Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Ci sono momenti, nella nostra vita, che lasciano il segno. Alcuni sono particolarmente gioiosi, altri di profonda sofferenza. Su uno di essi ci soffermiamo, oggi, in questi nostri “Pensieri ad alta voce”, attraverso i quali siamo soliti dialogare con noi stessi e con gli altri
Una morte apparente
Era come risvegliarsi da un coma profondo… Entrò nel suo studio con passo titubante e, di colpo, si trovò immersa - o sommersa? - fra le sue carte di sempre: libri, inviti a meeting, manifestazioni culturali, concerti, restling, locandine per mostre d’arte, recensioni, bozze di libri, suoi e di altri. E poi, targhe, medaglie, guidoncini dei Lyons e di altre Associazioni e Fondazioni, pergamene, ninnoli… Un mare ondeggiante dinanzi ai suoi occhi. Possibile che avesse raccolto, senza quasi accorgersene, tanto materiale? Utile, inutile? Caro, prezioso, insignificante? Superfluo? Era tutto lì, di colpo, dinanzi ai suoi occhi. Ora, dopo quel lungo periodo di stasi, forse, avrebbe potuto ordinarlo o prenderne le distanze o - perché no? - disfarsene, così, su due piedi. Farlo scomparire, dissiparlo in una nuvola, come di certo sarebbe avvenuto ad opera di altri, se lei fosse scomparsa improvvisamente. Ma tutto quel materiale era sempre lì. Ed anche lei era ancora lì, in quel caos organizzato e razionalizzato, nello studio come nella mente, Era ancora lì, in quello studio, magico nel suo disordine. Un non luogo perché luogo dell’anima, luogo del cuore, palpitante di ricordi, di illusioni, di sogni, di rimpianti...
Quel lungo periodo, popolato di sofferenze, di mali, di affanni, di preoccupazioni, l’aveva cambiata. L’aveva resa un’altra, nuova anche a se stessa. Diversa. Migliore? Peggiore? Chi poteva dirlo? C’era da chiederselo, ma non c’era risposta. Almeno non ora, non in quel momento, nel quale usciva da quel limbo di solitudine e di silenzio. Si era sentita d’improvviso privata di affetti, di amici, di calore umano. I suoi familiari, sì, c’erano e ci sarebbero stati sempre. Lo sapeva. Lo sentiva in ogni sfumatura del loro amore, ma anch’essi sembravano come emergere dal vuoto, da un vuoto, in cui erano scomparsi i suoi affetti, gli amici di sempre. Dove erano finiti? Ad eccezione di pochi, si erano tutti dileguati. Non udiva più voci intorno a sé.
Eppure non c’era sofferenza nel constatare di essere uscita, viva, dal mondo. Ma da quale mondo? Forse, quello in cui aveva creduto non era stato mai un mondo o, di certo, non il suo mondo, quello nel quale si era illusa, pensando di vivere circondata di affetto e simpatia. Il mondo amico ora lo vedeva con altri occhi: era un villaggio piccolo piccolo, con delle mura di cartapesta, come quelli di alcune favole che soleva raccontare alla sua dolcissima nipotina. Le amava le favole, la piccola. E le aveva sempre amate anche lei. Da bambina e da adulta. Aveva anche creduto alle favole, come a quella della bella addormentata che si risvegliava all’improvviso per ritrovare il suo principe… Aveva creduto alla favola dell’amicizia che dura in eterno, mai scalfita da nulla e nemmeno logorata dal tempo, alla favola della stima e della simpatia che permangono e perdurano, anche quando non fai nulla per nessuno e nessuno deve ricambiare alcunché. La favola ora si era conclusa con lunghi giorni di solitudine e silenzio. Sì, una solitudine, sorella del silenzio, che però le era parsa anche bella. Non le aveva dato noia. Non le aveva procurato dolore, ma quasi un senso di sollievo, di nuova libertà, di nuova vita. La solitudine si era illuminata di silenzio, laddove il silenzio si faceva voce del cuore, soffio dell’anima e aveva offerto linfa alla poesia. Quanti versi erano nati in quel silenzio, in quella solitudine! Versi vergati in fretta, scritti di getto, in qualsiasi ora del giorno o della notte, e tuttavia lasciati lì, abbandonati, ancora in bozza, sulla sua scrivania, in mezzo a tutto il resto.
Rientrando dopo tanto tempo nel suo studio, si era sentita quasi un’accumulatrice seriale, ma non solo di libri e di oggetti, come pensavano i suoi, che glielo ripetevano spesso, a volte con il sorriso, altre con espressione più seria. Ebbene, era vero. Nulla da replicare. Era un’accumulatrice seriale, non solo di libri, di ninnoli, di oggetti, ma anche di sentimenti, di ricordi, di illusioni, di rimpianti Un turbinìo di emozioni che, alla vista di quegli oggetti, le gonfiavano il cuore.
