Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Io ti salverò
Ricordate quel celebre film del 1945, Io ti salverò, diretto dal regista Alfred Hitchcock? Titolo originale Spellbound: incantato, ammaliato, termine significativo per indicare il fascino dell’innamoramento. La pellicola, interpretata con altrettanto fascino e bravura da Ingrid Bergman e Gregory Peck, giunta in Italia nel 1947 ed accolta con vivo consenso di pubblico e di critica, rimane uno dei capolavori della filmografia mondiale.
A parte il valore che riveste per il suo sottofondo onirico e psicologico, questo film rappresenta anche uno di quei rari momenti, in cui tre personalità eccellenti del tempo si unirono a lavorare attraverso tre forme d’arte dal respiro più popolare, rappresentate da Musica, Cinema e Pittura. Insieme, diedero vita a qualcosa che poi passò alla storia. Miklos Rozsa, Alfred Hitchcock e Salvador Dalì, tre personalità dal carattere forte, che, come opportunamente è stato detto, “riuscirono a limare il proprio orgoglio individuale in nome dell’arte.”
Non è certo così che sono andate le cose, nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano nel quale, pur professando ciascuno, a gran voce, di volere soltanto il bene della nostra comunità, non si è riusciti a superare una crisi, senza dubbio inopportuna, non fosse altro perché sopraggiunta nel pieno di una pandemia.
Un accostamento, il nostro, solo per contrasto tra il film e la realtà.
Io ti salverò era una romantica storia d’amore dal fascino irripetibile. Noi siamo, invece, dinanzi ad un estremo tentativo di salvataggio di un’Italia alla deriva, dove non c’è più la politica, scomparsa dietro la nebbia di incontri a tavolino, sotterfugi, compromessi, rivalità fra partiti ed uomini, odi personali ed implacabili, trattative, segrete e palesi, su ministeri e ministri. Scenari assurdi ed inimmaginabili per chi si trova nel pieno di una pandemia sempre più agguerrita e cruenta. Un’offesa ai tanti morti, a quelle tombe sui camion militari, in attesa di sistemazione, che non potremo facilmente dimenticare.
Con queste immagini negli occhi, come si può pensare, e noi capire, una crisi al buio, avviata da chi, con sapiente arzigogolare, professa di volere il bene del Paese? Da chi, proditoriamente, asserisce che non c’è nulla di personale contro il Presidente del Consiglio, ma che è importante discutere di “nodi problematici” e, mentre spara nell’accampamento amico, si riserva la mossafinale: tirar fuori l’asso dalla manica, il Draghi dalla manica, in comunanza d’intenti con la silente opposizione…
In questa sede, per quel che può contare, ci preme altresì riconoscere al Premier uscente, Giuseppe Conte, l’impegno umano, politico e personale con cui ha guidato il Paese nella battaglia contro un nemico ignoto, una pandemia, che ci ha colpito con particolare irruenza e virulenza. Degna di plauso è stata anche la sua temporanea uscita di scena, nella quale ha mostrato un grande senso dello Stato e la capacità di una scelta responsabile.
Nessuna irriverenza, nel nostro titolo, nei confronti del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che altro non avrebbe potuto fare, in questa congiuntura, dinanzi ad un Parlamento litigioso, maldestro e poco consapevole di quanto diversa debba essere una politica, pronta a spendersi per il Bene del Paese.
E nessuna mancanza di riguardo o di fiducia neanche nei confronti di Mario Draghi, Presidente del Consiglio incaricato che, a breve, dovrà sciogliere la riserva e formare il nuovo governo. Non c’è dubbio che lo attende un compito molto gravoso.
Come si appuntano sull’albero di Natale i bigliettini dei propri sogni, così gli Italiani, in questi giorni di attesa, sognano di “appuntare” sul nuovo Premier tutte le loro speranze. E non a torto, in quanto Mario Draghi non ha solo un bagaglio enorme di conoscenze in materia bancaria ed economica, ma è anche un politico sagace ed accorto. Qui, però, non sono in discussione le innegabili capacità di un uomo che ha salvato l’euro e l’Europa e potrà essere sicuramente in grado di salvare l’Italia in questo momento così difficile. Il problema non è Mario Draghi, uomo affermato e di prestigio, con un carisma ed una carriera accademica altamente qualificata, caratterizzata da un forte impegno e da meritati riconoscimenti in Europa e nel mondo.
Verso di lui ben a ragione, dunque, si nutrono grandi speranze di rinascita e, tuttavia, noi non possiamo nascondere a noi stessi la sfida ardua che egli si trova, oggi, ad affrontare e che ha accettato con grande senso di responsabilità ed impegno personale e professionale.
Quando i nemici ci combattono a viso aperto, la vittoria può essere difficile, pur se non impossibile. Ma, nell’apparente clima di redenzione, nell’attuale scenario della catarsi che era il naturale epilogo della tragedia greca, riuscirà Draghi a soffocare e sventare sotterfugi, manovre, giochi di corridoio e sortite varie dei numerosi parlamentari, poco avvertiti della complessità e del senso aulico della parola politica?
Sarà disposto a tollerare, senza fastidio, il linguaggio di una patriota, ieri troppo spesso fiorito di contumelie e gonfio di risentimento nei confronti dei parlamentari di opposto schieramento, di una patriota che oggi si dichiara pronta ad approvare “provvedimenti consoni al bene del paese” e lo fa - miracolo dei miracoli - con accenti temporaneamente e dolcemente modificati, mentre resta in corner, in maestoso isolamento, in attesa di sviluppi ed eventi significativi per i suoi programmi?
Riuscirà a cogliere le nascoste qualità di un leader di partito che, tra Metamorfosi di ovidiana memoria, Giuramento di Pontida e citazioni di Giovanni Paolo II, svicolando improvvisamente da inaspettati corridoi umanitari, sembra accennare, senza peraltro proporsi come ministro, alla possibile creazione di un ministero per i disabili, che gli “stanno molto a cuore”, ora, più di quanto non lo siano stati i migranti in balìa delle onde? Oggi europeista dichiarato, quanto ieri sovranista convinto.
Mario Draghi, un Italiano, ancorato organicamente e strategicamente all’Europa, saprà muoversi, altrettanto bene come in Europa ed in America, in questo piccolo mondo di un’Italietta smarrita, alla ricerca di una sua passata e gloriosa identità culturale?
Potrà finalmente attuare una svolta significativa per porla sulla strada della conquista del rispetto di sé e della consapevolezza della sua dignità?
Noi di certo lo vogliamo e non possiamo che augurarcelo ed augurarglielo. Di cuore.
(Febbraio 2021)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Addio, vecchio medico
Addio, vecchio medico dei tempi andati!
