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San Giovanni dei Fiorentini al Vomero: uno scrigno nuovo d’arte antica

 

di Antonio La Gala

 

Una chiesa vomerese costruita nel secondo dopoguerra, architettonicamente configurata secondo lo stile di quegli anni, conserva al suo interno pregevoli opere pittoriche rinascimentali: uno scrigno nuovo d’arte antica.

È la Chiesa di San Giovanni dei Fiorentini al Vomero,che sorge vicino Piazza degli Artisti.

Ḕ stata aperta al culto nel dicembre 1959 e benedetta il 19 marzo 1960.

Prende il titolo da un’antica chiesa esistente nel rione Carità, punto di riferimento religioso della comunità toscana presente a Napoli nel passato, abbattuta nel 1953, in occasione della sistemazione laurina di quel rione.

La presenza dei Fiorentini (e altri Toscani) a Napoli è stata a lungo notevole.

Iniziò nel Trecento con gli Angioini, quando da Firenze, assieme a banchieri e mercanti, vennero a Napoli Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca e molti artisti. Per una dozzina d’anni il sovraintendente di tutte le opere eseguite in città in quel periodo, compresa la costruzione della Certosa di San Martino, fu il senese Tino da Camaino.

La presenza toscana proseguì nei secoli successivi. A metà Cinquecento i Fiorentini a Napoli erano circa 2.700 su una popolazione di 210.000 abitanti; l’architetto Sangallo Da Giuliano fu “prestato” agli Aragonesi da Lorenzo il Magnifico; nel Settecento il potente capo del governo borbonico fu a lungo il toscano Bernardo Tanucci.

Questa importante presenza a Napoli è testimoniata dai toponimi che i Toscani vi hanno lasciato: Rua Toscana, via dei Fiorentini; il teatro Fiorentini si chiama così per il fatto di trovarsi vicino all’antica Chiesa dei Fiorentini. Fiorentino è Pacio Bertini (autore assieme al fratello Giovanni della tomba di Roberto d’Angiò in Santa Chiara), che dà il nome alla via dove sorge la chiesa vomerese dedicata a San Giovanni.

La vecchia chiesa dei Fiorentini, a cui faceva capo la comunità fiorentina di Napoli, demolita nel Novecento, dedicata a San Giovanni Battista (il santo patrono di Firenze), era una chiesa costruita a metà Quattrocento dagli Aragonesi e acquisita dai Fiorentini a metà Cinquecento.

Quando la chiesa antica fu abbattuta, a compenso della cessione dell'area su cui essa sorgeva, la Curia ottenne il diritto di ricostruire una nuova chiesa anch’essa dedicata a San Giovanni Battista, in zona Arenella, su un’area messa a disposizione dal Comune: la chiesa di cui stiamo parlando.

Non ci soffermiamo su quella antica, perché su di essa esiste un’abbondante letteratura, che, in particolare, illustra le opere pittoriche trasferite nella nuova chiesa collinare.

L’esterno del tempio vomerese presenta un’architettura semplificata; la facciata è sormontata da un statua del Battista collocata nel Giubileo del Duemila.

L’interno presenta unarchitettura sobria coerente con l’esterno, ma è arricchito dai dipinti che vi sono stati spostati dalla chiesa abbattuta, però ben inseriti nell’architettura interna del nuovo tempio.   

I dipinti posti lungo i lati della navata e lungo l’area absidale, sono dei pittori toscani Giovanni Balducci e Marco Pino, operanti nella Napoli vicereale. 

Le tele del fiorentino Giovanni Balducci, uno dei maggiori esponenti della pittura devozionale legata alla Controriforma, sono state ricavate dal soffitto della chiesa antica e raffigurano la Nascita del Battista, la Predicazione del Battista, la Decapitazione del Battista.

Le opere del senese Marco Pino, poste nell’abside, costituiscono uno dei nuclei più importanti per la conoscenza del pittore e raffigurano la Chiamata di Matteo (firmata e datata 1576), L’annunciazione, il Riposo in Egitto, l’Ultima Cena, il Battesimo di Gesù.

Quest’ultimo èil dipinto che adorna l'altare, e che accompagna questo articolo.

