La chiesa di Santa Maria in Portico
di Antonio La Gala
L’antica chiesa di Santa Maria in Portico, che sorge fra via Martucci e la Riviera di Chiaia, fu voluta da una nobildonna appartenente alla famiglia Orsini dei duchi di Gravina, famiglia che possedeva a Napoli palazzi e vastissimi terreni che dalla Riviera di Chiaia salivano fino al Vomero.
La nobildonna era la duchessa Felice Maria Orsini, nata a metà degli anni Settanta del Cinquecento, che sposò, a dodici anni, don Pietro Gaetani di Roma, duca di Sermoneta, anche lui giovanissimo, appena tredicenne.
Rimasta vedova a 34 anni e senza prole, si ritirò in un monastero romano di nobili oblate, quello di Santa Francesca romana, vicino alla chiesa romana di Santa Maria in Portico.
Qui cominciò a praticare la devozione per un’immagine della Vergine che si venerava in quella chiesa e prese a stimare i proseliti del beato lucchese Giovanni Leonardi, il quale, nel 1574, aveva fondato, a Lucca, l’Ordine della Madre di Dio, che, a Roma, custodiva il tempio di Santa Maria in Portico e l’immagine che si venerava, perché considerata prodigiosa. L’immagine consisteva in una tavoletta di 26 per 20 centimetri che, secondo la tradizione, era apparsa nel 524 a santa Galla, vedova del console Valerio, ucciso da Teodorico nel portico attiguo alla casa di santa Galla.
Nel 1627 la duchessa tornò a Napoli per occuparsi delle proprietà di famiglia, essendone rimasta la sola erede, dopo la morte dell’unico fratello.
Per la stima e simpatia che negli anni romani aveva acquisito verso l’Ordine dei Padri Lucchesi e per la devozione che nutriva verso l’immagine di Santa Maria in Portico, la duchessa decise di donare a questi religiosi il palazzo dove era nata per farlo sostituire con un tempio dedicato proprio a Santa Maria in Portico, e fece costruire ex novo, vicino alla chiesa, un edificio per loro dimora, un collegio. Affidò ai padri Lucchesi anche il compito di introdurre in Napoli il culto di Santa Maria in Portico.
Ottenuto nel 1632 il permesso dall’arcivescovo, la nobildonna si impegnò a costruire, entro tre anni ,la chiesa al posto del suo palazzo, e il collegio.
Il tempio fu aperto al culto alla fine del 1633. Un’immagine sacra simile a quella venerata a Roma si vedeva nel muro dietro l’altare maggiore, proprio nel punto che, nel palazzo demolito, corrispondeva alla camera in cui la Gravina era nata.
La duchessa poi fece dipingere un’altra immagine della Santa Maria in Portico, più preziosa, che nel 1638 fu trasportata, in solenne processione, dalla chiesa di Santa Brigida, da poco acquisita dai Padri Lucchesi, alla nuova chiesa di Chiaia.
L’edificio nuovo costruito nel 1632 per il collegio dei chierici riusciva a ospitare una ventina di religiosi. Nel corso degli espropri che l’Ordine subì nell’Ottocento, esso tuttavia rimase ai religiosi, nell’attuale via Martucci.
La duchessa per i suoi meriti fu affiliata all’Ordine.
Nel testamento dispose che il palazzo dove abitava, un grande edificio che aveva acquistato dopo aver trasformato quello avìto in chiesa, alla sua morte fosse destinato a ospitare il noviziato dell’Ordine dei Lucchesi.
La duchessa morì il 2 febbraio 1647. Un anno prima aveva donato ai Padri Lucchesi il resto delle sue proprietà.
In sostanza, fra il 1631 e il 1646 la Gravina donò a quei Padri tutta la zona che da Via Martucci arrivava al Vomero, a via Cimarosa.
I Padri, per riconoscenza, oltre a seppellirla in una cripta sotto la cupola della chiesa da lei voluta, le eressero un busto all’entrata del collegio e ne fecero dipingere un ritratto a olio che ora si trova nella piccola casa ecclesiale rimasta ai religiosi al tempo degli espropri.
Nel ritratto la Gravina veniva raffigurata vestita da oblata di Santa Francesca romana, mentre sostiene l’immagine di Santa Maria in Portico, vicino alla pianta della chiesa.