Ti chiamavi, allora, medico condotto perchè avevi la condotta medica di un circondario, piccolo o grande che fosse: borgata marina, attraversata dal libeccio o dalla bora, villaggio montano, chiuso tra vallate brulle e deserte. Eri, fin dal Medioevo, un ufficiale medico, un dipendente del Comune.
Accorrevi dovunque ti chiamassero e con qualunque condizione atmosferica, affrontando giorni infuocati dal torrido sole o inverni gelidi, tra raffiche di vento e bufere di neve.
Pronto e sollecito al richiamo d’aiuto. Sempre consapevole dei tuoi doveri perché sentivi che a te era assegnato un compito irrinunciabile: gestire la salute di un intero nucleo umano, un bene prezioso. Affidato a te. A te e a nessun altro…fuorchè a Dio…
Accorrevi, solerte e premuroso, pronto ad affrontare gli umori più vari. Spesso sorridente, talvolta burbero, ma solo in apparenza. In sella alla vecchia mula o sul disastrato, traballante calesse. Traballante un pochino anche tu, per aver bevuto un bicchiere di troppo. Qualche sera poteva accadere.
Ma arrivavi. Anche a piedi, quando il percorso era troppo accidentato per essere attraversato da qualunque mezzo.
Giungevi ansante e tranquillizzavi tutti col tuo vocione sereno e rassicurante.
Eri medico generico, eppure, all’occorrenza, sapevi essere cardiologo, ortopedico, chirurgo e perfino ginecologo ed ostetrico, se, giunto al capezzale di una donna, con doglie violente, al termine della gravidanza, si rendeva necessario far nascere quel bimbo scalpitante, che chiedeva di venire al mondo.
Cara, vecchia figura di medico, che credeva in sè e nella professione, alla quale si era dedicato anima e corpo, fin da giovane. È scomparsa, ormai. Si è dileguata nel nulla. Possiamo ritrovarla soltanto nei versi dei poeti o in qualche vecchia pellicola cinematografica, che ancora c’intenerisce e commuove, per la forte carica di abnegazione rappresentata.
Poi, gli scenari sono cambiati. E molto in fretta.
Si è passati al medico della mutua, ben caratterizzato dal nostro grande Alberto Sordi, l’Albertone nazionale (ricordato con tanto affetto, in questi giorni, anche per la sua casa-museo.) Fu un film straordinario, per la regia di Luigi Zampa, in cui la nuova figura del medico, affarista e con pochi scrupoli, tratteggiata con sottile ironia, sembra lasciarsi definitivamente alle spalle l’indimenticabile vecchio medico condotto. Successivamente, con l’l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, (Legge n. 833 del 23 dicembre 1978) nasceva il medico di medicina generale, ovvero, medico di famiglia o, nel linguaggio comune, medico di fiducia e, in quello giornalistico, medico di base..
Oggi, in piena pandemia da Covid-19, si parla molto di medicina del territorio, che, però, fa acqua da tutte le parti anche - bisogna riconoscerlo - per una politica allo sbando che, per anni, ha tagliato i fondi alla sanità pubblica, a tutto vantaggio del privato.
Nel fiorire delle polemiche, il medico di base si dibatte fra discussioni su competenze e sentenze del Tar, con i suoi 1.500 pazienti, che gli forniscono un ottimo alibi per non entrare in lizza e non prenderne in carico seriamente nessuno. Manca, dunque, chi dovrebbe fronteggiare la morsa negli ospedali, presi d’assalto da pazienti disperati. Ma il medico di base nulla sa, nulla gli spetta ed aspetta che altri gli dicano cosa gli compete fare, districandosi abilmente fra norme e pandette. Esiste, eccome!, ma solo sulla carta, una medicina del territorio, rappresentata, appunto, da queste figure professionali, che dovrebbero svolgere una funzione di filtro, preoccupandosi di affiancare, con la loro opera, il personale sanitario, ormai sotto stress, negli ospedali.
Ma, ci dicono, mancano strutture logistiche più adeguate, rispetto al piccolo studio medico, nonchè attrezzature e presidi di protezione, per la salvaguardia personale. Ed anche questo è vero. Eppure, ci chiediamo: quando andava in vecchi casolari sperduti, abbandonati spesso al degrado igienico-sanitario, il medico condotto di un volta si chiedeva, prima di entrare, se gli competeva curare una tubercolosi, un tifo, una malaria o una qualunque altra malattia infettiva, di cui, magari, ignorava origine e causa? Tornava forse indietro dicendo: “Ho sbagliato strada, questo non è il posto giusto e devo accertare se mi compete entrare qui per alleviare le vostre sofferenze.” No, il medico condotto andava dovunque, nelle situazioni più disparate e faceva quel che poteva, accettandone tutte le conseguenze, per sé e per gli altri…
Si levava dal suo desco, talvolta anche a sera inoltrata, dopo la frugale cena con zuppa di fagioli ed un bicchiere di troppo, per fronteggiare il freddo che, insidioso, gli serpeggiava lungo la schiena. E andava alla ventura, dove il bisogno chiamava, senza perplessità né tentennamenti.
E intanto ora, in tutto il mondo,“il morbo infuria”, per dirla con le parole di un poeta. Il Covid imperversa e non guarda in faccia nessuno. Non risparmia nessuno.
Almeno un’opera di informazione la potrebbero svolgere, fra i loro 1.500 pazienti, questi medici di base, rendersi reperibili per suggerimenti, consigli o soltanto per una parola di conforto. Potrebbero anche, in ultima analisi, essendo diventati così bravi ad interpretare norme, leggi, codicilli e pandette, informare a dovere, i loro assistiti, su diritti e prerogative, anche in casi di infortuni, disabilità ed invalidità varie.
Già questo varrebbe a dire che esiste una medicina del territorio…
Per amore della verità, non possiamo chiudere queste nostre brevi note senza riconoscere, tuttavia, come le cronache di questi giorni ci hanno dimostrato, che alcuni medici di famiglia non si sono tirati indietro, hanno avverttito il peso delle proprie responsabilità e più di uno, fra loro, ha finito col pagare, anche con la vita, il dovere della cura e dell’assistenza ai pazienti.
(Dicembre 2020)
E’ morto Diego Armando Maradona
a cura di Luigi Rezzuti
È morto Diego Armando Maradona, leggenda assoluta del calcio mondiale. La notizia è rimbalzata dall’Argentina. Il “pibe de oro” aveva 60 anni.
Una lunghissima carriera da professionista. Ha militato nell’Argentinos Juniores, nel Boca Junior, nel Barcellona, nel Napoli, nel Siviglia.
Ha partecipato a quattro mondiali (dal 1982 al 1994) trionfando, da protagonista assoluto, alla Coppa del Mondo del Messico ’86.
Ha regalato a Napoli una Coppa Italia nel 1986, due scudetti nel 1987, 1989, una Coppa Uefa nel 1989.
