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«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».23 Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri   di Sergio Zazzera   Come sono maleducati gl’italiani!...
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I GIOVANI SI DIMETTONO DAL LAVORO   di Annamaria Riccio   LAVORO, È ALLARME “QUIET QUITTING” TRA I GIOVANI: IL 74% VUOLE CAMBIARE AZIENDA. DAGLI...
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A NAPOLI UN NATALE SENZA LUMINARIE   di Luigi Rezzuti   A Napoli il Natale ha un’atmosfera magica. I vicoli, le strade, i presepi, gli odori, le...
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La violenza sulle donne   di Luigi Rezzuti   Si sente, purtroppo, parlare molto spesso di violenza sulle donne. Sui giornali, in TV, alla radio,...
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Mattia Preti, arte e omicidi   di Antonio La Gala   Mattia Preti, uno dei maggiori pittori del Seicento napoletano e italiano, è noto ai vomeresi...
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Pensieri ad alta voce di Marisa Pumpo Pica   Matrigna Rai   Lottizzazione Repulisti Rottamazione o Epurazione?   Tanto rumore per nulla. Per...
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Pensieri ad alta voce di Marisa Pumpo Pica   Per Papa Francesco   La speranza non delude La notizia della morte del nostro caro Papa Francesco,...
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Tanto per sdrammatizzare   Si De Luca fa 'a chiusura   di Irene Pumpo   Chistu guappo Presidente ha deciso, dint’ a niente, mo n’atu...
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NAPOLETANI TENDENTI AL CIBO SANO MA GOLOSO   CAMPANI E NAPOLETANI SEMPRE PIÙ ATTENTI A UNO STILE DI VITA HEALTHY, MA NON MANCANO MOMENTI DI COCCOLE...
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PAURA DEL DENTISTA

 

di Luigi Rezzuti

 


E’ una paura comune, immotivata, profonda e, per certi versi, freudiana. Vincerla si può, se è successo a me, potete farcela tutti. Non mi sono mai piaciute le persone “senza paura”. So bene che non esistono, lo dico con la presunzione di chi ha percorso un pezzo di strada sufficiente per poterlo affermare. Non condivido frasi come queste: “Io non mi spavento di nulla, tanto la vita, gira gira, ha un destino segnato”.

Da piccolo, per esempio, avevo paura dei cani o che mia zia partisse e non tornasse più. Per me era una tragedia, lei era la mia baby sitter a tempo pieno. Poi sono cresciuto e le mie paure si sono adeguate a tante cose e agli anni che passavano.

Una paura cardine della mia vita, resta il dentista. Ammettetelo, state pensando che siamo in tanti. Chi non teme questa persona infagottato di verde, con la mascherina perennemente in faccia al punto da non decifrare mai i reali lineamenti (di che colore sono gli occhi del vostro dentista?), per non parlare della  suo personale eau de toilette che sa di colluttorio, ammonio e anestetco. Bene, io sono certo che la mia paura del dentista sia la più grande paura che esiste. Sono fuggito a gambe levate, ho disertato non so quanti appuntamenti. Mi sono sottoposto a una serie di panoramiche, pensando: “Intanto inizio così, poi passeremo ai fatti concreti”. Mi sono fatto venire febbri, sincopi, bronchiti, virus intestinali e ogni foggia di “sticchi e stacchi” pur di non accomodarmi sulla fantomatica poltrona. Poi, però, la vecchiaia ha lasciato sulla mia bocca un marchio di fabbrica. Vi risparmio i dettagli. Occorreva intervenire perché, scherzi a parte, i denti non sono un complemento da arredo, non sono un segno estetico e uno scontato strumento di masticazione. Sono molto di più. Vi dico che, tra i tanti problemi odontoiatrici, vi era anche un’infezione cronica a una gengiva. Un dentino era risalito fin sulla gengiva, aveva fatto lì la sua casetta e vi lascio immaginare i dolori: mascella gonfia, infezioni frequenti e molto altro.

Mi decido: devo andare! Faccio un’indagine on line, leggo una serie di curricula, sguinzaglio i miei migliori informatori ed eccolo, lo scelgo. Ha pure lo stesso mio nome, non può essere un caso. Primo appuntamento: visita generale, esami diagnostici. La mia bocca è un mezzo disastro. Il dottore mi spiega subito che l’odontoiatria non esegue chirurgie facili sol perché pratica piccoli tagli. Mi parla in maniera molto franca, mi spiega l’iintervento, gli arnesi.

Mi illustra tutto e mi rassicura come se fossi un bambino. Fatto sta che, passo dopo passo, percorro un cammino lungo quasi un anno (e ancora non del tutto concluso). L’altro giorno il momento clou, il grande giorno, quello che :“dottore la prego, questo intervento la prossima volta e poi la prossima volta ancora”. Si deve scollare la gengiva e cacciare via sia il dentino innestato in profondità, sia quella diavoleria dal nome strano, che mi provoca un’infezione cronica alla radice del dente. Farmi aprire una gengiva alla ricerca di un maledetto dente e dell’infezione che ci sta dietro mi terrorizza. Poi, dulcis in fundo, un paio di punti di sutura, Noooo”. Mi dicevo questo ed altro a poche ore dall’appuntamento.

