persiani, famosi per i loro disegni, i tessuti (seta, lana e a volte anche con fili d’oro), i colori e il numero di nodi; i più pregiati ne possono avere anche più di ventimila per decimetro quadrato.

Dietro la produzione dei tappeti, però, vi è un ampio sfruttamento di mano d’opera delle ragazzine dai 7-8 fino ai 13-14 anni. Questo è il lasso di tempo in cui le bimbe, con le loro piccole mani, riescono ad annodare il più velocemente possibile, perché, poi, man mano che crescono, si ingrandiscono, conseguentemente, anche le dita, per cui la velocità dell’annodamento dei fili di trama dell’ordito, lentamente diminuisce ed esse vengono subito licenziate per essere sostituite da altre adolescenti più piccole. Tale forma di sfruttamento infantile è presente ovunque questi manufatti sono prodotti.

Ritorniamo al marchese De Franciscis: egli aveva tra i suoi piazzisti, un collaboratore di nome Alberto, che conduceva sempre con sé, nei frequenti viaggi, in aereo o con traghetto, tra Palermo e il magazzino di Casablanca.

Qui aveva una dipendente marocchina, di nome Atina, musulmana come quasi tutti i suoi conterranei, ma un po’ più evoluta rispetto alle sue connazionali, perché non portava quel foulard che copre la testa e le spalle, lasciando scoperto solo il viso o addirittura solo gli occhi, e che, a seconda della forma che assume tra le varie popolazioni, è chiamato hijab, al amira, shayla, khimar, chador, niqab, burqa, e chi più ne ha più ne metta.

Il compito di Amina era di accogliere e contrattare, con i diversi fornitori, il prezzo dei vari tappeti, da quelli più economici, con nodi più grossi, a quelli più pregiati, manufatti con moltissimi piccoli nodi.

Ad ogni persona capitano dei giorni favorevoli (molto rari), e altri sfortunati: i cosiddetti giorni “no”. Infatti, quando giunse il momento in cui il marchese, insieme ad Alberto, doveva andare in Marocco, pareva che tutti i numi si fossero messi contro; era incappato proprio in un giorno “no”.

Sciopero degli aerei, fermi tutti i traghetti, per cui, dopo aver girovagato in lungo e in largo, dové ricorrere a un privato, pagando un caro prezzo per imbarcarsi insieme ad Alberto.

Non poteva rimandare il viaggio, pena la perdita di un’importante commessa che Amina gli aveva assicurato, in quanto era venuto un facoltoso commerciante, che aveva promesso una grande quantità di tappeti ad un prezzo molto concorrenziale. Ma, una volta giunto al negozio, ebbe l’amara sorpresa: il venditore non si era presentato.

La sua rabbia fu fortissima e, poiché era un accanito fumatore, incominciò ad accendere una sigaretta dopo l’altra. Poi disse ad Alberto che poteva andare a spasso per la città, mentre lui si sarebbe intrattenuto ancora un po’ nel negozio.

Rimasto solo con Amina, pensò bene di recuperare il tempo perduto, iniziando a fare le “coccole”, che solitamente si scambiavano. Vi era, infatti, tra i due, “una tenerezza reciproca” e, dopo le prime effusioni, si passava, solitamente, a rapporti più avvincenti.

Il giorno “no” continuò a farsi sentire, giacché la sua impiegata ritenne che fosse giunta l’occasione propizia per chiarire ciò che, da diverso tempo, aveva in animo di dirgli. Lo pose, infatti, dinanzi ad un aut aut: o la sposava o cercava altrove il suo divertimento.

La giornata era iniziata male e stava per finire peggio. Il marchese non volle sottostare a questa imposizione e, con grande meraviglia di se stesso, solitamente calmo e riflessivo, rispose molto bruscamente e sgarbatamente, per cui, obtorto collo, dové rinunziare ai suoi propositi e la lasciò

sbrigativamente, per ritornare nell’albergo che era il suo punto di appoggio nei viaggi a Casablanca. Giunse tanto stanco da buttarsi, vestito com’era, sul letto.

La stanchezza era prevalentemente spirituale, dinanzi alla contrarietà di quella brutta giornata che non gli aveva permesso di raggiungere nessuno dei suoi obiettivi. Era anche prostrato fisicamente, e quasi intossicato dalla nicotina, per essere andato ben oltre i quattro pacchetti di sigarette che normalmente fumava ogni giorno.

Il sonno lentamente lo stava prendendo, dovuto anche alla brezza del vicino mediterraneo, quando entrò nella stanza Alberto. <Come mai hai impiegato tanto tempo per venire?> gli chiese distrattamente il marchese. <Ho girovagato un po’ per la città e poi sono passato per il negozio e, poiché non ti ho trovato, sono ritornato qui>. Questa fu la risposta del collaboratore, ma la realtà era ben diversa.

Giunto al negozio del marchese, aveva trovato Amina in lacrime, sola ed avvilita. Le si era avvicinato per confortarla e, man mano che la ragazza spiegava il motivo della sua tristezza, egli aveva incominciato a consolarla sempre più teneramente, tenendola stretta a sé, finché l’abbraccio non divenne ancora più forte e, con esso, maggiore il sollievo della ragazza.

Amina, tra l’altro pensò, che, tutto sommato, Alberto era da preferirsi ad Antonio, per cui volle essere rincuorata più di una volta. Alla fine, mentre Alberto si era ricomposto e stava per uscire, lo tirò per un braccio, lo guardò fissamente negli occhi e gli disse: <Ué, statti zitto!>. Antonio, sornione, le rispose: <Hai dimenticato che sono di Palermo?>. La donna, dubbiosa, replicò: <E questo cosa significa?>. E lui: <Significa che i siciliani non vedono, non sentono e non parlano!>.

(Febbraio 2021) 

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