Diego Armando Maradona è morto nello stesso giorno (a quattro anni di distanza) di colui che considerava come un “secondo padre”, Fidel Castro.
Con il leader cubano aveva un rapporto stretto, nel quale l’ammirazione era reciproca in uno strano intreccio tra passione politica e amore per lo sport.
Il presidente dell’Argentina, Alberto Fernandez, ha decretato tre giorni di lutto nazionale.
Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha proclamato il lutto cittadino per la morte dell’uomo più amato dalla città.
“E’ triste perdere amici in questo modo” ha commentato Pelè, che da sempre contende con Maradona la palma del calciatore più forte di tutti i tempi. “Sicuramente un giorno giocheremo insieme, lassù in cielo”.
(Novembre 2020)
Tanto per sdrammatizzare
Si De Luca fa 'a chiusura
di Irene Pumpo
Chistu guappo Presidente
ha deciso, dint’ a niente,
mo n’atu distanziamento
pe’ sta brutta pandemia,
ca ce manna - mamma mia! -
certamente… ȃ pazzaria…
E comme se paparea!
Primma allucca, po’ sbarea
o minaccia e se ’ntallea…
Si De Luca fa ’a chiusura,
io, bluccata d’’a paura,
torno… monaca ’e clausura
e accumencio d’’a matina,
pronta: ’e guante, ’a mascherina…
E, luntano d’ammuina,
chiù nun ghiesco e cchiù nun traso,
senza caccià manco ’o naso
for’ ’a porta, resto ȃ casa…
***
Si De Luca fa ’a chiusura,
pe’ nuie viecchie è na jattura!
Chi ce penza? Chi ce cura?
Si nisciuno ce avvicina,
chi ce accatta ’a mmericina
e ce fa ’a spesa ȃ matina?
Io nun è ca po’ me lagno,
ma a curà chi m’accumpagna?
E ’a munnezza, po’, m’ ’a magno?
Pare n’esagerazione:
io sto ghienno int’’o pallone
pe’ pute’ piglia’ ’a penzione.
Nun voglio essere arrogante,
ma ’e prubbleme songo tante…
Comme ’a pavo na badante?
“Pecchè me guardate stuorto,
Preside’? Nun aggio tuorto!
M’ ’o mannate ’o carro ’e muorto?”
Napoli, 5 novembre 2020
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Le “Lettere al Direttore”
Un recente articolo dell’amico Sergio Zazzera ha come tema “Lettere al Direttore”, un altro di quei miti, che compaiono periodicamente nelle Rubriche, in questo nostro giornale. Si tratta di miti che egli, come sempre, individua, sornione, senza rancore per alcuno, ma con raffinata eleganza e che noi leggiamo e condividiamo, con divertita complicità.
In apertura scrive: “Una rubrica di “Lettere al direttore” è presente in ogni quotidiano e/o periodico che si rispetti, non soltanto a Napoli; qui, però, essa assume un carattere mitico, che mi sembra assente altrove”.
Nel suo conciso ma articolato ragionare, il nocciolo della questione è tutto lì, nel rilevare, fra le righe, quanto poco siano attendibili ed utili tali Lettere, stando alle firme dei lettori e ai contenuti dagli stessi espressi.
E, infatti, sottolinea: “In buona sostanza, ci si trova di fronte a un rito, con la sua connotazione d’inutilità, che l’antropologia gli attribuisce; e si sa come la reiterazione del rito sia produttiva del mito”.
Di certo, caro Sergio, siamo stati tutti cultori di questo mito…
Ognuno di noi le ha sempre lette. Siamo andati a cercarle, talvolta anche prima degli stessi articoli, con grande curiosità ed aspettative, nella illusoria ricerca di verità innegabili ed inoppugnabili. Ma queste verità non le abbiamo mai scoperte tra le colonne delle succitate Lettere. Anzi esse ci sono apparse spesso stucchevoli e false e, ancor più, negli ultimi tempi, quando sono venuti a mancare quei nostri vecchi e grandi direttori di testate, che avevano fatto la gavetta, come suol dirsi, e ben conoscevano il loro mestiere.
Sì, lo riconosciamo, le abbiamo trovate stucchevoli e false.
Abiti su misura, confezionati dal direttore stesso, senza neanche il ricorso ad una buona sartoria…
Specchio delle proteste e delle segnalazioni dei lettori?
No. Specchio dei tempi. Specchio dei desideri, degli obiettivi, delle iniziative del Direttore.
Teatro aperto ai suoi amici, per ospitarli e tesserne le lodi nelle risposte.
Arena per i nemici, da attaccare e mettere al tappeto.
Queste, col tempo, sono diventate le Lettere al Direttore.
Un rito e un mito, come tu ben argomenti.
Peccato, però, che non rilevi come la rubrica Lettere al Direttore “presente in ogni quotidiano e/o periodico che si rispetti” non figuri su questo nostro giornale.E non figura perché Il Vomerese il rispetto dei lettori ha cercato di meritarlo sempre con la chiarezza e la trasparenza, avendo quale unica aspirazione quella di voler essere un giornale semplice, nella sua autenticità.
(Ottobre 2020)
LA COLLINA DEL VOMERO
di Luigi Rezzuti
La magia del panorama, le grandi ville, le variopinte palazzine residenziali nell’elegante stile tardo Liberty, la vivacità dei parchi, le vetrine dei prestigiosi negozi e il suo giornale, “Il Vomerese”, edito dal 2005, fanno oggi del Vomero uno dei quartieri più chic e ambìti di Napoli.
Già dal principio della sua più massiccia urbanizzazione e saldatura con la città, esso fu concepito come un quartiere residenziale, destinato alle classi nobiliari e anche a quelle regali, a seguito dell’acquisizione di una villa da parte di Ferdinando I di Borbone, l’attuale Floridiana.
In realtà la tendenza, da parte dell’aristocrazia cittadina, a costruirsi una seconda casa al Vomero risale a molto tempo prima del 1656. La collina venne utilizzata come rifugio da parte della nobiltà e del clero.
Ma, prima di allora, la collina del Vomero, con i suoi piccoli villaggi e casali, costituiva una periferia agricola, per la maggior parte disabitata e lontana dalla città di Napoli.
Dal Vomero scendevano a valle torrenti d’acqua. Esso era attraversato dalla Via Neapolim Puteolis per colles, che lo collegava, appunto, alle città di Neapolis e di Puteoli.
Il tratto di questa via, che attraversava la collina, era detto via Antiniana e corrisponde, probabilmente, all’attuale. via S. Gennaro ad Antignano, che vide verificarsi il primo miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro.