Il grande momento è arrivato: “Luigi, chiudi gli occhi, collabora e pensa ad altro” Già. Ad altro. Ho pensato e ho compreso che alcune paure vanno arginate. Ho riflettuto su timori superati col tempo, anche solo osservando i miei genitori. Dei cani aveva paura mia madre.

Mentre riflettevo il dentista aveva finito ed aveva fatto tutto in un tempo che non ho calcolato. Non ho provato dolore, panico, fastidio. Il dottore mi ha detto che quella piccola azione di coraggio mi arrecherà tanti e più benefici. Alla fine della seduta io e il dottore ci siamo stretti la mano e ci siamo fatti i complimenti a vicenda. Nella vita le grandi vittorie si celebrano anche se so bene che dal dentista non ho compiuto alcun gesto eroico, ma ho sicuramente superato un grande e non plausibile blocco, costruito dalla mia mente.

(Gennaio 2021)

UNA NOTTE AL CASINO’

 

di Luigi Rezzuti

 


Ettore era un vecchio pensionato che percepiva una pensione di 620 euro al mese.

Nel tempo, con grossi sacrifici, era riuscito a risparmiare qualche soldino accumulando, così, un tesoretto di 500 euro.

Un giorno Ettore venne a conoscenza che ogni mese un’agenzia di viaggi, organizzava un pullman per pensionati in cerca di fortuna al casinò in Slovenia.

Prenotò anche lui il viaggio. Prima sosta del pullman dei nonni che vanno a giocarsi la pensione nell’area di servizio sulla Venezia-Trieste.

Per scaldarsi le mani … tutti acquistano il “gratin” ma l’avventura deve ancora cominciare e sul pullman extralusso c’è allegria.

Davanti c’è una notte al casinò sognando che la pallina della roulette si fermi sul numero scelto, che la slot machine si metta a suonare e annunci ai giocatori vicini, pieni di invidia, che hai vinto centomila euro, che il banco del poker ti regali una scala reale.

“Bisogna usare la testa- ammonisce uno di loro – altrimenti ti puoi fare del male, ma se non superi il budget che ti puoi permettere, se quando perdi non ti metti a raddoppiare la posta fino a quando non sei rovinato, allora ti puoi anche divertire”.

“Io sono qui – racconta un altro – per la prima volta. Con soli 200 euro ti offrono la cena, ti fanno entrare al casinò e in fin dei conti, sarà un sabato sera diverso”.

L’organizzatore del pullman racconta: “Dall’Italia arrivano tantissimi pullman all’anno, siamo arrivati, a tutti buona fortuna, no, non si dice così, al massimo in bocca al lupo”.

Un vecchietto dice: “Quando giochi, ti offrono anche da bere gratis”.

A un tavolo ci sono due coppie che per la prima volta sono venuti a vedere cosa succede qui.

In un altro tavolo, gli habitué. Non hanno molta voglia di parlare, sono molto concentrati, in fondo, si tratta di soldi e ognuno si deve fare gli interessi suoi.

Qualcuno afferma: “Guardi, qui si gioca e si perde quasi sempre. Se qualcuno vince, lo dice a tutti. Se perde, dice che ha pareggiato. Ma poi, in confidenza, sai che qualcuno si è rovinato davvero. Se perdi 500 euro in una sera è un bel dramma e poi sappiamo che queste cose sono successe e succedono. Ma noi veniamo qui con tot soldi e cerchiamo di non perderli tutti”.

Il casinò è un labirinto di slot machine, sembra davvero il paese dei balocchi.

Su ogni macchinetta la cifra promessa al momento: 9,038 euro, 16,372 euro …

Ogni clic costa da 1 euro a 2 euro, ma per perdere un euro ti bastano pochi minuti.

Mai credere a un giocatore, sia pure dilettante, che dice di avere perso 100 euro, adesso mi faccio una giocata al Bingo e poi basta.

Ma lo vedi un’ora più tardi alla roulette dove la giocata e di 2 euro e la massima di 200.

Quasi tutti italiani, le migliaia di giocatori nei saloni del casinò, a loro non si fa mancare nulla.

La partite Roma – Napoli sugli schermi, e poi l’invito all’arena per la sfilata di moda.

Appuntamento alle 2 nella grande hall e qui nessuno parla.

Dialoghi sottovoce: “Come ti è andata?”, “Parliamo di altro”, “Andiamo via proprio adesso che la macchinetta buttava bene?”

E’ nottefonda, quasi l’alba, tutti sul pullman, mentre continuano ad arrivare le auto di lusso dall’Italia, con i boys che aprono la portiera e vanno a portare l’auto nel parcheggio.

Non c’è nebbia, solo una leggera pioggerellina.

All’arrivo dei pensionati in cerca di fortuna un uomo cattivo, vedendo arrivare il pullman davanti al casinò dice: “Ecco la corriera dei polli”.

(Novembre 2020)

Sulla battigia

 

di Alfredo Imperatore

 

Luciana dell’Angelica, a più di un lustro dalla menopausa, conservava, nella perfezione delle sue forme snelle e armonicamente modellate, nell’epidermide bruna, soffice e vellutata, nel volto senza rughe e negli occhi neri, tutta la freschezza della ormai lontana pubertà.

Quando la sua piccola mano nervosa fendeva, con moti brevi e incisivi, l’aria davanti a sé, nel fervore della sua oratoria calda e stringata, non si sapeva se ammirare di più la dialettica martellante o la musicalità tonale della voce appassionata.