Forse era meglio uscire da quello studio dove, per tanto tempo, non era più rientrata. Aveva vissuto un’altra vita, in un’altra dimensione dello spazio e del tempo. Ed ora tutto riprendeva… Doveva riprendere. Come prima: le telefonate, le conversazioni, gli amici, il giornale, la routine di ogni giorno. Tutto come sempre. Ma non identico a sempre. Ora aveva capito tante cose in più della vita che non aveva appreso quando aveva vissuto prodigandosi per gli altri, dando ogni giorno qualcosa, senza mai aspettarsi di ricevere qualcos’altro, in restituzione. Aveva capito che, nella dimensione esistenziale e banale del quotidiano, non esistevano cambi, ricambi o restituzioni. Tutto andava avanti così, un po’ a caso, e chi poteva o voleva prendeva. Prendeva semplicemente, senza porsi domande su quel che gli veniva offerto ed anche senza porsi limiti. Ora si rendeva conto che doveva pensare un po’ più a se stessa, a coltivare il proprio io, il proprio ego, come facevano ed avevano fatto tanti conoscenti ed amici. No. Meglio conservare un io piccolo piccolo, semplice, umile, modesto, ma soprattutto pago della propria finitudine. Il piccolo io può sfidare se stesso ed accrescere le sue potenzialità, nella molteplicità delle proprie aspirazioni. Il grande ego, gonfio di vanità, pieno di boria e di arroganza, diventa smisurato e nulla più lo appaga, nella smania di un falso Infinito.
Riordinare lo studio? Liberarsi di qualcosa, di molte cose? Si poteva, ma… “Ci penserò domani”, disse fra sè, come aveva annunciato la protagonista di quel romanzo “Via col vento”, laRossella O’ Hara, che l’aveva incantata negli anni giovanili.
Ancora uno sguardo smarrito alla scrivania, gremita di bozze da portare a termine per tanti lavori, lasciati incompiuti.
Ricordò improvvisamente le belle parole di Papa Francesco di qualche domenica precedente, quando, all’Angelus, nel commentare il Vangelo di Lazzaro, che esce dal sepolcro al richiamo del Signore, per rinascere a nuova vita, esplicitava il senso profondo di tale miracolo, sottolineando che ognuno di noi può avere momenti difficili e sentirsi oppresso dal dolore, dai mali. Quell’Angelus si era chiuso con la sua accorata esortazione a “non chiudersi in se stessi, nel sarcofago delle proprie sofferenze, a non cedere al pessimismo”.
Quelle parole del Papa le apparvero quanto mai calzanti.
Era di nuovo viva, anche lei, finalmente.
Era stata una morte apparente...
(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)
NAPOLI CAMPIONE D’ITALIA
di Luigi Rezzuti
Il primo scudetto del Napoli fu vinto nell’era Maradona, che giocò nel Napoli dal 1984 al 1991. In quella stagione l’allenatore era Ottavio Bianchi. La squadra si classificò prima davanti al Milan, Inter e Juventus. Nel secondo scudetto (1989 – 1990) il Napoli si classificò primo davanti alla Juventus, Inter, Verona e Milan, in panchina sedeva l’allenatore Alberto Bigon. In entrambe le stagioni scudettate il presidente proprietario del Napoli era Corrado Ferlaino. In quella stagione nel Napoli giocavano: Giuliani, Ferrara, Renica, De Napoli, Corradini, Crippa e in attacco Maradona, Careca e Carnevale. Ma il Napoli nella sua storia calcistica ha vinto anche 6 Coppe Italia, 2 Super Coppe italiane, 1 Coppa Uefa e sfiorato varie volte la conquista dello scudetto, che purtroppo per episodi non chiari… non riuscì a vincere. Sia nel primo che nel secondo scudetto la città diede vita ad una grande festa a cielo aperto: piazze, strade, vicoli, quartieri interi si colorarono con striscioni, bandiere, cortei di auto che sbandieravano lo stemma dello scudetto. Era il 10 maggio, festa della mamma, ma quel giorno fu la festa dei napoletani.
Oggi, a distanza di 34 anni, con il campionato ancora in corso (2022-2023), il Napoli di Luciano Spalletti, presidente Aurelio De Laurentiis, si è aggiudicato il terzo scudetto della storia, disputando una stagione semplicemente straordinaria e distanziando, con un grosso margine di punti, squadre come: Lazio, Inter, Juventus e Milan. Tra i vicoli del capoluogo partenopeo l’entusiasmo è alle stelle per un trionfo ormai annunciato. I quartieri si sono riempiti di tricolori e di immagini dei calciatori di Spalletti. Bando alla scaramanzia, in barba alla matematica, per giorni e giorni, Napoli si è truccata a festa per lo scudetto che mancava dai tempi di Maradona. Si sono colorati i vicoli e le scalinate, scegliendo l’azzurro con bandiere, magliette e lunghe strisce di plastica, sono state tappezzate le strade più eleganti della città e dei quartieri più popolari con scritte e scudetti. Anche se la fine del campionato è ancora lontana, i preparativi sono partiti già da qualche mese e tra i quartieri c’è una vera e propria gara per l’installazione più originale.