In origine il Vomero era chiamato Colle del Paturcium. Il toponimo che tutti adoperiamo oggi è, invece, attestato alla fine del Cinquecento, tuttavia riferito non all’intera collina ma ad un antico casale di essa, e trae origine dalla sua antica vocazione agricola e al gioco del “vomere”.
Un passatempo contadino, praticato durante i giorni festivi, che sanciva come vincitore chi, con il vomere (la lama) dell’aratro avesse tracciato un solco quanto più possibile diritto.
Un curioso intrattenimento per il quale accorreva ad assistere un gran numero di persone dalla città.
Inoltre la fertile attività, legata ai suoi campi, e la gran messe di verdure coltivate gli valsero per secoli il nome di Collina dei broccoli.
Ancora oggi è possibile udire dai napoletani l’appellativo scherzoso “Pere ’e vruoccole” (fascio di broccoli) con il quale si usava apostrofare i vomeresi.
(Luglio 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Addio al mio Maestro, Aldo Masullo
Si è spenta una voce critica nella nostra città
Chi mi conosce o ha avuto modo di leggermi, qualche volta, sulle colonne di questo nostro periodico, sa quanto mi sia difficile parlare di una persona cara che ci lascia. Oggi più che mai. In tanti hanno parlato di Aldo Masullo sulle colonne della stampa quotidiana e da tutti sono state espresse parole di grande stima ed ammirazione, oltre che di vivo e sentito cordoglio, e sarebbero sufficienti a dare una sia pur pallida idea di quello che ha rappresentato nella vita culturale e politica della nostra città. Ad esse rinvio i nostri lettori. Mi piacerebbe, inoltre, ricordare quella bella intervista rilasciata, anni fa, ad Antonio Gnoli per le pagine culturali de la Repubblica. Il titolo è quanto mai attuale in questo momento: La filosofia mi ha insegnato che nessuno di noi si salverà da solo. Una frase che è il punto nodale e di approdo di quella Etica attiva della salvezza, a cui si appellava come uomo e che è l’essenza stessa della sua vita e del suo insegnamento. Ed è il ricordo del Maestro che io qui vorrei rivivere insieme ai miei lettori.
Tu sei lo mio maestro e il mio autore… e qui mi fermo per non essere tacciata di immodestia. È stato da più parti ricordato che Egli ha formato intere generazioni. Ed è così, ma quello che non tutti forse sanno è come egli ci abbia formato: con la forza di una dialettica serrata e al tempo stesso ricca di passione civile, con un linguaggio sempre rigoroso e non privo, talvolta, di una sottile ironia, che era, in definitiva, il suo modo di guardare al mondo e alla vita, di insegnarci a provare la vita, dove in quel provare, al quale egli ci conduceva, erano impliciti tutti i sacrifici, le battaglie, le scommesse della vita. E noi, suoi allievi, oltre che alle lezioni, accorrevamo ad affollare in tanti i suoi seminari, momenti indimenticabili nei quali non ci stancavamo mai di ascoltarlo, sposando sempre, e non per pura concessione, le sue idee, condividendo le sue argomentazioni, sempre stringate e frutto di indiscutibile coerenza. Ai suoi seminari, noi allievi non eravamo più gli studenti chiassosi e magari un pò distratti, come accadeva per le altre lezioni, ma ci sentivamo ragazzini timidi ed impacciati, che pendevano dalle Sue labbra. Poi, ascoltandolo giorno dopo giorno, accadeva la metamorfosi e ci ritrovavamo d’improvviso maturi ed adulti, ma soprattutto liberi, in anni in cui Egli era “Il Rosso” per il colore dei capelli e delle idee. Avvertivamo un vento nuovo di libertà e di dinamismo in un ambente universitario forse ancora un po’ chiuso, pur se di grande prestigio, in cui imperavano il diktat tomista di Petruzzellis, la ferrea disciplina di Arnaldi, il rigore di Pontieri o di Cortese! Con Lui, che era stato allievo appassionato del grande avvocato penalista, Alfredo De Marsico, (nei suoi studi di giurisprudenza, per la seconda laurea, conseguita nel 1947), imparammo cosa significasse portare avanti una tesi ed essere convincenti, grazie al fascino di una parola rigorosa, ma suadente al tempo stesso. Imparammo anche a lanciare e ad accogliere sfide. Io lo imparai sulla mia pelle, quando mi recai da Lui per chiedergli la tesi e, dopo che avevamo studiato Fichte e l’Idealismo, Sartre e l’Esistenzialismo, Husserl e la Fenomenologia, mi vidi assegnata una tesi su Antonio Labriola, di cui, in quegli anni, non si sapeva assolutamente nulla, salvo che era stato colui che aveva introdotto, attraverso l’allievo Benedetto Croce, il marxismo in Italia. Accettai la sfida, questa, ma non l’altra, quando, nel puntualizzare il titolo della tesi, sapendo del mio legame affettivo con Donato Pica, l’uomo, che poi sarebbe diventato mio marito, e che era anch’egli suo allievo, mi chiese, istrionico e sornione come sempre: “Ha intenzione di sposarsi, dopo la laurea? Non lo faccia subito, così di corsa. Non volti le spalle alla cultura accademica”. Era già dura la prima sfida, per accettare la seconda. Mi sposai, mi dedicai all’insegnamento, ai figli, alla famiglia e, dopo svariati anni, mi volsi ai tanti interessi e alle tante altre sfide che la vita mi diede l’opportunità di cogliere. E ci ritrovammo di nuovo in diversi contesti culturali. Fu mio ospite come relatore, in eventi organizzati dal Centro culturale Cosmopolis, che intanto avevo fondato, ed ebbe per me parole di grande stima quando, con una bellissima relazione, presentò un mio romanzo presso la libreria Guida di Via Merliani.
È stato ancora mio ospite presso alcuni salotti culturali, come quello della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa. E qui, nell’introdurlo per la sua conferenza su “Mezzogiorno d’Europa” gli riservai la sorpresa di declamare una mia poesia, scritta per Lui tempo addietro, nella quale credo di avergli dimostrato tutto il mio affetto, la sincera stima e l’ammirazione che ho sempre nutrito per questo mio Maestro. Un grande ingegno, un grandissimo comunicatore, un’eccellenza napoletana, anche se nativo di Avellino. E ben a ragione il nostro sindaco, Luigi De Magistris, lo aveva insignito della cittadinanza onoraria, riconoscendogli “lo straordinario contributo offerto alla crescita culturale e sociale del capoluogo partenopeo”. Nel manifestare, oggi, il suo vivo cordoglio alla notizia della scomparsa di Aldo Masullo, egli non esita a definirlo “Uno dei più grandi filosofi del secondo Novecento, di altissimo profilo etico, di profondo rigore intellettuale, ricordiamo le sue lucide analisi politiche fino ai giorni scorsi. Un faro per tanti, un solidissimo punto di riferimento della cultura partenopea”.