Si era soggiogati, avvinti e costretti senz’altro ad assentire alle conclusioni delle sue tesi, che, con novità di perfette sillogistiche argomentazioni, sviluppava sull’orditura robusta della sua chiara intelligenza e della sua enciclopedica cultura.

Le sue liriche, nate dall’animo sereno, nella sua norma di concezione, materiatesi poi in una regola di vita, unitesi inconsapevolmente così da formare un’entità sola: l’essenza, la sostanza e le sensazioni della sua individualità psico-fisica; insieme cantavano non sui metri fissi della prosodia, ma sulla libera e immensa orchestra delle infinite vibrazioni del suo animo musicale.

Tutta la gioia di vivere la sua vita, microcosmo inconfondibile nel cosmo universale: gli astrali misteri, i palpiti di ogni creatura, l’acqua e la terra stessa, in un susseguirsi di rivelazioni e d’interpretazioni, proiettavano nel suo pensiero verità nuove che, nelle sue parole e nei suoi scritti, si offrivano all’attonita ammirazione degli uomini, con una chiarità solare.

In Luciana dell’Angelica, donna vera nella materialità corporea, si erano spenti, se pure erano mai vissuti, gli impulsi del sesso. Era sempre stata pura, ma senza fatica, senza travaglio di rinunzia, quasi fosse stata la sua entità naturale, differenziata nella specie umana, come attratta nei vortici di una forza ignota e riplasmata, con un processo di formazione nuovo, in un tipo ideale di donna.

L’amore, come affezione o come appetito, non l’aveva mai conquistata, nonché sfiorata.

Eppure, quante volte, le brame mascoline l’avevano avvolta in vampe di lussuria, che il suo corpo flessuoso e vibrante disvelava alle concupiscenze di ardori inesausti!

Quanto spesso alte menti e nobili cuori, avevano vagheggiato rispondenza e accoglienza! Ella passava indifferente, come la salamandra tra le fiamme, nei vulcani dei desideri, che il mondo le accendeva intorno.

La sua carne, nella purità incontaminata, non soffrendo e non gioiendo, si saturava di perfezione e gli anni la rendevano più desiderata.

Nella sua arte e nella sua bellezza quasi si trasumanava.

“Luciana - le aveva detto, sul finire dell’inverno, la sua amica signora D’Arsi - spero che nell’estate verrai a farmi visita a Capri.”

L’isola è unica nel grigio-perla dell’aria, nell’ultima ora di sole ferragostano, sui declivi della collina che si rispecchiano nelle chiare acque al verderame di Marina Piccola; gli alberi e i fiori quietano l’affanno della calura, sofferta nell’attesa della propiziatrice ombra serale.

Giunta l’estate, Luciana dell’Angelica, mantenne la promessa fatta all’amica D’Arsi, e si recò nell’Isola Azzurra.

Quivi, un pomeriggio, Luciana, stando supina sull’arenile di Villa D’Arsi, col capo appoggiato al tronco di un’acacia odorosa, rileggeva l’ultimo volume delle sue liriche, ancora fresco di tipografia, sentendosi parte del tutto, parte della natura stessa.

Silenzio di membra e cose stanche tutt’intorno. Lontano, sul mare, qualche barca abbandonata all’accidia delle onde.        

Un lieve accappatoio copriva appena le sue nudità audaci.

L’acre profumo delle alghe e la salsedine dell’aria a poco a poco la narcotizzavano.

Ella si assopì.

                                                  ***

Il sole naufragava lontano nel suo epilogo diurno e la sera stendeva lentamente il morbido, mesto velo.

Un’ondata di calore si spandeva alla radice dei capelli e le scorreva dal collo al seno, sgusciato dall’accappatoio nell’abbandono del sonno.

Appena svegliata, non osava voltarsi, non sapeva e non voleva sottrarsi a quella morsa impalpabile, che pure l’irretiva in maglie tenacissime.

Tra panico e delizia, la sensazione di stordimento che la rendeva immobile.

Poi, come piegata da una potenza misteriosa, volse la testauava a  di lato a guardare: inginocchiato nella sabbia, a due passi da lei, le mani a terra e il dorso inarcato e fermo sulle braccia, il collo teso, due occhi bramosi, quasi di rapina, un giovane la osservava attentamente. Un volto giovanissimo, diabolicamente bello e pauroso, quasi un fanciullo, continuava a guardarla con insistenza.

Affascinato e fascinoso, squassato dalla violenza dell’istinto, acceso dalla visione improvvisa di una polpa mai addentata, fremeva accanto a lei, nelle implacabili volute di una formidabile forza, inconscia e predace.

Luciana allungò la mano tremula sul capo del maschio, come se volesse carezzarlo o respingerlo.

Si rotolarono nella sabbia ancora tiepida, sul filo d’acqua della battigia.

                                                     ***

Rimasta sola, Luciana raccattò il suo volume di liriche, ancora odorante di tipografia: lo guardò, rigirandolo fra le mani. Poi, con un gesto semplice e quasi solenne, lo lanciò fra le onde.

(Novembre 2020) 

Una giornata d’autunno

 

di Luigi Rezzuti

 


Stamane mi alzo più tardi del solito. Dai vetri della finestra guardo il cielo: non è più azzurro e non promette nulla di buono. Il caldo dell’estate è finito.