Il noviziato fu aperto nel 1648 (era il terzo dell’Ordine, dopo quello di Lucca e di Roma), e fu congiunto con logge e passaggi vari al fabbricato usato per dimora dei Padri, fatto costruire nel 1632.
Nei tempi successivi, questi edifici subirono rimaneggiamenti e ampliamenti vari, andando a costituire un complesso religioso, articolato in quattro corpi di fabbrica, fra loro collegati, circondati e sovrastati da cinque giardini.
Oltre ai cinque giardini, apparteneva a Santa Maria in Portico tutto il territorio che, dal collegio, si estendeva fin sopra il Vomero, senza alcuna interruzione, la cui parte alta sarà poi trasformata nell’attuale villa Floridiana, in villa Lucia e parco Grifeo. Detto territorio era costituito da una parte boschiva, da un bell’uliveto, da vigne e piante da frutto.
Nel corso degli eventi della Repubblica partenopea del 1799 i Padri Lucchesi dovettero sborsare, a favore di Ferdinando IV, che raccoglieva i soldi per preparare la difesa contro i Francesi, 5.000 ducati, impegnandosi a versargliene altri 1.000 ogni anno. Per fare ciò si ridussero a vendere arredi sacri d’argento e altre cose. Successivamente dovettero versare 500 ducati anche ai Giacobini, che avevano imposto alla città un prestito forzoso.
Novembre 2025
Belle Époque
Come saliva al Vomero chi non prendeva le funicolari
di Antonio La Gala
Nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento, nel periodo della belle époque, i mezzi di trasporto pubblico più utilizzati per salire al Vomero erano le funicolari, nateS a fine Ottocento, proprio per poter spostare i napoletani in collina, fino ad allora rimasta un luogo agreste, (la terra dei broccoli), luogo di fatto separato dal resto della città, per la sua difficile accessibilità con i mezzi di trasporto dell’epoca.
Ma nella belle époque come saliva al Vomero chi non usava le funicolari? Quali altri mezzi di trasporto pubblico affiancavano le funicolari?
A Napoli il servizio di trasporto pubblico veniva svolto prevalentemente con omnibus, cioè carrozze trainate da cavalli. Anche quando nel 1876 nel centro della città comparvero i binari, i binari erano usati da carrozze ancora trainate da cavalli. All’epoca i “motori” erano solo gli animali.
Negli anni Ottanta si sperimentarono tram a vapore.
Una linea a vapore lambì il Vomero. Partiva dal Museo, passava per Piazza Mazzini, proseguiva per Corso Vittorio Emanuele, per raggiungere Mergellina e la Torretta. I disagi provocati da una cremagliera per vincere la pendenza di Salvator Rosa, la poca efficienza energetica di far salire una locomotiva piena d’acqua per portare qualche viaggiatore, il disagio creato dal vapore fra le case, portarono alla sua abolizione.
Grazie alla maggiore potenza del subentrante motore elettrico, si rese inutile mantenere la cremagliera e la linea fu trasformata in elettrica.
Nel 1899 da un punto di questa linea, da Piazza Mazzini, fu diramata una linea per il Vomero, che saliva per Conte della Cerra, verso Antignano. Il 25 marzo 1899, il primo tram elettrico, il leggendario n.7, dal capolinea di Piazza Dante, raggiungeva il capolinea di San Martino.
Comunque i vomeresi per spostarsi preferivano le funicolari: tempi di percorrenza di alcuni minuti contro almeno la mezzora dei tram. Inoltre con i tram bisognava fermarsi ai numerosi incroci, e le attese fra un mezzo e un altro mettevano a dura prova i viaggiatori, tant’è che erano sorti dei posti “di ristoro” nei luoghi d’attesa. Infine erano frequenti i deragliamenti in discesa.
Il 16 ottobre 1902 si aprì un’altra linea elettrica per la collina, la n. 9. Anch’essa partiva da Piazza Dante, ma da Salvator Rosa si diramava per la Salute, Via Confalone, e si attestava in Piazza Arenella.
Anche con l’avvento delle funicolari e dei tram elettrici, al Vomero non tramontò l’era dei cavalli. Agli inizi del Novecento troviamo ancora linee di omnibus, ma ormai i tempi erano maturi per la loro scomparsa: dopo la guerra mondiale non se ne trovano più tracce.