Quest’anno, poi, ha voluto dedicargli l’apertura del Maggio dei Monumenti, in precedenza già dedicato a Giordano Bruno, quel filosofo da Masullo tanto amato per aver testimoniato la forza del libero pensiero, che non si piega alla violenza del potere. Per tale ricorrenza, il sindaco dichiara: “Facciamo uno sforzo di buona volontà perché la sua potente lezione morale, la sua eredità intellettuale e la sua straordinaria testimonianza di passione civile restino più a lungo possibile con noi”.
Mai monito ci è parso più in linea con l’insegnamento del nostro Maestro.
Qui di seguito la mia poesia, declamata per Lui al salotto della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa.
Per il Prof. Aldo Masullo
Egregio Professore,
ripenso, in certe ore,
ai "fasti" del passato,
mai più dimenticato,
quando, giovane ancora,
nell'euforia dell'ora,
timida e trasognata
- ancor non immolata
sull'ara familiare -
venivo ad ascoltare
il suo filosofare.
L'ingegno vigoroso
e la parola bella,
lo stile rigoroso,
la limpida favella
ci rendevano attenti
ad ogni Sua opinione,
sollevando le menti
da qualche aberrazione
di facile lettura,
fatta con poca cura.
Ricordo... Quelle ore,
mio caro Professore,
ci rendevano paghi
e sol di studio vaghi.
Oh! Le ricordo, sì,
perchè, con gran passione,
tra Marx e Platone
dividevo i miei dì.
E li divido ancora,
ma non è certo facile
nell'equilibrio fragile
che m'impegna ad ogni ora,
sfruttando senza posa
la mente e la parola,
tra lo stress di casa
e la "routine" di scuola.
Si chiederà chi sono
e dei versi il perchè.
Rispondo: sono un dono
da serbare per Sè,
segno di simpatia
per chi seppe "iniziarmi"
alla Filosofia
e tanta gioia darmi
negli studi di allora,
frutto di nostalgia
per chi ricorda ancora
la propria giovinezza
e i sogni nel cassetto,
che urtan con l'assetto
dato alla propria vita.
La vedo incuriosita.
L'ultimo nodo sciolgo
e col pensier La volgo
all'autor trattato
nella mia tesi e a volte
un tantino ignorato
anche da menti colte.
Antonio Labriola
Anno Sessantadue.
Si perde la parola.
Ben più che trentadue
gli anni da ricordare
e da ricostruire.
Un nome devo fare?
Lo devo proprio dire?
Sì, son davvero molti
i nomi, gli anni, i volti...
Una Sua allieva sono,
che qui vuol farLe dono,
con devozione e stima
di versi in magra rima,
seguendo il proprio estro
nel volgersi al Maestro
che all'Università
ci avvinse col Suo dire
e seppe in Sè riunire
Cultura e Umanità.
MARISA PUMPO PICA
Napoli, 10 maggio 1997
(Maggio 2020)
Raccontami una storia
di Mariacarla Rubinacci
C’era una volta Virus, un re crudele della dinastia Covid 19, che regnava a Corona, un Paese molto lontano. Con la sua tirannia imponeva ai suoi sudditi vari divieti, mortificandolinei loro animi e anche nei loro corpi.
Era proibito baciarsi, considerando il gesto provocatorio di pesanti sanzioni, lo stesso era per gli abbracci, I rapporti dovevano avvenire alla distanza di un metro almeno, per salutarsi bastava alzare la mano agitandola, oppure toccarsi con il gomito o con il piede. Virus non amava assolutamente le espansioni e le amicizie. Viveva da solo, vagava per le stanze del palazzo, compiaciuto della sua crudeltà. Aveva vietato di riunirsi in gruppi per parlare, commentare, socializzare, tutto si poteva fare solo per via telematica, con telefoni, computer, smartphone. Nel paese non voleva che si aprissero teatri, cinema, bar per prendere un caffè. Imponeva che tutto il paese fosse considerato Zona Rossa, zona interdetta a chiunque, aveva persino messo dei presìdi di poliziotti per far controllare che i suoi editti crudeli venissero rispettati.
Ma la cosa più grave era che non c’erano scuole, né alunni, né maestri che potessero stare vicini, le lezioni si svolgevano solo on line, con skipe-conferenze.
Proibiva anche di uscire per fare passeggiate, i sudditi potevano solo andare a fare la spesa ai Super Mercati, sempre, però, a debita distanza, portare il cagnolino fuori per i suoi bisogni, muniti comunque di un pass che dimostrasse dove stessero andando. Virus amava una cosa sola: si affacciava alle finestre del suo castello e gioiva nell’osservare le strade deserte per sentirle silenziose e cupe.
Aveva anche imposto di portare sul viso una mascherina, perché non si doveva né starnutire né tossire. Se qualcuno avesse avuto questi sintomi, subito era costretto a recarsi nei luoghi predisposti, dove personale chiuso in scafandri bianchi, occhiali protettori e guanti, lo prendeva in consegna e lo chiudeva in camere piene di tubi e apparecchiature che registravano il suo stato fisico. Ne usciva, solo se guarito.
“Mamma, che storia triste mi hai raccontato. Meno male che un Paese così non esiste, io amo la mia maestra e i miei compagni, è bello andare a scuola, fare le partite a calcetto. Domani sono invitato alla festa di compleanno di Luigi, il mio compagno di banco, ci divertiremo e mangeremo tante cose buone. Pensa se vivevo nel regno di Virus!”
“Tranquillo, tesoro, è solo una storia inventata, dormi tranquillo, sogna cose belle.”
La mamma rimboccò le coperte a suo figlio, lo baciò sulla fronte stringendogli caramente la manina, chiuse lentamente la porta della cameretta mentre dal salotto la voce della giornalista, del TG che era in onda, stava dicendo: “Contagiati 9.140……”
(Marzo 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Festival di Sanremo 2020
Due parole. Due... sul Festival di Sanremo, ma ce ne vorrebbero tante per un evento come questo, che unisce, spacca e divide e che, indubbiamente, non si può ignorare. Da anni, ormai, specchio dei tempi e degli umori di un Paese, ne riflette ansie, timori e turbamenti, nella varietà dei suoni, delle voci e degli interventi.
Non può passare inosservato. Ogni volta, commenti, giudizi, riflessioni e polemiche... Le parole si sprecano, per discuterne il senso e la portata, per evidenziare quanto ci sia di nuovo o di superato nelle canzoni, nella musica… e in tutto il resto.