Soffia forte il vento, grossi  nuvoloni  neri si addensano in cielo e minacciano un temporale.

E cadono, infatti, i primi goccioloni. È l’estate che va via, piangendo. All’improvviso grandina, sono grossi chicchi di ghiaccio che si infrangono sui vetri delle auto, in sosta sulla strada.

Faccio colazione e guardo di nuovo il cielo: è sempre più scuro, mentre  un forte acquazzone allaga le strade.

Piccoli torrenti d’acqua scorrono, veloci, lungo i marciapiedi e, purtroppo, devo uscire.

Mi vesto, indosso un impermeabile, prendo l’ombrello ed esco di casa.

Pozzanghere d’acqua sono dappertutto, cerco di evitarle ma non è facile e mi ritrovo con le scarpe inzuppate.

Continua a piovere. Attraverso la strada, mi riparo, insieme ad altre persone, sotto un portone.

Sembra che voglia spiovere, accelero il passo, raggiungo il garage, prendo l’auto e vado in ufficio.

C’è un traffico intenso e si procede lentamente a causa della pioggia, del vento e degli allagamenti sotto i cavalcavia.

Il tempo passa, inesorabilmente veloce, mentre resto fermo nel traffico. insieme ad altri automobilisti.

Inizio ad innervosirmi. Ho un appuntamento di lavoro molto importante e temo di far tardi.

Non so cosa fare, nel frattempo gocciola acqua dalla guarnizione dello sportello, lato guida, accendo la radio e le previsioni meteo avvertono che questo tempo non cambierà per tutta l’intera giornata.

Infastidito ed annoiato, mi connetto su una stazione che trasmette canzoni anni ’60.

Finalmente il traffico diminuisce per incanto, si circola, pur se continua la tormenta di vento e pioggia.

Non è una semplice pioggia, ma secchi d’acqua che cadono dal cielo.

Transito davanti ad una fermata dell’autobus, sotto la pensilina c’è molta gente in attesa, qualcuno è anche senza ombrello.

Due ragazze fanno autostop e mi chiedono un passaggio. Le guardo: sono inzuppate d’acqua, mi fanno tenerezza, mi fermo e le faccio salire in macchina.

“Dove dovete andare?”

“Dobbiamo raggiungere l’Università, abbiamo un esame e non vorremmo arrivare in ritardo”

“A quale facoltà siete iscritte?”

“Lettere e filosofia”

“L’esame è difficile?”

“Non tanto. Speriamo di poterlo fare e, magari,  con un buon voto, che ci serve per migliorare la media”.

Prendo qualche fazzolettino di carta per farle asciugare, alla meglio. Almeno i capelli.

Mi ringraziano, poi una di loro apre la borsa e mi offre un cioccolatino al liquore.

Ci voleva proprio in questo momento! Il liquore mi riscalda subito dal freddo della giornata.

Stiamo quasi per raggiungere l’Università, chiedo alle due ragazze di scambiarci il numero di cellulare.

Mi fermo, scendono dall’auto, mi ringraziano del passaggio, felici di essere arrivate giusto in tempo per l’esame e mi dicono che, in giornata mi chiameranno.

Arrivo al parcheggio, sistemo l’auto e salgo in ufficio. L’appuntamento di lavoro è saltato, ma mi comunicano che è stato soltanto rinviato a domani.

Inizia la mia giornata di lavoro. Il pensiero va a quelle due ragazze che forse, a quest’ora, stanno sostenendo l’esame e spero che lo superino a pieni voti.

Pausa pranzo, scendo in strada e raggiungo un bar-ristorante. Dopo un  fugale pasto, ritorno in ufficio a lavorare.

Sono le 17,30, il mio cellulare squilla: è una delle ragazze dell’autostop che, felice, mi comunica di aver superato brillantemente l’esame.

Chiedo dell’amica, mi dice che è andato bene anche per lei l’esame, ma purtroppo è dovuta partire per raggiungere la nonna, che non si sentiva molto bene.

Le propongo di incontrarci questa sera per festeggiare il bel voto.

Un attimo di silenzio, poi accetta e ci diamo appuntamento per le 20,30 sul lungomare di Mergellina, all’ingresso della Villa Comunale.

Finalmente la pioggia è finita ed anche il vento è calato. Torno a casa, faccio una doccia e mi preparo per andare all’appuntamento.

Arrivo qualche minuto prima delle 20,30 e trovo la ragazza, che mi sta aspettando.

Parcheggio l’auto e ci incamminiamo per i viali della Villa Comunale. Ci presentiamo. Avevamo scambiato quattro chiacchiere la mattina ma non conoscevamo nemmeno i nostri nomi.

“Mi chiamo Eduardo, sono titolare di un’ agenzia di assicurazioni”

“Mi chiamo Luisa e, come già ti ho detto stamattina, sono un’universitaria, iscritta alla facoltà di lettere e filosofia”

Luisa è una bella ragazza: occhi azzurri, capelli castani, alta circa 1.70, ben curata, e vestita in modo semplice ma elegante.

“Come vanno gli esami, ti manca molto alla laurea?”

“Nel mese di marzo dovrei laurearmi”

Intanto l’orologio segna le 21, le propongo di andare a cena in un localino a Marechiaro.

Penso che al chiar di luna e in un localino a Marechiaro si possa creare l’atmosfera giusta.