Opera di un altro fiorentino, Pompeo Caccini, è un dipinto datato 1601 che raffigura San Giovanni in carcere, che troviamo negli uffici del parroco, assiemeaun tondo di Paolo De Matteis del 1609 raffigurante la Madonna con il Bambino, donato dopo la chiusura al culto dell’antica chiesa napoletana di Donnaregina.

Dall’antica chiesa dei Fiorentini demolita sono stati trasferiti anche registri parrocchiali anagrafici (battesimi, matrimoni, ecc.), che partono dal 1628 e arrivano, in maniera parziale, saltuaria, al 1956.

Un brevissimo cenno sulle opere moderne.

Le ventitré vetrate di metri 4x1 che fiancheggiano la navata sono state eseguite fra il 1963 e 1967 dal napoletano Antonio Virgilio e raffigurano il Mistero Pasquale e scene e momenti della vita di San Giovanni.

La sistemazione architettonico/scultorea dell’area presbiteriale è avvenuta in due fasi (1968 e 1984) a opera di Luigi Ciccone.

(Ottobre 2024)

Nascita del museo della Floridiana

 

di Antonio La Gala

 

La palazzina residenziale della Villa Floridiana al Vomero, sistemata nelle forme definitive nel 1818-19 dall'architetto Antonio Niccolini come elegante residenza della seconda moglie di Re Ferdinando I, ospita uno dei più importanti musei d'Italia di arti cosiddette minori, il "Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina", aperto al pubblico il 10 giugno 1931.

La denominazione ricorda Placido de Sangro, duca di Martina, un nobiluomo napoletano che nella seconda metà dell'Ottocento mise assieme la collezione che i suoi eredi donarono alla città, oggi ospitata nel museo.

Placido de Sangro iniziò la sua raccolta nei primi anni della seconda metà dell'Ottocento, quando lo troviamo impegnato ad acquistare - spendendo gran parte delle rendite del suo ricco patrimonio - un gran numero di rari e preziosi oggetti d'arte, seguendo una moda che si era affermata in Europa dagli anni Trenta di quel secolo. Raccolse maioliche, tabacchiere, vetri, cofanetti, porcellane, in massima parte all'estero, in Europa, e soprattutto nelle città dove la celebrazione di Esposizioni Universali e la presenza di musei specifici per le arti applicate (cioè per gli oggetti artistici aventi una funzione e un uso), rendevano molto vivace il mercato antiquario del settore (Parigi, Londra, Bruxelles).

A quei tempi a Napoli era piuttosto diffusa presso i nobili l'abitudine di tenere nelle proprie dimore raccolte di quadri e altri oggetti d'arte, una specie di museo privato. Il nostro don Placido conservava la sua collezione nel primo piano di palazzo de Sangro, in Piazza S. Angelo a Nilo.

Nel 1881 durante l'assenza da casa del duca, moralmente distrutto dalla prematura perdita dell'unico figlio Riccardo, suicida per amore, una banda di ladri penetrarono con la "tecnica del buco" attraverso il soffitto nella sala del suo appartamento che accoglieva gli oggetti, e asportarono un gran numero di gioielli e la collezione di orologi. Sia per la morte del figlio che per il furto, il duca per cinque anni smise di comprare altre cose, ma alla fine cedette alle esortazioni del fratello Nicola a riprendere la raccolta. 

Il figlio Riccardo aveva espresso in una lettera il desiderio di donare il "museo di famiglia" alla città di Napoli, ma don Placido, nel 1891, morendo, lasciò la collezione ad un nipote omonimo (ne era zio), Placido de Sangro conte de Marsi, il quale la incrementò. Questi, però, volendo esaudire il desiderio di Riccardo, una ventina d'anni dopo ne fece lascito testamentario alla città di Napoli, lasciando l'usufrutto alla moglie contessa Maria Spinelli di Scalea, con facoltà di conservare presso di sé la collezione.

Il Ministero della Pubblica Istruzione, allora diretto da Giovanni Gentile, in un primo momento pensò di adibire l’edificio residenziale della Floridiana a istituto d'Arte, ma dopo vi individuò, invece, il luogo più adatto a ospitare la collezione de Sangro. Subito la contessa Spinelli consegnò allo Stato la collezione.  Fu affidato al duca Carlo Giovene di Girasole il compito di trasferire in Floridiana i preziosi oggetti della raccolta, che nel frattempo era stata sistemata nel palazzo Spinelli al Rione Sirignano, alla Riviera di Chiaia. Il trasferimento avvenne nel 1924-25.