Nelle due figure che accompagnano questo articolo presentiamo il leggendario tram n. 7 e la sua versione estiva belle époque, all’angolo fra via Luca Giordano e via Scarlatti.
Ottobre 2025
Santa Maria di Costantinopoli a Cappella Cangiani
di Antonio La Gala
Come recita il suo titolo, questa chiesa si trova vicino Cappella Cangiani, al Vomero Alto. È sorta a seguito dell’intenso sviluppo abitativo di quella zona nel secondo dopoguerra, in sostituzione di due precedenti chiese con lo stesso titolo, divenute insufficienti: una cappella fondata nel 1575 e una chiesa aperta nel 1914.
A Napoli il culto per la Vergine di Costantinopoli si era diffuso nei secoli del Ducato bizantino, quando Napoli, dopo la sua riconquista da parte dei Bizantini nel 553, rimase a lungo nell’area culturale e religiosa greco-orientale.
La dedica di chiese a Santa Maria di Costantinopoli era comunissima per la devozione tributataLe dai napoletani, come, dimostra, ad esempio, la costruzione della chiesa al Museo, dopo la pestilenza del 1556.
In collina una chiesetta con lo stesso titolo, costruita a metà Seicento, e abbattuta negli anni Trenta del Novecento, s’incontrava ad Antignano, alla confluenza di Via D’Annibale e la discesa verso il centro di Napoli, di San Gennaro ad Antignano.
La prima cappella ai Cangiani dedicata alla Vergine di Costantinopoli fu fondata dalla famiglia Cangiano, che da quelle parti aveva notevoli possedimenti almeno dal Quattrocento, dando il nome al piccolo borgo e alla zona, quando in collina i piccoli caseggiati rurali prendevano il nome delle famiglie proprietarie.
La cappella custodiva un’icona della Vergine di Costantinopoli, che qualcuno faceva risalire al Trecento. Passata per via testamentaria alla Curia, dopo un po’ di tempo la cappella fu affidata a un sacerdote che alloggiava in una stanza sopra la cappella e poi agli Agostiniani, che vi aprirono a fianco un piccolo convento e dedicarono la cappella al loro santo.
Come data della fondazione, alcuni indicano il 1575 e come fondatore Antonio Cangiano, invece lo scrittore Aloe annota: “È una cappella sita presso il casale dell’Arenella dove si dice Orsolone, fondata l’anno circa 1614 da Giovanni Vincenzo Cangiano e dotata d’un pezzo di territorio contiguo, fu poi dall’istesso padrone concessa ai frati di S. Agostino, i quali vi hanno accomodate alcune celle per loro habitazioni”.
Ai Cangiani dopo la fondazione della cappella, la popolazione del piccolo villaggio agricolo che vi viveva attorno, cresceva, tant’è chela vecchia chiesetta, nonostante un restauro a metà Ottocento, non riusciva più a ospitare i fedeli, che spesso restavano fuori al tempio, pur stipandosi alcuni anche sull’ammezzato ove era l’organo.
Si rese necessario costruire una nuova chiesa.
Nel 1904 fu acquistato un suolo di fianco alla vecchia chiesa, dove, su disegno dell’ingegnere Alfredo Pastacalda, fu costruito un nuovo tempio, aperto al culto il primo ottobre 1914, prima come succursale di parrocchie vicine, e poi come parrocchia autonoma dal 1925.
Nel secondo dopoguerra, dopo una ristrutturazione di questa chiesa avvenuta nel 1951, l’esplosione demografica del Vomero Alto renderà necessaria la costruzione ancora di un altro tempio, iniziata nel 1969, ancora con lo stesso titolo di Santa Maria di Costantinopoli, inserito in un ampio complesso eretto a parrocchia nel 1976, realizzato lungo via Semmola, alle spalle della chiesa aperta nel 1914 su via Cangiani,.
L’esterno della nuova chiesa è costituito da forme architettoniche fortemente moderne.
All’interno, nell’ariosa sistemazione architettonica moderna, esaltata dal gioco di luce delle vetrate, risultano ben assorbite alcune testimonianze antiche, fra cui il dipinto con la Madonna di Costantinopoli, già esposto nella cappella dei Cangiano e poi nella parrocchia del primo Novecento, e, sistemato nell’area absidale, un Crocefisso ligneo dei primi anni del Seicento, opera di Michelangelo Naccherino, che proviene dalla chiesa trecentesca dell’Incoronata di via Medina.