Tutta la serata, mentre ceniamo a lume di candela, non facciamo altro che chiacchierare di noi.

Luisa guarda l’orologio e mi chiede di essere accompagnata a casa perchè si è fatto molto tardi.

Le chiedo dove abita e, con somma meraviglia, scopro che abita nel mio quartiere e a poca distanza dal mio palazzo.

“Come mai  non ci siamo mai incontrati”, mi chiede.

“Forse perché io sono impegnato tutta la giornata, esco alle 7,30 e faccio rientro a casa verso le 20. Il sabato e la domenica, poiché amo il mare, me ne  vado verso Procida o Ischia a pescare, con il mio gommone”.

“Hai un gommone? Qualche volta mi devi portare in giro per il golfo”.

“Senz’altro. La prossima domenica potrebbe essere la giornata perfetta, mare permettendo”

Durante l’intera settimana, quasi tutte le sere, ci siamo sentiti al cellulare, restando a chiacchierare fino a tarda sera.

Il Sabato le telefono per fissare un appuntamento per la domenica mattina, destinazione: giro del golfo, puntatina a Capri e ad Ischia e pranzo in una taverna, al porto di Procida.

È stata una magnifica giornata, io e Luisa sembriamo essere fatti l’una per l’altro.

Incominciamo a frequentarci più spesso, a volte siamo andati a ballare in qualche discoteca, senza mai perderci dei film interessanti.

Passano alcuni mesi. Da cosa nasce cosa… Ci siamo fidanzati e, dopo appena due anni, ci siamo sposati.

E dire che quella giornata d’autunno non prometteva nulla di buono!…

(Ottobre 2020)

 

 

Gita sul Vesuvio

 

di Alfredo Imperatore

 

Il venir meno al vincolo matrimoniale, da parte di uno dei due coniugi, è una delle cause di addebito durante la separazione o il divorzio.

Un antico adagio, relativo alle persone “pericolose” per la fedeltà coniugale, annovera le tre c: cugino, cognato, compare. Io ne aggiungerei una quarta: la c di collega.

Alle falde del Vesuvio hanno proliferato numerose cittadine, tra cui, le più note, sono Pompei ed Ercolano, in quanto i loro scavi hanno potuto evidenziare, in modo sorprendente, gli ultimi attimi di vita di quei cittadini dell’antica Roma, rimasti sepolti sotto un’intensa coltre incandescente di lapilli e cenere, durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

Tra le più estese località vesuviane vi è Torre Annunziata, ove pullulano negozi, uffici, agenzie etc.

Come chiamare una coppia fedifraga? Ci sono molti sinonimi. In materia di amore extraconiugale. Di volta in volta, si sono sostituite le parole, spesso legate ai personaggi interessati. Amante ha un qualcosa di dispregiativo (Claretta Petacci era l’amante di Mussolini); ma quando il migliore dei comunisti, (Palmiro Togliatti, ndr) anch’egli sposato con prole, incominciò ad amoreggiare con la futura presidentessa della Camera, Nilde Iotti, si pensò bene, trattandosi appunto di comunisti, di sostituire la parola amanti con la più soft di compagni. Oggigiorno il termine amante, come il corrispondente concubino, non è quasi più usato.

Si preferisce dire, oltre che compagno, anche convivente, coppie di fatto, e, se si vuol dare un alone di romanticismo a una coppia fedifraga, si ricorre alla proposizione: “quei due hanno una storia assieme”.

 

                                                             ***

 

Lina e Nicola erano due colleghi che lavoravano nella succursale di un’importante banca nazionale e, come spesso accade, la colleganza col tempo diventa simpatia e di qui, pian piano, si va oltre.

Il marito di Lina, Luigi, un giorno decise  di partecipare a una gita sul Vesuvio, organizzata da una compagnia turistica del luogo, per trascorrere una giornata un po’ diversa. Con anticipo di qualche giorno, comprò due biglietti per un lussuoso pullman e, con la moglie, attese che giungesse la domenica  per la gita programmats.

Purtroppo, la mattina della partenza, Luigi ebbe una forte costipazione, per cui disse alla moglie che non se la sentiva di andare alla gita, ma che lei poteva ugualmente andare, magari con qualche collega, tanto per non perdere il biglietto già acquistato.

Lina, dopo una finta perplessità, acconsentì, tanto per farlo contento e, simulando un’incertezza su chi invitare, telefonò a Nicola. Questi, sebbene sorpreso, non se lo fece ripetere e, dopo essersi vestito in tutta fretta, si recò al luogo dove sostava l’autobus per il raduno.

La gita iniziò nel migliore dei modi; la bella e poliglotta speaker al microfono, con gli altoparlanti, illustrava la bellezza dei luoghi, sempre più suggestivi, man mano che ci si avvicinava al posto ove gli automezzi avrebbero sostato, per poi proseguire a piedi sino all’ultima vetta del cratere.

Giunti colà, si poteva ammirare uno spettacolo incomparabile: il bello e l’orrido erano armonicamente fusi.

Gli escursionisti ristettero a lungo nella lusinga dell’estasi, ma poi, con l’avvicinarsi del tramonto, decisero di avviarsi sulla strada del ritorno.

Il declinare del sole era stato meraviglioso: nella cornice dell’impareggiabile panorama della vecchia Partenope, con le mille luci occhieggianti attraverso il diafano velario del lento passaggio alle ultime ore del vespro.