La “febbre” è talmente alta che gli abitanti deivari rioni si sono persino autotassati per collaborare agli allestimenti e annunciare feste a sorpresa; uno degli ultimi interventi è stato realizzato su una scalinata di un vicolo dei quartieri Spagnoli dove decine di bandiere fanno da sipario a una scalinata azzurra su cui è stato dipinto un grande scudetto. Una scalinata che non poteva chiamarsi che “Salita Paradiso”. Ma le immagini col tricolore e il TRE, numero degli scudetti azzurri, hanno fatto capolino un po' dovunque, in tutta la città partenopea. I ritratti dei giocatori di Luciano Spalletti tappezzano ormai l’intera città. In attesa spasmodica solo della matematica che consegnasse un trionfo che mancava dai tempi di Maradona, Il Napoli già da tempo iniziava a intravedere il traguardo dello scudetto numero Tre. Il successo con la Juventus ha avvicinato ulteriormente i partenopei verso lo scudetto: verso la matematica vittoria del titolo di Campioni d’Italia. Con un margine di punti così importante, i partenopei hanno iniziato a festeggiare la vittoria del terzo scudetto della storia, dopo i due vinti nel 1987 e nel 1990. Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, insieme al sindaco del capoluogo campano, Gaetano Manfredi, hanno lavorato ai preparativi della festa scudetto che prevede mille ospiti a bordo di una nave da crociera. Manca poco alla fine della serie A, il Napoli è primo, segue la Lazio, la Juventus, la Roma e il Milan.
La città è già esplosa in una festa memorabile, però la festa scudetto ufficiale, con annessa premiazione della squadra, si svolgerà nell’ultima giornata di campionato, in programma domenica 4 giugno. La società con il comune e il Prefetto lavora al piano per la festa: due giorni di celebrazioni, il 3 e il 4 giugno, il primo giorno di festa allo stadio Maradona, dove sarà installata una piattaforma rotante (14 X 14 metri): i calciatori saliranno per essere premiati individualmente. Ma non finisce qui. Saranno, inoltre, montati sei maxi schermi per mostrare ogni dettaglio della celebrazione agli spettatori. Nel secondo giorno la logistica resta la stessa: sede centrale a Piazza Plebiscito, mentre le piazze di supporto saranno Piazza Giovanni e Paolo II a Scampia, Piazza Mercato e l’ex Nato di Bagnoli. I palchi saranno, invece, montati alla Cassa Armonica di Castellammare di Stabia, Piazza San Ciro a Portici, Piazza d’Armi a Nola, la Villa Comunale di Pomigliano d’Arco, il mercato ortofrutticolo a Giugliano e Piazza della Repubblica a Pozzuoli.
(Maggio 2023)
Filo diretto con i lettori
Ringrazio tutti coloro che hanno fatto pervenire un commento al mio recente articolo “Quale giornalismo oggi?” (marzo 2023). Per comprensibili motivi di spazio, pubblichiamo soltanto i primi tre che ci sono pervenuti.
Un grazie di cuore agli autori di questi tre interventi non tanto per le lodi, che mi sembrano eccessive, ma che, peraltro, so essere sincere e, per ciò appunto, danno gioia, quanto per le acute osservazioni sull’attuale crisi del giornalismo che ci auguriamo possa essere non “inarrestabile”, ma soltanto temporanea.
Grazie anche per averci fornito l’occasione di avviare, in modo inatteso, un filo diretto con i lettori.
Sul giornalismo
Romano Rizzo
Con immenso piacere ho letto l’interessante articolo che la nostra Marisa Pumpo ha regalato a tutti i lettori de ilvomerese.com. Finalmente una ventata di aria pura ed un corretto argomentare hanno rotto quella nube di timida ovvietà ed acquiescenza che caratterizza troppa stampa.
Niente ha addolcito e nessuna reticenza ha avuto nella denuncia dei troppi mali che affliggono l’informazione in tutte le sue forme.
Mi ritrovo con lei, come già in moltissime altre occasioni, in perfetta sintonia, forse perché io sono stato, in gioventù, un accanito lettore di libri, giornali e riviste, anche se un po’ troppo severo. Basti dire che, tra i giornali, le mie preferenze andavano solo alla Stampa ed al Corriere della sera, per il valore degli articolisti e per la cura e la giusta ricercatezza delle espressioni usate. Il mio tempo era dedicato, in quegli anni, alla lettura delle Riviste Settimanali come Epoca, Panorama, L’Europeo, L’Espresso, Oggi, Settimo giorno e la Settimana Incom, Tempo, Visto, che ritenevo, per motivi diversi, degni della mia attenzione e che, in effetti, non mi deludevano mai.
Oggi parecchie di queste riviste non ci sono più e le poche che restano seguono le linee editoriali imposte da nuovi proprietari che nulla avevano avuto a che fare col giornalismo di un tempo.
L’Espresso, ora, è di proprietà di Jervolino e non sembra più quello di Scalfari. Perfino il Corriere della sera, gloriosa testata della famiglia Crespi, oggi rientra tra le pubblicazioni di Cairo (l’inventore di quei settimanali di spot e gossip, con molte foto e brevi didascalie, che quasi non si differenziano tra loro ma hanno il grande pregio di costare poco e di rendere molto!) E’ da considerare poi che, con l’avvento di pc, Internet e social, la informazione dei quotidiani non riesce a competere e si può affermare che la stampa tutta soffra, come, peraltro, la canzone e l’arte classica, una sempre più difficile presa sulle nuove generazioni.