La contessa inoltre contribuì anche a incrementare la raccolta donando mobili ed oggetti di sua proprietà, oltre a collaborare finanziariamente per l'allestimento del museo.

Nel 1925 cominciarono i lavori per allestire un primo nucleo del Museo che due anni dopo fu inaugurato dal Re.

Al momento della regale inaugurazione erano pronte solo sette delle ventidue sale previste, in attesa delle ulteriori donazioni di donna Maria Spinelli.

La sistemazione definitiva della raccolta avvenne nel 1931.

Il 10 giugno di quell'anno la collezione fu aperta al pubblico.

(Giugno 2024)

Gotico partenopeo 

 

di Antonio La Gala

 

 

Fra i lasciti buoni e cattivi degli Angioini a Napoli, va messo in rilievo, fra quelli buoni, lo splendido sviluppo urbanistico, monumentale e artistico della città. L’ammirazione dei visitatori era grande. Boccaccio lodò Napoli “lieta, pacifica, abbondevole, magnifica”.

L’arricchimento artistico si sviluppò seguendo lo stile allora d’avanguardia, il gotico, in particolare quello di rito francese.  Ovviamente i francesi Angioini favorivano i contatti con la Francia e la diffusione di quello stile.

Fra il 1279 e il 1282 Carlo I fece costruire, per farne la nuova reggia, Castel Nuovo, il Maschio, appunto, Angioino.

Per inciso ricordiamo che il castello fu poi rifatto completamente dagli Aragonesi, quindi non è quello che vediamo oggi.

In effetti il castello originario angioino, sia per seguire lo stile gotico e sia perché a quel tempo la difesa militare mirava a impedire la scalata dei muri da parte degli assedianti, si sviluppava in verticale. Dopo di loro, i nuovi padroni di Napoli, gli Aragonesi, del vecchio castello lasciarono solo la cappella palatina, perché per adeguare la difesa dell’edificio agli attacchi dell’artiglieria, che nel frattempo si era affermata come arma d’attacco vincente, costruirono mura più basse e molto spesse, quei torrioni merlati, diventatati un’icona della città.

La costruzione della reggia valorizzò l’area allora libera fra la collina di Pizzofalcone e l’antico centro urbano, area che divenne il nuovo centro politico, amministrativo e di rappresentanza della città, ruolo arrivato fino ai nostri giorni. Il precedente centro di Napoli mantenne la funzione di residenza popolare (anch’esso rimasto fino ad oggi), e si trasformò in un polo di vita religiosa.

In stile angioino, poco dopo la metà del 1200, sorse la chiesa di san Lorenzo Maggiore, costituita da un’unica spaziosa navata con cappelle laterali, un classico delle chiese gotiche.

Dopo il 1280 sorse poi il complesso di san Domenico Maggiore, e all’inizio del Trecento, il Duomo. Sia la chiesa di san Domenico che la Cattedrale in seguito sono state modificate. Seguì la fondazione del tempio di san Pietro a Majella, caratterizzato dalla presenza di austeri pilastri quadrati e massicci, a cui sono addossate semicolonne.

Roberto d’Angiò, anche lui costruttore di importanti edifici, fondò complesso e chiesa di Santa Chiara (che diventerà subito la chiesa della nobiltà),  sorta fra 1310 e 1348, dove, dietro l’altare, Roberto riposa.

Fra gli altri edifici religiosi, lasciati dagli Angioini, ricordiamo Sant’Eligio al porto e la chiesa dell’Incoronata in Via Medina.

Il susseguirsi nel tempo del sorgere dei complessi religiosi – di san Lorenzo, san Domenico, santa Chiara, e poi di Monteoliveto, di Via Medina - rispecchia il progressivo allargarsi della vecchia Napoli verso il nuovo centro di potere, la nuova reggia-castello.