Il grande disco d’oro del sole si vedeva scendere dietro Capo Miseno con uno sprazzo di luce sfolgorante, che lentamente era sostituito dall’implacabile imbrunire.

Lina e Nicola non si beavano di quelle splendide immagini, perché si erano allontanati dagli altri gitanti, nascosti in un anfratto ombroso.

<Dunque> dice Nicola, approfittando della gita, quasi a conclusione di un discorso altre volte cominciato <non avrò mai nessuna speranza?>. La sua voce è impetuosa, ma carezzevole; la sua anima ardente vibra in questa invocazione disperata, mentre un tremito irrefrenabile serpeggia in lui.

Lina non risponde. Gli figge in volto i suoi grand’occhi azzurri, stringendo le sottili labbra in una contrazione dolorosa, quasi a impedire la crudele parola di diniego, che le gorgoglia in gola. Gli attimi passano e l’aria che li circonda si carica di un magnetismo pauroso.

Nel fondo dell’orribile cratere, la ciclopica fucina riversa torrenti di lava incandescente,da cui emanano spesse cortine di fumo, che innalzano una greve nebbia nelle tenebre.

Nicola riprende: <Ho un dubbio lancinante che dissolve tutta la mia vitalità. E’ indispensabile un’assoluta definizione di una tua inesatta valutazione del mio sentimento per te. Lascia la tua famiglia e fuggiamo lontano da tutti, in modo da poter vivere il nostro amore senza ostacoli e reticenze>. <Perché mi tormenti cosi?>. Risponde la donna con soave accento di preghiera. <La nostra è una relazione passionale, ma il mio cuore è di un altro. Sii ragionevole, raggiungiamo gli altri compagni>.

Nicola le ghermisce il polso e l’avvinghia a sé mentre i loro corpi entrano in contatto, saturi di lussuria nel momento in cui lei gli ricorda che non ha preso la pillola….

D’altra parte, come tutti gli amanti, erano abituati ad avere rapporti molto veloci, specialmente nella “pausa pranzo”, ove le cosiddette “sveltine” si fanno dovunque si può trovare una zona nascosta o appartata.

Quindi si ricompongono e, individuato il gruppo di gitanti che sta per iniziare il ritorno, frettolosamente si accodano a loro.

Al ritorno, sul pullman, tra i viaggiatori c’era chi commentava la giornata e chi si appisolava; e quel sonno, breve e leggero, era comunque rigeneratore dopo la bella e lunga gita. Anche Nicola e Lina, sistematisi l’uno lontano dall’altra, si assopirono, dopo quel turbinoso momento che li aveva prima contrapposti e poi affiatati…

 

                                                                ***

 

Giunta a casa, Lina aprì la porta e vide la tavola apparecchiata, mentre il marito le veniva incontro: <Ti sei divertita?> <Abbastanza.> Replica lei. <E tu come ti sei sentito?> <Discretamente. Meglio.  Ho mangiato della pastasciutta, del formaggio e della frutta che era in casa. Ho telefonato anche al  salumiere e gli ho fatto portare del pane, della mozzarella e del prosciutto cotto per la cena di stasera con nostro figlio Giacomo. Stamane è andato dai nostri dirimpettai e si è trattenuto finora; tornerà tra poco>.

Infatti, subito dopo, bussano  alla porta ed entra il figlio. Poi, Lina e Giacomo, una dopo l’altro, vanno nel bagno per rinfrescarsi. Si siedono a tavola e cenano, mentre Lina racconta entusiasta della gita al Vesuvio.

Quindi dice: <Luigi, appena sarà possibile dobbiamo ripetere l’escursione assieme.> <Certamente, con vero piacere.> replica il marito. Poi, Giacomo si alza, saluta e va in camera sua a giocare con lo smartphon, come solitamente fanno tutti i ragazzi prima di addormentarsi.

Dopo aver visto un po’ di televisione, anche i coniugi vanno a letto.

 

                                                           ***

 

Sotto le lenzuola, Lina si avvicina al marito e lo stringe a sé. Luigi le dice: <Ma non sei stanca?> E lei: <Mi spiace che sei stato tutta la giornata solo…> e si stringe a lui ancora di più. Luigi, tanto per farla finita: <Hai preso la pillola?> E lei: <Ma non ti sembra che sia giunto il momento di dare una sorellina a Giacomo?>.

Forse pensa: “è meglio confondere un po’ le cose… Non si può mai sapere…!”.

(Ottobre 2020)

UNA STORIA COMMOVENTE

 

di Luigi Rezzuti

 

Miguel e Maria Garcia si sono conosciuti per le strade colombiane quando, entrambi senzatetto, erano tossicodipendenti.

Col tempo, a fatica, sono riusciti ad uscire dal tunnel della droga, cercando con tutte le forze di regalarsi, insieme, mano nella mano, una vita migliore.

Ma l’unica dimora che sono riusciti a permettersi è stata una fogna, sottoterra, proprio come si sono sentiti per anni a causa della triste dipendenza.

Questo però non ha arrestato la loro voglia di ricominciare e di farcela, contro tutto e tutti.

Una vicenda di sopravvivenza che racconta, non solo il disagio di una vita di stenti, ma anche la forza di resistere alle avversità e di vivere, sempre e comunque.