La chiesa di Santa Maria Antesecula in via Fontana
di Antonio La Gala
Nel Cinquecento i frati Minimi di San Francesco di Paola al Vomero risiedevano nel Convento di Calata San Francesco, espropriato nell’Ottocento. Come nuova sede si risistemarono in area Montedonzelli, ma nel secondo dopoguerra persero anche questa sede a causa delle trasformazioni edilizie della zona. Oggi li ritroviamo in via Fontana, titolari della parrocchia di Santa Maria Antesecula in via Fontana.
Come è avvenuto questo ultimo passaggio?
Dopo lo sloggiamento da Montedonzelli, il cardinale Ursi, nel 1969, assegnò alla Provincia Napoletana dei Minimi la titolarità di una nuova parrocchia che veniva istituita in area Montedonzelli-Via Fontana, per assecondare lo sviluppo edilizio di quell’area.
Dal mese successivo la nuova parrocchia ebbe sede provvisoria in un terraneo di via Fontana 107/A, un oratorio aperto molte ore al giorno e nei giorni festivi per la celebrazione delle funzioni religiose.
Realizzata una nuova apposita sede, il 9 giugno 1974 fu inaugurata l’attuale chiesa con il titolo di Santa Maria Ante Secula, titolo preso da un vecchio tempio del centro storico di Napoli, titolo che nasce dalla frase “Ab initio et ante secula creata sum” dove l’espressione Ante Secula è diventato per traslato una delle attribuzioni che la Chiesa conferisce alla Madonna.
Stilisticamente la chiesa presenta, all’esterno e all’interno, linee essenziali. Sull’altare maggiore c’è l’immagine della Madonna che apparve nel 1842 all’ebreo Alfhonse Ratisbone nella chiesa romana di S. Andrea delle Fratte.
All’esterno della chiesa è stata recentemente eretta una statua di San Francesco di Paola, che poggia su un articolato e (incomprensibilmente) alto basamento lapideo.
San Francesco di Paola è stato un santo molto presente nelle devozioni dei napoletani, come testimonia la diffusione delle sue immagini nelle chiese della città e nei dipinti, in particolare dell’Ottocento. Tenendo presente ciò, qui crediamo far cosa utile dire qualcosa sulla sua figura.
Il santo è protettore dei naviganti per aver attraversato, secondo la tradizione, lo stretto di Messina sul suo mantello. Nacque nel 1416 a Paola, sul litorale calabro, e gli fu dato il nome del santo di Assisi per la devozione che i suoi genitori avevano verso questo Santo. Morì in Francia nel 1507. Diventato frate, la sua vita ascetica e i miracoli che gli si attribuivano, gli dettero tale fama di taumaturgo tant’è che quando il re di Francia Luigi XI si ammalò, volle che venisse in Francia. Nonostante i suoi 67 anni, il santo si avviò verso la Francia; per raggiungerla s’imbarcò a Napoli, ed è allora, siamo nel 1483, che è nato il suo legame con la città. Un altro momento che rafforzò il legame fra Napoli e il santo fu quando Ferdinando I tornò a Napoli nel 1815. Il Borbone aveva fatto voto al santo che, se fosse riuscito a recuperare il trono, gli avrebbe eretto una chiesa.
Sciolse il voto erigendo la grande basilica che fronteggia palazzo reale.
Il santo divenne patrono del Regno delle Due Sicilie ed è uno dei numerosi compatroni di Napoli.
San Giovanni dei Fiorentini al Vomero: uno scrigno nuovo d’arte antica
di Antonio La Gala

Una chiesa vomerese costruita nel secondo dopoguerra, architettonicamente configurata secondo lo stile di quegli anni, conserva al suo interno pregevoli opere pittoriche rinascimentali: uno scrigno nuovo d’arte antica.
È la Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini al Vomero,che sorge vicino Piazza degli Artisti.
Ḕ stata aperta al culto nel dicembre 1959 e benedetta il 19 marzo 1960.
Prende il titolo da un’antica chiesa esistente nel rione Carità, punto di riferimento religioso della comunità toscana presente a Napoli nel passato, abbattuta nel 1953, in occasione della sistemazione laurina di quel rione.
La presenza dei Fiorentini (e altri Toscani) a Napoli è stata a lungo notevole.