Cosa aggiungere? O tempora o mores! - direbbero gli antichi - ma io mi convinco sempre più che a noi benpensanti tocca di cercare, se non di fermare, almeno di rallentare questo inarrestabile processo.
A noi altri tocca, inoltre, l’onere di far conoscere e divulgare i pensieri e le considerazioni della nostra cara, grande Marisa, dopo averne celebrato, in maniera adeguata, il tanto atteso ritorno.
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Maria Rosaria Petrungaro
Che articoli giornalistici!!!… Tutto vero quello che avete pubblicato e che pubblicherete sul vostro giornale Il Vomerese… Siete Grande… come Grande è l’impegno per la vostra associazione culturale, “Cosmopolis”, che diventa sempre di più uno sprone interiore per noi cittadini, spingendoci a considerare che vita vogliamo vivere e in qual modo viverla. Speriamo solo che i social e le informazioni che ci arrivano tramite la TV non peggiorino il modo di pensare dei cittadini... Grazie e serena e gioiosa giornata… Affettuosamente.
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Emilia Menini
Complimenti per aver ripreso in mano la tua più bella attitudine, il giornalismo, grazie al quale la tua penna si esprime attraverso la verità.
(Aprile 2023)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Il giornalismo oggi
Dove eravamo rimasti?
Dunque… Dove eravamo rimasti?
Fu la celebre frase, pronunziata da Enzo Tortora, alla ripresa della fortunatissima rubrica Portobello.
Grande l’emozione del conduttore nel rientrare negli studi televisivi della Rai, tra le ovazioni del suo pubblico, dopo aver subìto un lungo, iniquo processo.
Anche noi riprendiamo, non senza emozione, la nostra rubrica e, con essa, il dialogo ideale con quei nostri tre o quattro lettori, di manzoniana memoria, dopo aver superato l’iniqua sorte, presentatasi sotto le spoglie di difficili vicende personali e familiari.
Dunque… ritorniamo, oggi, interrompendo un lungo silenzio, ai nostri Pensieri ad alta voce che ci portano a parlare di giornalismo. Un tasto dolente. Un tema che ci sta molto a cuore. Lo abbiamo affrontato da sempre, in anni lontani ed in tempi più vicini a noi, in circostanze e forme diverse, attraverso conferenze, dibattiti, convegni, articoli, recensioni.
“Quale giornalismo oggi?” ci chiedevamo in anni lontani, insieme a giornalisti di rango, alcuni dei quali, ormai, non più tra noi, come Ernesto Filoso e Giampaolo Pansa, …. tanto per citarne alcuni. Eravamo scettici e pessimisti, allora. Lo siamo ancor più, oggi, Ed a ragion veduta.
Ci occupavamo, allora, soprattutto del giornalismo su carta stampata.
Oggi il discorso si fa più duro ed amaro, nel constatare quale tipo di giornalismo trionfa in TV.
Conduttori televisivi, sempre pronti a salire sul carro del vincitore, ad organizzare dibattiti, in cui poco si concede alle voci critiche e molto, invece, all’assordante schiamazzo corale, per giungere alla fine, alla felice conclusione che, per fortuna, tutto va bene, oggi, ed andrà, ancor meglio, domani.
Dibattiti televisivi nei quali poco si dibatte e molto si afferma, per offrire un quadro, talvolta addirittura esaltante, della nostra attuale realtà culturale, sociale, politica.
Tavole rotonde in cui dominano atteggiamenti sempre più aggressivi e sfrontatamente pilotati, molto simili a quei questionari, apparentemente a risposta aperta e multipla, nei quali, invece, la risposta è già implicita nella domanda.
Un giornalismo, sempre più spesso falso e retorico, in cui il conduttore non conduce, ma prende a prestito il mestiere dal doppiatore e, come negli sketches comici più riusciti, fa da spalla al politico di turno, per evitargli lunghi discorsi programmatici e risparmiargli, soprattutto, la fatica di doversi promuovere da solo o, da solo, poter difendersi dalle accuse degli avversari.
E se poi il conduttore non ce la fa, in tale impresa, chiede aiuto all’opinionista, che ancora non si sa bene chi sia diventato oggi: figura a mezza strada tra la voce critica della cosiddetta società civile e l’esponente più seguito sui social, l’influencer con la sua lunga schiera di followers, destinato ad avere sempre l’ultima parola, nel passaggio da un’emittente all’altra, da un programma all’altro, fra ampi giri di parole e di poltrone.
Un tempo lo avresti detto capobanda o, con un simpatico dialettismo, capintesta.
Per non parlare, poi, di come vengono presentati i fatti di cronaca e gli eventi, che rimbalzano, a ritmo incessante (anche questi) da un’emittente all’altra, da un programma all’altro, con commenti e servizi che sembrano usciti da una fotocopiatrice.
Dove sono più quelle gloriose Scuole di giornalismo, tenute, non da cattedratici che insegnano digitalizzazione, formattazione e quant’altro, come avviene oggi, ma da vecchi giornalisti che insegnavano ai loro giovani colleghi, impegnati nel praticantato, come occorre cogliere il fatto nel suo stesso accadere, pura cronaca, su cui, ovviamente, non possono essere esclusi commenti nè approfondimenti.