Oggi Miguel e Maria sono ancora lì, in quello scarico abbandonato, sotto la zona industriale della città. Anche se hanno ricevuto diverse proposte di ospitalità, hanno preferito restare lì, in quel “nido”, emblema della loro rinascita.

L’improbabile abitazione è talmente piccola da non consentire di camminare in piedi; eppure quella fogna è pregna d’amore, di tenerezza, di speranza.

I due sono riusciti ad usare al meglio tutti gli spazi disponibili: all’interno hanno un armadio, un letto ed un cucinotto; ci sono anche un piccolo ventilatore, una TV ed una radio; unico limite, l’assenza della doccia che li costringe ad usare dei secchi per far fronte alla cura della propria igiene personale.

Miguel e Maria non sono soli; con loro c’è il cane Blackie, che spesso viene visto dai vicini scorrazzare all’esterno del tombino, nel piccolo giardino attiguo, allietato da fiori, che, a Natale, vanta perfino un albero decorato a festa.

Una storia tenera ed incredibile, piena di dignità e di coraggio.

Miguel e Maria, nonostante tutto, sono riusciti a sopravvivere: portano addosso i segni della sofferenza, ma sanno di poter contare l’uno sull’altra e sulla compagnia, unica e fedele, del loro amatissimo amico a quattro zampe.

(Luglio 2020)

Genny Esposito l’americano

 

di Alfredo Imperatore

 

Nel 1920, Genny Esposito, era venuto dall’America in Italia con un grosso conto in banca, portava a un dito un vistoso anello con diamante e al gilè era legata una massiccia catenina d’oro, alla quale era assicurato un grosso orologio da tasca, come si usava tanti anni fa.

La nostalgia della terra dei suoi avi, l’aveva riportato in Patria, a godersi in pace e tranquillità, i frutti della sua lunga vita di lavoro e di tanti sacrifici. Aveva deciso di acquistare un vasto fondo dal marchese Trappia per due milioni e seicentomila lire, per assicurarsi una rendita durevole.

Genny Esposito posò sul tavolo del notaio, un voluminoso pacco di banconote; questi lesse l’istrumento e fece firmare l’atto al marchese. Poi disse: <Ora a voi signor Esposito, firmate qui>.

L’italoamericano prese la penna e lentamente segnò sulla carta bollata, un robusto segno di croce.

Al buon notaio scappò detto: <Così, e avete guadagnato tanti milioni? Chissà quanto sareste più ricco se aveste saputo scrivere>. Farei il sagrestano, rispose un po’ beffardo Genny e, mentre il marchese contava lentamente i soldi, incominciò a raccontare in uno stentato italiano, che certamente aveva appreso insieme ad altre lingue, durante il suo girovagare per il mondo, sinteticamente la sua vita.

Sua madre era morta donandogli la vita. Suo padre, poco dopo. era finito col male dei poveri, la tubercolosi; erano entrambi di origine italiana. Perlomeno così gli avevano detto nell’ospizio, prima di affidarlo, a meno di sei anni, a una coppia in cerca di un bambino, senza troppi preliminari, com’era consuetudine dell’epoca.

Fu subito messo in strada dai suoi affidatari a chiedere l’elemosina, poi, appena grandicello, incominciò a fare i lavori più umili, portando sempre a “casa” i miseri guadagni.

Appena poté, abbandonò quelli che erano stati i suoi sfruttatori, di nascosto prese i documenti e fuggì lontano, girovagando in lungo e in largo, facendo qualunque lavoro gli veniva proposto.

A diciotto anni ebbe anche un amore, che fu di breve durata, perché capirono entrambi che il loro futuro sarebbe stato a dir poco misero.

In un Natale rigido e piovoso, essendo stato sfrattato dalla casupola dove soggiornava, perché era rimasto senza soldi, si fermò a riposare sulla soglia di una chiesa, triste, affranto e con i morsi della fame nello stomaco.

Disperato e in lacrime entrò poi in chiesa e si avviò alla sacrestia. Così lo vide un vecchio curato e ne ebbe pietà. <Buon giovane che fai qui e perché piangi?>.

<Sono senza letto, senza lavoro e ho fame>. Il pastore replicò: <Vuoi rimanere con me?>. Il ramingo gli baciò una mano in una manifestazione di calda riconoscenza.

Il sacerdote, dopo averlo rifocillato con un bicchiere di latte e del pane raffermo, gli porse il libriccino per imparare a servire la messa. Vedendo la sua perplessità gli disse: <Giovanotto, non sei forse contento?>. Genny obiettò: <Io purtroppo non so leggere>.

Il prete, sorpreso e imbarazzato, rispose: <Povero figlio, avrei voluto aiutarti, ma così, proprio non posso far niente>. Gli mise in mano degli spiccioli e lo accomiatò.

Genny si allontanò dalla casa di Dio, senza voltarsi, senza neanche ringraziare e s’immerse nel buio della strada. Era quasi spiovuto e girovagò nel freddo come un incosciente, finché si trovò improvvisamente al porto; l’acqua era torbida dai riflessi verdastri.

Farla finita con la vita! Questo il pensiero che gli martellava nel capo, quando un improvviso e assordante fischio di sirena lo scosse; fu questo richiamo alle cose vive la sua salvezza.