Esaltato, osannato, da taluni. Da altri criticato. Aggettivato sempre in funzione delle più diverse definizioni, quest’anno sembra prestarsi in modo particolare a due aggettivi più calzanti di ogni altro: infinito ed estremo, per l’eccessiva dilatazione dei tempi e dei contenuti, che talvolta sembravano debordare, pur con punte altissime di audience. Qualcuno, però, ha ritenuto che queste curve di ascolto, per quanto significative, non andassero lette in senso assoluto, ma fossero considerate perfettamente compatibili con un Festival protrattosi tanto a lungo che, per questo, si offriva all’ascolto di più fasce di età e in più diversi momenti di ciascuna serata. In tanti lo hanno seguito, è vero, ma fra un tramezzino ed un panino, tra la cena, il sonno ed il risveglio, per vederne, infine, la conclusione quasi all’alba…
Il Festival, come sempre molto atteso, in questo settantesimo anno, ha fatto da spartiacque tra un passato ed un presente, aprendo nuove strade. E le ha aperte non tanto sul futuro delle canzoni e della musica, quanto per le modalità nel proporlo al pubblico attraverso una conduzione variegata e multipla, anche questa ritenuta un po’ eccessiva, con due co-conduttori, Amadeus e Fiorello, con un ospite fisso, Tiziano Ferro, che ha cantato fitto e ad oltranza, per tutte le cinque serate, e con tante donne, belle, colte, eleganti, raffinate ed impegnate.
Il Festival delle donne, e subito è scoppiato il caso e si è aperto il fuoco contro Amadeus, tra le mille polemiche che, come sempre, lo hanno preceduto.
Che faranno queste donne? Saranno un simbolo della donna immagine? Saliranno sul palco dell’Ariston in funzione della kermesse, per fare, appunto, spettacolo? Per far salire gli ascolti?
Donne alla corte del Re Sole, qualcuno avrà pensato. E invece, no. Chi aveva ipotizzato che la presenza di tante donne sul palco potesse prospettarsi come l’esaltazione della bellezza e non delle capacità femminili, ha dovuto ricredersi. Provenienti da mondi diversi, hanno mostrato, tutte, forza, coraggio e grinta, con i loro interventi. Alcuni monologhi sono stati di sicuro spessore ed hanno rappresentato un momento importante dell’Evento. Qualcuno particolarmente apprezzabile e di intensa commozione, qualche altro, pur con punte significative, nel calcare un pò la mano, è scivolato, forse, nella consueta retorica della donna che, dichiaratamente, vuole e deve difendersi, a tutti i costi, dalla violenza o dalla tracotanza del maschio.
“Cosa ha fatto questo Festival?” Ha chiesto Fiorello, dal palco, fingendo sbalordimento. E la risposta era implicita: “Di tutto e di più”, con tanti ospiti, stranieri ed italiani, che hanno recitato, ballato, e cantato, anch’essi, di tutto, fino all’ultima serata quando, in un momento piuttosto movimentato, è intervenuto il bravissimo tenore Vittorio Grigolo, che ha deliziato il pubblico con una bella pagina di musica classica.
Non più e non solo, dunque, Festival della canzone italiana, con qualche piccolo sacrificio dei cantanti protagonisti, in gara, quanto piuttosto Evento, Spettacolo, Kermesse, da condividere con il mondo, come, in più riprese, ha sottolineato Amadeus.
E qui veniamo a lui. Conduttore e direttore artistico del Festival, ha voluto dividere con il grande amico e versatile showman, Rosario Fiorello, le responsabilità, la gioia e il successo dello spettacolo. In nome di una vecchia e vera amicizia, che dura da trentacinque anni, aveva promesso: “Se un giorno dovessi realizzare il sogno di condurre il Festival di Sanremo, tu dovrai essere con me su quel palco. E, da sincero amico dal cuore generoso, gli ha dato tutto lo spazio possibile, facendo spesso un passo indietro e fingendo, sornione, di adattarsi, alle sorprese dell’amico e alle sue mascherate improvvisate (si fa per dire). Le gag di Fiorello, alcune volutamente forzate, altre simpatiche e non prive di riferimenti ironici, come è nello stile di questo mattatore, che piace a tutti e fa audience, hanno allietato le serate.
E l’Amadeus, amabile, simpatico, compassato conduttore de “I soliti ignoti”, senza rinunziare al suo stile consueto, ha diviso con il fraterno amico momenti seri e scherzosi di un Festival, che riserva sempre mille sorprese e colpi di scena. Tra questi, il Bugexit, come è stato definito sui social, in maliziosa analogia con la Brexit londinese, ovvero il “gran rifiuto” di Bugo di salire sul palco per condividere con Morgan, nella penultima serata, l’interpretazione della canzone “Sincero”. Di qui la susseguente squalifica per entrambi e una lunga coda di polemiche e strombazzamenti vari tra gli improvvisati difensori dell’uno o dell’altro.
Anche in questo un’Italia divisa ed astiosa!
Due parole, due, si era detto in apertura e non abbiamo ancora parlato dei cantanti protagonisti né delle canzoni in gara. Ma ventiquattro canzoni dei big e dodici delle nuove proposte non possono certo trovare spazio, tutte, in questo che voleva essere un breve commento sul Festival. Ci limiteremo, dunque, a qualche flash, a partire dalla figura più discussa, Achille Lauro, di cui tanto si è parlato, prima, durante e dopo Sanremo. E se questo era il massimo obiettivo del cantante, bisogna riconoscere che è riuscito pienamente nel suo intento. Si è voluto vedere di tutto dentro la sua canzone e di tutto si è visto dietro la sua nudità, sed de gustibus non est disputandum... Forse, però, poco dei versi della canzone “Me ne frego” è rimasto nelle orecchie. Almeno nelle nostre.
Ben altre canzoni ci hanno conquistato, attirando la nostra attenzione. e ben altre performance.
Molto bella, dolce e profondamente sentita ci è parsa la canzone di Tosca “Ho amato tutto” che, non a caso, ha meritato il Premio dell’orchestra dell’Ariston. E gli orchestrali, senza dubbio, di musica, se ne intendono!…
Di buon livello anche la performance del giovane Alberto Urso, con la sua calda voce e quel bel canto tutto italiano, espresso nella romantica canzone “Il sole ad est.”
Questo giovane ventiduenne, autentico nella sua semplicità, dal contegno serio e dignitoso, è stato accompagnato, invece, dalle critiche ingenerose di alcuni rappresentanti della stampa.
Apprezzabili, a nostro avviso, anche le interpretazioni di Giordana Angi, nella canzone “Come mia madre”, molto dolce e coinvolgente, di Irene Grandi, “Finalmente io”, dal tono moderno e frizzante, non privo di una vena di gioconda sensualità e quelle di altri ancora, come Michele Zarrillo, “Nell’estasi e nel fango, “Raphael Gualazzi, “Carioca” e lo stesso Diodato, risultato il vincitore del Festival con la canzone “Fai rumore”.
Bravi anche, tra le nuove proposte, i giovanissimi Tecla e Leo Gassman. Quest’ultimo si è aggiudicato la vittoria nella gara finale.