Iniziò nel Trecento con gli Angioini, quando da Firenze, assieme a banchieri e mercanti, vennero a Napoli Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca e molti artisti. Per una dozzina d’anni il sovraintendente di tutte le opere eseguite in città in quel periodo, compresa la costruzione della Certosa di San Martino, fu il senese Tino da Camaino.
La presenza toscana proseguì nei secoli successivi. A metà Cinquecento i Fiorentini a Napoli erano circa 2.700 su una popolazione di 210.000 abitanti; l’architetto Sangallo Da Giuliano fu “prestato” agli Aragonesi da Lorenzo il Magnifico; nel Settecento il potente capo del governo borbonico fu a lungo il toscano Bernardo Tanucci.
Questa importante presenza a Napoli è testimoniata dai toponimi che i Toscani vi hanno lasciato: Rua Toscana, via dei Fiorentini; il teatro Fiorentini si chiama così per il fatto di trovarsi vicino all’antica Chiesa dei Fiorentini. Fiorentino è Pacio Bertini (autore assieme al fratello Giovanni della tomba di Roberto d’Angiò in Santa Chiara), che dà il nome alla via dove sorge la chiesa vomerese dedicata a San Giovanni.
La vecchia chiesa dei Fiorentini, a cui faceva capo la comunità fiorentina di Napoli, demolita nel Novecento, dedicata a San Giovanni Battista (il santo patrono di Firenze), era una chiesa costruita a metà Quattrocento dagli Aragonesi e acquisita dai Fiorentini a metà Cinquecento.
Quando la chiesa antica fu abbattuta, a compenso della cessione dell'area su cui essa sorgeva, la Curia ottenne il diritto di ricostruire una nuova chiesa anch’essa dedicata a San Giovanni Battista, in zona Arenella, su un’area messa a disposizione dal Comune: la chiesa di cui stiamo parlando.
Non ci soffermiamo su quella antica, perché su di essa esiste un’abbondante letteratura, che, in particolare, illustra le opere pittoriche trasferite nella nuova chiesa collinare.
L’esterno del tempio vomerese presenta un’architettura semplificata; la facciata è sormontata da un statua del Battista collocata nel Giubileo del Duemila.
L’interno presenta un’architettura sobria coerente con l’esterno, ma è arricchito dai dipinti che vi sono stati spostati dalla chiesa abbattuta, però ben inseriti nell’architettura interna del nuovo tempio.
I dipinti posti lungo i lati della navata e lungo l’area absidale, sono dei pittori toscani Giovanni Balducci e Marco Pino, operanti nella Napoli vicereale.
Le tele del fiorentino Giovanni Balducci, uno dei maggiori esponenti della pittura devozionale legata alla Controriforma, sono state ricavate dal soffitto della chiesa antica e raffigurano la Nascita del Battista, la Predicazione del Battista, la Decapitazione del Battista.
Le opere del senese Marco Pino, poste nell’abside, costituiscono uno dei nuclei più importanti per la conoscenza del pittore e raffigurano la Chiamata di Matteo (firmata e datata 1576), L’annunciazione, il Riposo in Egitto, l’Ultima Cena, il Battesimo di Gesù.
Quest’ultimo èil dipinto che adorna l'altare, e che accompagna questo articolo.
Opera di un altro fiorentino, Pompeo Caccini, è un dipinto datato 1601 che raffigura San Giovanni in carcere, che troviamo negli uffici del parroco, assiemeaun tondo di Paolo De Matteis del 1609 raffigurante la Madonna con il Bambino, donato dopo la chiusura al culto dell’antica chiesa napoletana di Donnaregina.
Dall’antica chiesa dei Fiorentini demolita sono stati trasferiti anche registri parrocchiali anagrafici (battesimi, matrimoni, ecc.), che partono dal 1628 e arrivano, in maniera parziale, saltuaria, al 1956.
Un brevissimo cenno sulle opere moderne.
Le ventitré vetrate di metri 4x1 che fiancheggiano la navata sono state eseguite fra il 1963 e 1967 dal napoletano Antonio Virgilio e raffigurano il Mistero Pasquale e scene e momenti della vita di San Giovanni.
La sistemazione architettonico/scultorea dell’area presbiteriale è avvenuta in due fasi (1968 e 1984) a opera di Luigi Ciccone.
(Ottobre 2024)