Fra le altre edificazioni angioine vanno annoverate le due grandiose costruzioni sorte alla sommità della collina di san Martino: la Certosa e Sant’Elmo. I lavori della Certosa iniziarono nel 1325 e quasi contestualmente fu realizzato il fortilizio che circa un paio di secoli don Pedro de Toledo trasformerà nel maestoso Castel Sant’Elmo.

Gli Angioini, nello spostamento della capitale da Palermo a Napoli, avevano valutato anche che il porto napoletano, essendo uno dei migliori del Mediterraneo, se veniva opportunamente sfruttato, poteva dare grandi soddisfazioni commerciali.

A tale scopo lo potenziarono, ristrutturarono l’arsenale e intorno al porto svilupparono le aree e le strutture destinate ai traffici mercantili.

Napoli così accolse numerose e operose colonie di forestieri: alle comunità dei Genovesi e Pisani, già residenti dai secoli precedenti, si aggiunsero, oltre agli Angioini, anche Provenzali, Marsigliesi, Catalani, Fiorentini, Fiamminghi, dando alla città un volto cosmopolita.

A queste colonie si deve la costruzione di Fondaci e Logge, e anche chiese e conventi.

Fondaci e Logge erano depositi, ambienti, locali, alcuni dotati di un portico aperto al pubblico, che ospitavano i mercanti forestieri insediati in città, ed erano le sedi delle loro attività commerciali.

I Fondaci, le Logge e le chiese delle colonie mercantili, aperti a ridosso del porto, hanno lasciato traccia nella toponomastica di quell’area (rua Catalana, Loggia dei Catalani Loggia dei Pisani, fondaco dei Genovesi, Chiesa di San Giorgio dei Genovesi, ecc.).

Oltre che in architettura gli Angioini hanno lasciato un forte segno artistico anche nelle arti figurative.

Pittori eminenti come Simone Martini e Giotto, scultori come Arnolfo di Cambio e Tino da Camaino abbellirono con le loro opere, reggia, castelli, palazzi, e le stupende chiese gotiche di San Domenico, santa Chiara, san Lorenzo, santa Maria la Nova, Donnaregina, il Duomo.

Sebbene a quel tempo il clero esortasse a uno spirito penitenziale e anche i primi sovrani angioini seguissero stili di vita sobri, (almeno pubblicamente: Pietro Colletta scrive che “nei penetrali della reggia re e regine angioini nascondevano enormi delitti”), i Francesi introdussero nella nobiltà locale gusti eleganti e raffinati, l’amore per vesti, gioielli, decorazioni, favorendo la crescita delle conseguenti attività artigianali.

(Aprile 2024)

Un “Gigante” della pittura

 

di Antonio La Gala

 

Su Giacinto Gigante e sulla sua opera pittorica esiste una letteratura vastissima e quindi sarebbe ingenua e velleitaria presunzione cimentarsi ad affrontare l’argomento. La breve trattazione svolta in questo articolo si propone perciò solo a contribuire alla conoscenza di questo pittore per chi vi si avvicina avendo scarsa familiarità con la storia della pittura napoletana.

Il padre di Giacinto Gigante, Gaetano, anch'egli pittore, chiamò il figlio Giacinto in onore di Giacinto Diano, di cui Gigante padre era allievo. La famiglia napoletana dove l'11 luglio 1806 l'Artista nacque, fu una famiglia di pittori: oltre al padre furono pittori ben quattro dei sette figli.

Giacinto s'impiegò giovanissimo nel Regio Ufficio Topografico di Napoli, ove conobbe Achille Vianelli che lo presentò al vedutista accademico tedesco Wolf Huber, da cui egli imparò i primi rudimenti, soprattutto su come impostare le vedute, nel cui studio però Giacinto stette pochi mesi. Nei primi anni di attività egli si recò per un breve periodo anche a Roma e si impegnò come litografo ed incisore, ma ben presto preferì seguire il suo estro artistico, cimentandosi come acquerellista.