Il giornalismo, oggi, è spesso solo un copia e incolla, maldestro e farraginoso o, per i più quotati, reso con più attenzione, a malapena più attendibile, ma sempre gloriosa fotocopia, che rimbalza, abbondantemente pubblicizzato/a, da una testata all’altra, da un telegiornale all’altro, da un talk show all’altro, in radio o in tv.
Qualche esempio più recente? Il caso del piccolo Ryan, ridotto quasi in fin di vita, il femminicidio dell’avvocatessa Martina Scialdone, l’arresto del latitante Matteo Messina Denaro, la morte di Gina Lollobrigida.
La Lollo tra gossip e contenzioso giudiziario
La figura della diva, un mito del cinema italiano ed internazionale, vivisezionata fin nelle pieghe più riposte dell’anima e della vita.
Qui il giornalismo ha raggiunto davvero il suo apice. Un giornalismo malevolo, intrigante pettegolo, in cui, in molti, come insaziabili predatori, si sono dati da fare per spolpare l’osso fino in fondo, pizzicando qua e là sui fatti e nel quotidiano della diva. Tutto per dovere di cronaca, per far chiarezza, come è stato più volte ribadito. Ci si è infilati di diritto nelle controverse vicende personali e familiari dell’attrice, al punto tale da sviscerare i rapporti tra madre, figlio, il presunto marito spagnolo, Javier Rigau, ed un’altra strana figura, al centro del dibattito e, per ciò, appunto discussa e discutibile, il giovane Andrea Piazzolla, definito da ciascuno, di volta in volta, in vario modo, ma sempre a pieno titolo, factotum, tuttofare, figlioccio, “amato da lei e a lei dedito come e più di un figlio”. Uno spionaggiodal bucodella serratura, in perfetto stile Sherlock Holmes, fino a ricostruire l’entità del patrimonio e cercare di scoprire se e quanti testamenti fossero stati depositati.
Schieramenti fra i sostenitori dei diversi aspiranti ai beni della defunta, testimonianze di amici storici, o presunti tali, di sedicenti amiche della diva che dichiarano di avere avuto a lungo, rapporti sinceri ed affettuosi con lei, per oltre 12, 14, 20 anni e più, di avere condiviso gioie, dolori, feste e viaggi. Testimonianze e liti in diretta TV, con paradossali forme di snobismo, protagonismo ed affermazioni esasperate dell’ego.
Questo ci è toccato di vedere mentre, per nostra buona sorte, si susseguivano le immagini, bellissime, di una diva che ha segnato un’intera generazione, dando prestigio al cinema italiano del Novecento. E solo di questo avremmo voluto sentir parlare dai nostri giornalisti. Il resto poteva essere tranquillamente lasciato in pasto ai giornaletti di gossip!
A nessuno è venuto in mente di ricordare che la Morte segna la parola fine sulle vicende umane e sullo squallore di queste vicende, se dovesse esserci.
A nessuno è venuto in mente che esistono parole come riguardo, decoro e riservatezza. Sempre. E, soprattutto, dinanzi alla morte.
Non a caso ed opportunamente, in chiesa, il celebrante del rito funebre ha invitato al silenzio i presenti.
Maledetto ingranaggio, questa nostra TV, macchina infernale dell’Informazione che, quando ti agguanta, ti fa suo prigioniero e non ti lascia più. Come un dannato vampiro, si nutre del sangue e del dolore dei protagonisti dei fatti narrati, da cui, invece, bisognerebbe saper prendere le distanze.
È quanto basta per il giornalismo del servizio pubblico!
Gli alienati del copia e incolla
Che dire di quella moda, oggi trionfante, del giornalismo copia e incolla, a cui abbiamo più sopra accennato? Pseudo giornalismo, stracquo e ripetitivo, nel quale si copia di tutto e di più. Basta sedersi a tavolino, accedere ai vari motori di ricerca del pc, il che significa per molti copiare di sana pianta, di qua e di là, tutto quello che si trova sullo stesso argomento che si vuole trattare, congiungere pezzi e strafalcioni e il gioco del copia e incolla è bello e fatto. Si copia dappertutto: dai quotidiani e dalle testate scientifiche, nella migliore delle ipotesi e per i più dotati. Spesso, sconcertante sorpresa! perfino dai “bugiardini”, che accompagnano i medicinali, dai comunicati, dalle locandine per le mostre … e chi ne ha più ne metta. Ma di preferenza e soprattutto, per i meno capaci, si copia dal web, dai social che, con i loro followers, sono diventati i giornali odierni, grazie ai quali si registrano, e non solo fra i giovani, esasperate dipendenze, sempre più difficili da superare. Si copiano fake news e cavolate varie, fatte passare come le ultime scoperte, gli ultimi ritrovati della Scienza, attraverso like e condivisioni a catena.
Si sviluppa, di qui, l’ascetica, apostolica convinzione di trasmettere un Vangelo, da affidare ai posteri come lascito testamentario per le future generazioni, che ben volentieri seguiranno, forse, le orme dei Padri.