Non molto distante un grosso “tre alberi” toglieva le ancore, mentre sulla tolda i marinai addetti alla manovra parevano fantasmi agitati. Improvvisamente, uno sprazzo di luce violenta, illuminò il suo cervello. Vivere lontano, lottare e vincere: queste parole splendettero in lui, più chiare della luce solare.

Corse lungo la banchina, si accostò alla murata della nave, lungo la quale pendeva una gòmena, stesa come un lungo braccio di salvezza e vi si afferrò. Lottò contro lo sballottamento e i sobbalzi del naviglio, contro la paura e la stanchezza dei muscoli; s’inerpicò finalmente a bordo.

Strisciando carponi, lentamente e silenziosamente, riuscì a guadagnare la stiva. Il più era fatto, certamente non l’avrebbero buttato ai pesci.

Il resto lo fece il destino!

(Aprile 2020)

WEEKEND SULLA NEVE

 

di Luigi Rezzuti

 

Tutto ebbe inizio con il weekend che Franco e Vanessa avevano deciso di fare in montagna.

Partirono nel primo pomeriggio ed arrivarono prima di cena in albergo.

Dopo essersi sistemati in camera ed aver fatto una doccia per riprendersi un po’, si apprestarono a scendere nella sala ristorante per la cena.

Mentre Vanessa si preparava, Franco la guardò attentamente: era davvero bella.

Arrivati giù, si accomodarono al tavolo ed iniziarono a cenare quando da un altro tavolo si sentirono chiamare. “Vanè … Vanessa!” era Enza, la madre della sua amica del cuore, Marianna, che era lì con il marito Sandro.

Dpo i classici convenevoli “Anche voi qui?”, “Fino a quando vi fermate?”, decisero di sedere tutti allo stesso tavolo.

Durante la cena Franco notò come Enza e Sandro erano una coppia davvero in forma, nonostante non fossero più giovani.

Lui, 55 anni, con un po’ di pancetta, molto elegante, battuta sempre pronta.

Lei, qualche anno in meno e fisico ben curato.

Intorno alla mezzanotte si salutarono e si diedero appuntamento per il giorno seguente, con l’intesa di trascorrerlo insieme.

E infatti la trascorsero sulle piste, fra discese, foto, qualche caduta e molte risate.

Per la sera, in albergo, era stata organizzata una festa dopo cena.

Vanessa per l’occasione si presentò con un vestitino nero, molto elegante, con una scollatura non troppo evidente, tacchi normali e, sulle labbra, un tocco di rossetto color carne.

Arrivati nel salone, Franco notò che anche Enza non ci scherzava: aveva un vestito blu con le bretelline, un po’ più lungo di quello di Vanessa, tacchi normali e anche lei sfoggiava una scollatura, ma non eccessiva.

La cena era appena iniziata e, dopo qualche brindisi di troppo, Sandro li spiazzò tutti dicendo: “Vanè … ti ricordi quando da piccola ti eri innamorata di me?”.

Vanessa arrossì ma non tardò a rispondere “Certo che mi ricordo, mi piaceva il modo come ti vestivi e come parlavi ...”

“Vabbè, eri una bambina” rispose Sandro ed aggiunse, con uno stupido risolino, “Anche se adesso un pensierino lo farei …” mentre in cuor suo Franco pensava “Vedi che bel cretino, questo qui!”

“Sandro”, intervenne allora Enza, fingendo di picchiarlo “Finiscila dai … La metti in imbarazzo!”, aggiunse sorridendo.

La serata continuò sempre con molte battute e tanto vino.

Dopo cena, cominciò la musica e iniziarono a ballare.

Vanessa era abbastanza brilla. Anche i nostri amici non erano da meno ma riuscirono a tenersi in piedi per ballare.

Ad un certo punto, durante un ballo, ci fu uno scambio di dame e Franco si ritrovò Enza fra le braccia

Tra un giro e l’altro notarono che Vanessa e Sandro, oltre che ballare, si scambiavano paroline all’orecchio e dopo poco ridevano.

“Chissà cosa avranno da ridere quei due?” disse Enza … sorridendo.

Franco strinse le spalle come per far capire che non poteva saperlo e sorrise anche lui di un sorriso stentato.

Verso le due di notte la sala era quasi vuota e decisero di ritornare ognuno nella propria camera.

La camera di Sandro ed Enza, all’ultimo piano, era davvero una suite quasi reale, bellissima, grande e sfarzosa.

Il giorno dopo, di buon mattino, i quattro presero la seggiovia che portava su alle piste, per poi ridiscendere sciando.

Ad un certo punto la seggiovia si bloccò a metà percorso. Vanessa iniziò ad avere paura, ma Franco la rassicurava dicendo: “Non aver paura si tratterà di una breve interruzione.” Infatti, non aveva nemmeno finita la frase che la seggiovia riprese il percorso.

Alle 13,30 ritornarono abbastanza stanchi in albergo, raggiunsero le loro camere e, dopo essersi cambiati, scesero nel salone ristorante.

Nel pomeriggio decisero, poi, di andare a fare shopping per le strade del paesino e, verso sera, dopo aver cenato in una taverna tipica, nei dintorni, ritornarono in paese.

La mattina seguente Franco e Vanessa salutarono Enza e Sandro, ringraziandoli per aver trascorso, in loro compagnia, un weekend indimenticabile.

Era stata un’esperienza bellissima. Peccato, però, mai più ripetuta.

(Gennaio 2020) 

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