La svolta artistica di Gigante fu l'incontro con Pitloo, fondatore della “Scuola di Posillipo”, i cui soggetti preferiti, rappresentati con rapide pennellate-impressioni, erano semplici scene di vita quotidiana, riproduzioni luminose del golfo di Napoli, della sua costiera, delle sue isole. Di questa scuola Giacinto Gigante viene considerato il maggiore esponente. Egli si emancipò presto dal Pitloo con spontanee ed estrose vedute per lo più ambientate nel Golfo di Napoli ed a Posillipo. Successivamente l'artista si accostò ai paesaggisti romantici europei di maggiore levatura, come Turner, Bonington, Corot. Da Turner, in particolare, trasse la vivace libertà di tocco, l'abbreviatura formale, e l'arioso luminismo con cui espresse una versione lirica del paesaggio partenopeo, liberandosi dal gusto per il "pittoresco" della tradizione vedutistica, di cui tuttavia conservò l'impianto scenografico, senza però cadere nello scenografismo perché conservò sempre il rigore prospettico e la fedeltà illustrativa appresa da Hubert. "Per Gigante, paesista sommamente dotato, la natura era uno spettacolo immenso e sempre cangiante nella fenomenologia atmosferica, che andava fissata nei suoi aspetti più suggestivi" (Alfredo Schettini).

L'immediatezza dello spunto emotivo gli riuscì meglio negli acquerelli e nelle tempere, grazie alla tecnica specifica di queste forme di pittura. Negli ultimi anni al paesaggio cominciò a preferire la rappresentazione di interni e la figura (la solitudine dei chiostri religiosi, la forza della fede nelle chiese, il sacrificio della clausura, ecc.), avvicinandosi così maggiormente ai valori allora emergenti della pittura romantica, uscendo di fatto dalla catalogazione di pittore della "scuola di Posillipo".

Alcuni critici, per la sua libertà di tocco, nervoso ed impreciso, l'abbreviatura formale e l'ariosa luminosità dello stile, considerano Giacinto Gigante uno dei precursori dell'impressionismo

Sebbene insofferente dell'accademismo fin dagli inizi della sua attività, poco dopo i vent'anni il pittore si iscrisse all’Istituto delle Belle Arti, i cui alunni interni beneficiavano dell'esonero alla coscrizione militare. La sua passione per il vero lo portava a percorrere lunghi tratti boschivi, spesso scoscesi, impervi, fino a quando trovava il punto di osservazione ed il paesaggio giusto da fissare.   Di carattere scontroso, fu in continuo dissidio con i docenti dell'Istituto. Alcuni  lo descrivono di aspetto rude, schivo e sornione, un artista che insieme all'arte amava le donne e la buona tavola. Nel 1831 sposò Eloisa, la sorella di Achille Vianelli.

Entrò nelle grazie della corte borbonica, per la quale nel 1830 pubblicò la raccolta di litografie "Vedute di Napoli e dintorni" ed anche nelle grazie della corte zarista per la quale nel 1846, dopo che aveva accompagnato cinque anni prima in Sicilia l'imperatrice di Russia, compose un "Album di vedute dell'Isola". Nel 1849 accompagnò poi, nella veste di pittore di corte, Ferdinando II, per documentare paesi e monumenti. E’ di committenza reale "Napoli vista dalla tomba di Virgilio" Insegnò disegno alle figlie di Francesco II e spesso si recava presso i reali a Gaeta.

L'avvento dell'Unità d'Italia non influì sulla continuità del flusso della sua committenza: nel 1861 preparò un bozzetto per una monumentale "Entrata di Garibaldi al ponte della Maddalena", oggi nel Museo di San Martino; Vittorio Emanuele II gli commissionò il famoso acquarello “La cappella del Tesoro di S.Gennaro”, che si trova a Capodimonte.

Fu più volte a Roma e nel 1869 lo troviamo anche a Parigi.

Nel 1837, alla morte di Pitloo, trasferì la sede della "scuola di Posillipo" nella casa abitata per venti anni dal pittore olandese, al vico Vasto 15, a San Carlo alle Mortelle. 

I maggiori depositari delle opere di Giacinto Gigante sono il Museo di San Martino, dove sono raccolte circa seicento fra disegni, tempere ed acquerelli, e il Museo di Correale di Sorrento, che gli ha dedicato un'apposita sala.

Fra i tanti personaggi dell'Arte presenti nella toponomastica del Vomero, Giacinto Gigante denomina una delle poche vie vomeresi intitolate ad artisti che hanno avuto un qualche rapporto con la via a loro intitolata. Infatti al civico n. 19 di Via Giacinto Gigante, troviamo "Villa Gigante", che l'artista comprò nel 1844, un edificio giunto fino a noi, piuttosto  modificato. Fino a qualche decennio fa si distingueva per lo svettare di una torretta, oggi demolita.