Dove sono quei vecchi direttori di una volta che, nelle riunioni di redazione del giornale, ai giovani che aspiravano a fare praticantato con loro ricordavano, per prima cosa, che la professione del giornalista era dura e non andava presa sotto gamba. E, con bonaria severità, ripetevano: “Scarpinate giovani, scarpinate.” Un verbo molto significativo con cui si ribadiva la difficoltà di una professione, per esercitare la quale, bisognava andare per le vie, le stradine, i vicoli, le piazze della città e della regione, per cogliere, in ogni dove, idee, spunti, fatti, mentre accadevano, mentre si manifestavano.
On-line, tutto si fa per Te e con Te! È il nuovo inno dei nostri giorni. È il nuovo modo di intendere quella che era una gloriosa, gratificante professione. Altro che il faticoso scarpinare, raccomandato dai direttori delle vecchie testate giornalistiche. Oggi un programma televisivo viene costruito col ricorso a stralci di immagini, clip, spezzoni di interviste, di programmi e di talk show. Il tutto proposto e riprodotto all’infinito, fino allo sfinimento dello spettatore.
Non la intendevamo così, un tempo, quella bella ma anche impegnativa e scomoda professione, che ti chiedeva di mettere le ali all’ingegno e alla creatività, con cura artigianale, come per i vecchi mestieri, che vanno scomparendo anch’essi…
(Marzo 2023)
Spigolature
di Luciano Scateni
Voglia di tregua
Scoppia la pace. L’Italia, il mondo intero, nelle piazze dei cinque continenti, si veste di arcobaleno. Si astengono dallo “stop Putin, stop war”, la Cina, perché motivata dalla crescente incompatibilità con gli Stati Uniti e pronta a replicare l’espansionismo neocolonialista della Russia con l’annessione di Taiwan, delle sue ricchezze naturali. Si associano l’India, economicamente dipendente dalla Russia, dalla Cina e la Corea del Nord, succursale di Putin, ma anche alcune oasi territoriali africane. Votano contro, virtualmente, esplicitamente, frange italiche di filo putinismo. La straordinaria mobilitazione di questi giorni è, insieme, tardiva e incalzante. Si fa strada la consapevolezza di retroscena che poco o nulla hanno a che fare con la follia della guerra fratricida, spacciata per rivendicazioni nazionaliste da Putin e Zelensky. L’obiettivo dei due belligeranti è palese: appropriarsi di territori gratificati dalla natura con preziose risorse naturali. Su questa disputa hanno rapidamente speculato i ‘signori delle armi’, i despoti che monopolizzano le risorse energetiche, la politica.
L’incontestabile presupposto dell’aggressione russa a un Paese sovrano ha spento, sul nascere, le istanze del pacifismo, l’impegno alla neutralità attiva, dettata in Italia, e purtroppo non altrove, dalla Costituzione per scongiurare una nuova tragedia, dopo settantacinque anni di quiete mondiale, con alcune eccezioni. A tappe, tutt’altro che forzate, l’idea di una guerra dissennata, non dichiarata, tra Stati Uniti, Europa e grandi potenze dell’Est ha provato a irrobustirsi per contrapporre motivazioni umanitarie alla ignominia di vittime innocenti, città rase al suolo, milioni di Ucraini in fuga dalla loro terra, di vite brutalmente spezzate. Il mondo ha finto di mediare, di collocare Putin e Zelensky uno di fronte all’altro per un risolutivo regolamento di conti. Altrettanti bluff.
A imbavagliare le speranze hanno concorso l’evidente timidezza dei movimenti pacifisti, le indecisioni onnicomprensive di pro Zelensky e pro Putin, il pensiero unico a difesa dell’indipendenza ucraina senza se o ma e, sul fronte opposto, il diritto ad annettere l’Ucraina per impedire l’espansione dell’Europa e della Nato ai confini diretti con la Russia.
Se il mondo si mobilita, se l’Italia fa altrettanto, dopo un anno intero di accettazione quasi passiva della guerra, di forte disagio sociale, di contrapposizioni politiche sterili e ora risponde “presente” alle manifestazioni per la pace, sollecitate dall’accorato appello di Papa Francesco, è forse meno impossibile la missione di far tacere le armi, di sanare il vulnus di un conflitto crudele, di porre fine ai crimini contro l’umanità.
Conforta che Wellington (Nuova Zelanda), New York (Stati Uniti) e, in Europa, Roma, Milano, Napoli, città dove risiedono cittadini russi e profughi ucraini sensibilizzino il mondo sulla tragedia della guerra.
(Marzo 2023)
REPORTAGE DALL’UCRAINA
“Viaggio tra la gente scampata dalle bombe e i feriti ricoverati in ospedale”
A cura di Luigi Rezzuti
Giovanni e Daniele due reporter di una emittente televisiva italiana sono a Dnipro, dove il russo è la lingua corrente ma nessuno vuole diventare russo.
I due reporter si immergono completamente nella realtà della guerra nelle sue storie di sofferenza.
Visitano le strutture di accoglimento dei profughi e l’ospedale dove arrivano decine e decine d feriti.
Sono passati nove mesi dall’invasione cominciata con una colonna di chilometri di carri armati russi che puntavano verso Kyev.