Cantanti, questi, che, come altri, a differenza del “Re nudo”, non hanno avuto bisogno di denudarsi per dimostrare qualcosa. Innamorati delle canzoni, che hanno interpretato, in esse hanno denudato la loro anima.
Ci diranno che siamo nostalgici del vecchio Sanremo e non è così perché anche il vecchio Sanremo ha avuto personaggi un po’ eccentrici e fuori dalle righe, come Adriano Celentano, Vasco Rossi, Renato Zero e tanti altri, che hanno, però, firmato grandi successi.
Ci diranno, ancora, che, con le preferenze da noi indicate, ci riveliamo superati e mostriamo di non sapere cosa significhi essere “contemporaneo”, termine oggi molto in voga, che spesso sentiamo ripetere e che nasconde tutto e niente
Ebbene, sì, forse non sappiamo riconoscere né apprezzare il contemporaneo se essere contemporaneo può significare, incitare alla violenza, all’odio o, magari, anche al razzismo. Ci riferiamo, ovviamente, ad altre realtà e ad altri contesti, nei quali ciò accade, ma non è da escludere che simili atteggiamenti possano serpeggiare, talvolta, anche nel mondo della canzone e, più in generale, dello spettacolo.
E, dunque, siamo ben contenti di sentirci superati e non vicini ad estremismi molto pericolosi, che perfino in un Festival potrebbero, un giorno, annidarsi.
Lo ammettiamo, ci piacciono le belle canzoni e anche il pubblico, in molte occasioni ha mostrato di gradirle perchè cantare l’Amore non fa mai male…
(Febbraio 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Un Natale diverso
Lo vorremmo per tutti.
Lo vorremmo per i barboni, costretti troppo spesso a finire i loro giorni nell’abbandono più triste e desolato, in cui la morte li coglie, infreddoliti e tremanti, senza una mano amica a sostenerli e a confortarli, almeno nell’ora fatale.
Lo vorremmo per i bimbi abusati, offesi nella loro dignità di esseri umani e derubati miseramente della loro innocenza e per quanti altri, adulti, bambini e neonati, sono costretti ad affrontare la tragedia del mare su barconi sgangherati, lottando, anch’essi troppo spesso, tra la vita e la morte.
Lo vorremmo per le donne, vittime della violenza del maschio, che trovano la morte proprio là dove dovrebbero avvertire il calore del focolare domestico. Proprio là concludono, invece, tragicamente la loro esistenza, vittime incolpevoli di un amore sbagliato nei confronti di uomini, che vedono ancora la donna come oggetto e si dimostrano incapaci di distinguere tra cosa e persona, tra amore, passione, gelosia e desiderio di possessso.
Un Natale diverso vorremmo - perché no? - per tutti coloro che la società, nonostante le norme del vivere civile, non è ancora riuscita a dirozzare, a rendere meno violenti, villani e prevaricatori, come i tanti che non hanno esitato a lanciare i loro insulti insensati contro Liliana Segre, una donna meritevole del più grande rispetto. Lei che, bambina, ha conosciuto l’odio razzista, non avrebbe voluto mai più leggerlo negli occhi di quanti, in questi giorni, l’hanno fatta oggetto di dileggio e sarcasmo.
Auspichiamo che si ripetano più spesso giornate come quella che ha visto, a Milano, marciare una fiumana di gente comune in corteo, con circa seicento sindaci, provenienti da tutta Italia, in segno di solidarietà verso Liliana Segre, offrendosi di essere, loro, la sua scorta e di rigettare al mittente ogni insulto antisemita ed ogni rigurgito fascista.
Un Natale diverso vorremmo soprattutto per i nostri giovani perché il loro entusiasmo, la loro vitalità, il loro mondo di sogni, aspirazioni e progetti non vengano intaccati, turbati o stravolti dagli esempi poco edificanti di noi adulti, che ci dichiariamo responsabili della loro formazione.
Vorremmo che giorni come quello della strage del 12 dicembre del 1969, in Piazza Fontana, nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, come altre simili di quegli anni tragici, in cui rabbia, odio e violenza insanguinarono le nostre strade, non si verificassero mai più.
Un Natale diverso vorremmo per i familiari delle 17 vittime e degli 88 feriti per quella micidiale bomba. Essi ancora aspettano che quegli eventi non siano ulteriormente coperti dalla polvere del tempo e che la forza della memoria possa finalmente illuminare la strada della ricerca della verità e della giustizia.
Vorremmo uno Stato che sappia essere più Stato, una società più civile, in grado di garantire i diritti dei cittadini, una nazione in cui non si debba ancora aspettare di conoscere la verità, dopo 50 anni di inutile attesa, tra dinamiche distorte, depistaggi e risvolti oscuri, che proiettano ombre terribili sugli apparati statali.
Vorremmo davvero, per tutti noi, un Natale diverso, un Natale da favola, da vivere nel segno di una grande utopia, nel sogno di una grande Città dell’Amore, della Solidarietà e della Dignità.
(Dicembre 2019)
Il Natale napoletano
di Luigi Rezzuti
Il Natale a Napoli è qualcosa di assolutamente unico rispetto alle altre città, sia dell’Italia che dell’Europa.
A differenza delle grandi città, in cui i tradizionali mercatini si svolgono per le strade e per le piazze, durante il mese di dicembre, a Napoli il Natale è presente tutto l’anno.
Infatti, nel cuore del centro storico, nella zona compresa fra via San Gregorio Armeno e Spaccanapoli, è un susseguirsi ininterrotto di botteghe artigiane, aperte tutto l’anno e specializzate nella realizzazione di presepi, con magi, pastori e capanne artigianali, affiancate da statuine tradizionali, ma anche da quelle raffiguranti personaggi famosi, antichi e contemporanei, attinti dal gossip, oltre agli intramontabili Pulcinella, Totò e Maradona, a grandezza standard o addirittura naturale!
Ovviamente, avvicinandosi le feste di Natale, ogni quartiere si ammanta di un’atmosfera gioiosa e pittoresca, dove si può assaporare lo spirito del Natale tradizionale napoletano.
Durante le feste natalizie, nel cuore della città vengono organizzati anche mercatini tradizionali, sparsi per le vie del centro, e magnifici presepi viventi, come quello in piazza San Gaetano, mentre nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore si possono ammirare microscopici presepi racchiusi nei gusci delle noci.
Tutti i turisti stranieri si stupiscono quando visitano Napoli nel periodo natalizio. Le vie del centro, quelle dei mercatini e delle botteghe artigiane, sono tanto affollate che è quasi impossibile camminare, al punto che entra in vigore il senso di marcia per i pedoni.