Nel 1875 il pittore cadde sulle scale della villa, una caduta da cui non si riebbe, morendo un anno dopo, il 29 settembre 1876. Lasciò otto figlie e fu sepolto nella Chiesa della Salute.

(Marzo 2024) 

Un romanzo tragico. Filippo Cifariello

 

di Antonio La Gala

 

La vicenda artistica e umana dello scultore Filippo Cifariello sembra uscire da un romanzo.

L’artista nacque a Molfetta nel 1864. Allievo di Achille D’Orsi, seguì la corrente che in quel periodo a Napoli nel campo della scultura s’ispirava al verismo di Vincenzo Gemito.

Fin dall'inizio della sua attività suscitò polemiche, soprattutto a causa del realismo crudo delle sue opere, come ad esempio lo scugnizzo reduce dai baccanali di Piedigrotta che scolpì a vent’anni, oppure il santo cristiano raffigurato nel momento del martirio.

    Cifariello modellò - in marmo, bronzo, terracotta ed argento - prevalentemente busti e figure.

Per scolpire anche statue di notevoli dimensioni aveva bisogno di un grosso locale, motivo per cui quando andò ad abitare al Vomero impiantò vicino alla sua residenza un ampio studio, al civico 10 di Via Solimena, locale che oggi risulta adibito a garage. Vi si notano ancora alcuni anelli di ferro nelle murature per sostenere tiranti e altri segni che vi testimoniano l’attività dello scultore.

Opere del Cifariello si trovano sotto forma di monumenti in varie località italiane, e sue sculture sono ospitate, oltre che da musei italiani, anche da musei europei.

Artista avversato ma anche decantato dai suoi contemporanei, Filippo Cifariello ebbe una vita segnata da vicende tragiche.

Dapprima sposò una “sciantosa”, Maria Brow, d’origine francese, di comportamenti, diciamo così, “disinibiti”. Nel 1905 la Brown fu uccisa e fu accusato il Cifariello d’averla soppressa per gelosia. Un giornale dell’epoca così raccontava il delitto: “L’illustre Filippo Cifariello, il cui nome ancora poco tempo fa era meritatamente acclamato per l’inaugurazione del suo bel monumento a Umberto I a Bari, dopo torture inenarrabili del suo animo e del suo cuore, dopo una lotta fra la passione – diremo quasi morbosa e l’amore atrocemente offeso – uccideva a Posillipo, alla pensione Mascotte, la propria moglie che lo aveva tradito così a lungo. Trattasi di un dramma eminentemente passionale nella sua rapidità sanguinosa e fulminea”.

Il processo suscitò molto interesse, anche per la notorietà di Cifariello. L’artista ne uscì assolto,  

Successivamente, a cinquant’anni, sposò la ventiduenne Emilia Fabbri, che morì bruciata nel 1914 al ritorno del viaggio di nozze, per un infortunio domestico nel maneggiare un fornello, incidente avvenuto nella casa del Vomero. La donna fece in tempo, prima di morire, a scagionare il marito dall’incidente.

Risposatosi ancora una volta, il Cifariello si suicidò nel 1936, a causa del turbamento per una grave malattia.

La tragedia lo seguì anche dopo la morte: nel 1966 in un incidente aereo morì il figlio, l’allora noto attore Antonio Cifariello.

Napoli ha intitolato al Cifariello una fra le strade più antiche del Vomero, in precedenza denominata "Vico San Gennaro" oppure "Via San Gennariello al Vomero", nomi che ricordavano, assieme alla millenaria chiesa di San Gennariello che vi si trova, che quella strada era un pezzo di storia del quartiere collinare.

Forse sarebbe stato più opportuno lasciare il vecchio toponimo e spostare il nome di Cifariello di cento metri, nel tratto più alto di Via Solimena, dove peraltro Cifariello è vissuto ed ha lavorato.

L’immagine che accompagna questo articolo è tratta da un “Mattino Illustrato” del 1905 e mostra Filippo Cifariello all’epoca del delitto di Posillipo.

(Marzo 2023)

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