Nove mesi durante i quali sono morte migliaia di persone, soldati e civili, sono state ritrovate fosse comuni lasciate sul campo dai militari dell’esercito russo, ci sono state deportazioni forzate di cittadino ucraino dalle zone occupate verso la Russia e poi violenze e soprusi.
E la pace? Sembra lontana anche se la controffensiva sul campo delle truppe di Zelenski, che ha permesso di riconquistare decine di villaggi e 3.000 chilometri quadrati di territorio e l’azione congiunta di sanzioni e invio delle armi da parte delle Nazioni occidentali., stanno mettendo in grande difficoltà gli invasori.
Alcune persone del posto accompagnano Giovanni e Daniele a vedere con i propri occhi tutte le atrocità, i crimini di guerra del dittatore Putin.
E’un’immersione completa nella realtà della guerra e nelle sue storie di sofferenza.
Giovanni e Daniele vanno a visitare le strutture di accoglienza dei profughi, incontrano Sarhili, 23 anni, ha subito l’amputazione di un piede, spappolato sun una mina; Elena proveniente da Pokrovsk, cittadina della regione del Donetsk, che racconta: “Sono stata prima picchiata più volte e poi violentata dai militari russi”.
Nella stessa stanza dell’spedale Luba, 14 anni, e a sorella Valeria di 10 scampate dalla stessa città, sotto le bombe, ora vivono qui con la mamma.
Oxana, 12 anni, va incontro a Giovanni e Daniele sfoderando il suo inglese e mostra contenta un suo gattino. E’scappata dal suo villaggio con la mamma, la sorella Milana si intristisce e si emoziona quando incominci a raccontare le loro disavventure di guerra.
Yulia, con l’anziana madre e il figlio piccolo ha lasciato Lysychansk, una città di 100.000 abitanti nella regione di Lagansk e racconta la sua storia che è quella di tanti altri: “Era impossibile vivere lì, la nostra casa è stata completamente distrutta. Oggi li non ci sono elettricità, gas, acqua corrente, la gente cucina sul fuoco per strada o nei cortili. Abbiamo contatti sporadici tramite amici, sappiamo che i russi hanno fatto un referendum anche li. Che senso ha, la popolazione è scappata in Europa, chi è rimasto è perché non c’è l’ha fatta ad andarsene. Nessuno vuole diventare russo, quei pochi che sono in Russia li hanno deportati”.
Kostia, 32 anni, minatore di carbone, viene da Vugledar, nella regione del Donetsk, la città e il suo ospedale sono stati bombardati dai russi e racconta: “I bombardamenti erano quotidiani, ci siamo rintanati nei rifugi sotterranei, i russi hanno sferrato un grande attacco, io e un amico siamo stati colpiti da un colpo di mortaio, lui ha perso una gamba e un braccio, io sono stato ferito gravemente alle mani, allora non ho potuto fare altro che scappare, aiutato dai soldati ucraini”.
Nel racconto Kostia diviene un fiume in piena: “i russi devono essere isolati dalla società civile con sanzioni, altro che liberazione, quello che stanno facendo è un genocidio, se qualcuno pensa che noi dobbiamo smettere di combattere, dovrebbe venire qui. Se noi smettessimo, perderemmo la nostra libertà e anche la nostra vita”.
Nella stessa struttura di accoglienza vi sono persone disabili e famiglie numerose che non hanno potuto ancora trovare una sistemazione o che, semplicemente, non vogliono saperne di andarsene lontani, in un paese che è di loro, rimangono vicini alla loro terra.
Uno di loro racconta: “quando è cominciata la guerra a Kharkiv era difficile capire cosa stesse succedendo, ci siamo rifugiati nei tunnel della metropolitana, come quasi tutti quelli che non hanno potuto scappare. Siamo stati svegliati dalle bombe russe all’alba, poi Kharkiv è stata bombardata molte volte al giorno e anche di notte. Abbiamo passato quattro mesi così, poi siamo venuti qui e ora aiutiamo gli altri profughi. Ora a Kharkiv si vive meglio, perché i nostri soldati hanno spinto via i maledetti”.
Nella stessa struttura si trovano molti anziani, anche loro partecipano alla difesa del paese producendo reti mimetiche e quant’altro di utile riescono a fare per i soldati ucraini.
Giovanni e Daniele si recano all’ospedale principale della città, è l’ospedale di riferimento per i soldati feriti che arrivano dalla prima linea, decine ogni giorno.
Medici e infermieri lavorano e operano giorno e notte, molte sono le amputazioni, Oleksi e Olexandr hanno studiato assieme all’università, ora il primo è il primario del reparto di traumatologia ortopedica e il secondo è chirurgo vascolare nel reparto politraumatizzati.
Hanno appena terminato di operare e anche se stanchi parlano volentieri del loro lavoro: “Non mancano risorse umane e competenze professionali di ottimo livello, c’è grande bisogno invece di strumenti diagnostici moderni”.
In una stanza trovano in quattro letti i soldati feriti, non sembrano stare male, anche loro non hanno remore a parlare di quello che gli è accaduto.
Vladimirio e il suo compagno di stanza hanno subito le operazioni per la riduzione di importanti fratture e anche loro hanno voglia di parlare: “vogliamo tornare al fronte appena sarà possibile, siamo motivati, vinceremo di sicuro, ma non abbiamo abbastanza armi moderne. Dateci più veicoli blindati per il trasporto dei soldati, voi italiani ne avete di buoni e molto apprezzati in Ucraina. Finiremo prima la guerra”.