Poche città al mondo riescono ad evocare lo spirito, l’arte e la tradizione dl Natale. Napoli è certamente una di queste, una città in cui il Presepe è un’arte che si tramanda da generazioni, una tradizione che affonda le sue radici nel XVIII secolo.
San Gregorio Armeno è il cuore pulsante del Natale a Napoli, strada. universalmente riconosciuta come quella delle botteghe artigiane e dei pastori, vere e proprie opere d’arte, uniche nel proprio genere.
Il Natale a Napoli si riscopre, infatti, lungo le vie del centro storico. San Gregorio Armeno è il punto di partenza o di arrivo, di una passeggiata tra vicoli, scorci suggestivi, splendidi edifici e meravigliosi luoghi religiosi, come le chiese, con il chiostro e lo splendido campanile, di Piazza del Gesù e San Domenico Maggiore.
Da novembre e per tutto dicembre, fino a gennaio è il Natale della tradizione la festa più amata dai napoletani, e non solo.
Tra le bancarelle, naturalmente, non mancheranno souvenir, addobbi e decorazioni.
(Dicembre 2019)
SPIGOLATURE
di Luciano Scateni
Siamo tutti Liliana
Contro minacce e insulti alla senatrice Segre tutti contro i media, quasi tutti, ma con varianti significative tra chi, sic et simpliciter, imputa a rigurgiti di nazifascismo l’oscena campagna di odio antisemita e chi, temendo di subire contraccolpi elettorali, adotta l’equidistanza dall’ignobile fenomeno e si unisce con voce stonata al coro di condanne delle ingiurie subite, oscura accertate contiguità con l’estrema destra xenofoba, razzista, antisemita. La Repubblica, per fugare ogni dubbio sui pericoli di uscita dalle fogne dei complici fascio-italiani della Shoa, propone un’esemplare ricognizione di episodi. Il più recente è l’astensione di Salvini, Meloni e Berlusconi al voto per l’approvazione della proposta, da parte di Liliana Segre, di una commissione contro l’antisemitismo, il razzismo, l’odio e la violenza; indecente il rifiuto di Lega e Fratelli d’Italia di applaudire il voto favorevole. Cosa ha determinato lo scandaloso atteggiamento, se non il timore di perdere il consenso degli estremisti di destra? Sul comportamento di Lega e Fratelli d’Italia niente di nuovo. La palude sociale fangosa in cui gettano le reti per pescare consensi è quella che dilaga sui social. Incomprensibile, patetico, è l’accodarsi allo scandaloso astensionismo di quanto residua di Forza Italia.
Salvini e Meloni, vertici della destra italiana, negano il pericolo di derive neofasciste, i raduni all’insegna del fascio e della svastica, i saluti romani, gli striscioni razzisti e xenofobi, antisemiti, la contiguità con Casa Pound, Forza Nuova e il sottobosco di una miriade di movimenti eversivi. Allora qual sarebbe la provenienza degli insulti social alla Segre, agli ebrei? Eccone un campionario: “Sono tornate le zecche” è un insulto ricorrente e ‘zecche’ per gli aguzzini dei lager erano gli ebrei dell’eccidio di massa, i bambini uccisi dai cecchini dei campi di sterminio come al tiro al bersaglio. ‘Zecche’, ‘nasi adunchi’, sono, nel veleno degli insulti a Liliana Segre, Gad Lerner, il deputato Fiano, il presidente dell’ospedale israeliano, Soros. Quasi duecento sono gli episodi di antisemitismo, rilevati da Centro di documentazione ebraica. Ingiurie sui social: “Rastrelliamo? Li bruciamo e facciamo n bel falò”; la foto di una saponetta con la marca ‘Segre’. Sul ‘Huffington Post’, video antisemita, un milione di visualizzazioni, sul sito nazista “La gioia di Satana” per gli assurdi negazionisti, giorno della memoria diventa il giorno della menzogna; “Bisogna fermare quelle merde sioniste”, “Riapriamo i forni” e l’invito comparso in Puglia a “spararsi per fare un favore all’umanità”. In Toscana, a proposito di forni crematori: “Aggiungi un posto a tavola”. Sartori, insegnante di Venezia, ex segretario di Forza Nuova, rivolto alla senatrice Segre: “Sta bene in un simpatico termovalorizzatore”. Isotta, critico musicale. “Il razzismo venne inventato dagli ebrei”. Pepe, ex senatore 5Stelle: “Hanno crocifisso Dio e si sono inginocchiati ad adorare il suo avversario. Hanno i giorni contati”.
Questo popolo di immondi, è quello solidale con Netanjau, con l’usurpazione violenta dei territori palestinesi, etichettato dai falchi israeliani come nazionalsocialismo, esattamente come fece Hitler per legittimare l’olocausto e acquisire la solidarietà di Mussolini. È lo stesso dell’arcipelago neonazista che raggruppa ‘Veneto Fronte Skinead’, ‘Manipolo di Avanguardia Bergamo’, ‘Rebel Film di Ivrea’, ‘Militia’, ‘Rivolta Nazionale’, entrambe di Roma, ‘Lealtà Azione’, che s’ispira al generale delle SS Degrelle, il circuito ‘Hammerskin’ antisemita nato da una scissione del Ku Kluz Klan.
Da questo coacervo putrido, di pericolosa sovversione, deve difendersi la senatrice Segre, sopravvissuta alla shoa, costretta alla protezione della scorta per vivere i suoi novant’anni al riparo da attentati e continuare ad esercitare il ruolo di memoria in prima persona del tragico scenario nazifascista.
Un settimanale punta a vendere più copie, raccontando presunti inciuci sulla vita di coppia Salvini-Verdini. Nessuna meraviglia, così facendo si accoda all’orgia di gossip di un consistente pacchetto di rotocalchi (carta stampata e televisivi). Càmpano di pettegolezzi, finti scoop, falsi e complicità dei soggetti cosiddetti ‘vip’, che ne traggono popolarità e prebende in euro. A insinuare il sospetto di cornificazioni della Verdini in danno di Salvini, immediatamente smentito dalla concorrenza, è il periodico “Oggi”, approdato al giornalismo da “Grand Hotel” per allinearsi al dilagante fenomeno del gossip, monopolizzato da primi attori e prime attrici dei media scandalistici, ovvero da Belen, Barbara D’Urso, Salvini, Briatore, Alba Parietti e compagnia più o meno bella. Nessuna offesa per chi si crogiola nel bestiario delle ciarle di ‘La vita in diretta’, del programma della D’Urso, del format ‘Forum’, condotto dalla Palombelli, che mette in scena finti litigi e sentenze fasulle di giudici extra tribunale, ma doveroso l’sos sulle conseguenze per il nostro pianeta, distante anni luce dai problemi del terzo millennio, cloroformizzati, con messi abusati della distrazione di massa.
(Novembre 2019)