L’Ucraina che Giovanni e Daniele hanno incontrato e visto di persona oggi è un paese unito dalla sofferenza, dall’orgoglio e dalla volontà di vincere.
(Novembre 2022)
SPIGOLATURE
di Luciano Scateni
La speranza? Il dissenso
Lituania, match di basket Zalgiris, squadra locale contro i russi della Stella Rossa. Prima del pallone alzato tra i due pivot i giocatori dello Zalgiris espongono un lungo striscione con la scritta ‘NO WAR’ e sul fondo i colori della pace. La squadra russa, fischiatissima rifiuta di partecipare e non regge il panno. Per fortuna è un episodio senza repliche. L’opposto: sul palco del San Carlo, a Napoli artisti russi e ucraini cantano uno accanto all’altro e si abbracciano. Nessuna esultanza di Aleksej Miranchuk, giocatore russo dell’Atalanta, dopo il gol segnato alla Sampdoria, dove milita l’ucraino Malinovskji. Sono tanti gli atleti russi che dissentono dall’invasione ordinata da Putin. Partecipano solidali all’inferno dei fratelli ucraini, specialmente di quelli in armi per difendere il loro Paese: Yevhen Malyshev, non ancora ventenne, della nazionale giovanile di biathlon, ucciso in combattimento, l’ex campione di ciclismo Andrei Tchmil, il fuoriclasse del nuoto Mykhaylo Romanchuk, Yuliia Dzhima, oro olimpico nella staffetta del biathlon a Sochi, il collega biatleta Dmytro Pidruchnyi, campione del mondo dell’inseguimento a Oestersund 2019, Dmytro Mazurtsjuk, in gara per le Olimpiadi di Pechino nella combinata nordica, i pugili Vasyl Lomachenko, campione olimpico dei pesi leggeri e del mondo in tre diverse categorie, Oleksandr Usyk, campione del mondo dei pesi massimi, i fratelli Klitschko. In tuta mimetica anche il tennista Stakhovsky, vincitore di Roger Federer a Wimbledon nel 2013. Il commento di Pessina, compagno italiano di squadra: “Il calcio unisce ciò che la follia umana prova a dividere”.
Putin deve rispondere anche dell’esclusione di squadre e atleti russi e ucraini da molti eventi internazionali. Per esempio i campionissimi del tennis Medvedev e Rublev, Wkaterrina Gamova, una delle più grandi pallavoliste di sempre: “Questa pagina vergognosa rimarrà per sempre nella storia del mio Paese”.
Il Levada Center, che in Russia compie sondaggi, al pari del nostro Pagnoncelli, si definisce organizzazione indipendente e non governativa. Da crederci? In Russia esiste l’indipendenza? Fosse vero il dato di Putin popolare all’83 percento, dello stesso zar candidato al processo per crimini contro l’umanità, la scelta di ragionarci su sarebbe confinata nei limiti del ‘non abbiamo capito niente dell’aggressione in Ucraina’, o ‘del popolo russo con il cervello in standby’, che offuscato dalla propaganda ossessiva di regime subisce il condizionamento noto alla psicanalisi come subordinazione di un popolo all’uomo ‘forte’ o che si auto rappresenta come tale in tempi di emergenza. La terza via è una forma misteriosa di masochismo, che ignora le dure conseguenze delle sanzioni, che non crede alla strage di innocenti raccontata da immagini terrificanti, emotivamente inguardabili. La stranezza è evidentissima: secondo Levada Center il consenso per quello che il mondo condanna come criminale sarebbe balzato in su. Ma allora, è invenzione dei cattivi nemici di Putin il numero crescente di dissidenti russi di ogni categoria sociale? Molti i esperti, lo sottolinea il Wall Street Journal, invitano alla cautela sull'affidabilità dei sondaggi in Russia nel momento in cui i principali media indipendenti sono stati messi al bando e quindi la popolazione, in particolare quella dei centri urbani minori lontani da Mosca e San Pietroburgo, è informata sulla guerra solo dai media di Stato con la loro propaganda. La controprova è nei mille volti dei dissidenti: intellettuali, artisti, religiosi, sport, cinema, scienza.
La dissidenza si muove e si sta ampliando un fronte interno di opposizione.
Tra i fermati il sociologo Grigory Yudin, Maria Alyokina delle Pussy Riot, il vicepresidente della sezione di Mosca del partito d’opposizione Yabloko, Kirill Goncharov. Alekseij Navalny ha fatto un appello attraverso i social ai russi perché non diventino “vigliacchi che fingono di non notare la guerra aggressiva scatenata dal nostro folle zar contro l’Ucraina”, la giornalista di Kommersant Yelena Chernenko, espulsa dal pool di giornalisti del ministero degli Affari Esteri. Il direttore artistico del Teatro statale di Mosca è stato licenziato per un post critico su Facebook. La direttrice del Centro Elena Kovalskaya si è dimessa per protesta contro la guerra con l’Ucraina. Sospeso anche il direttore d’orchestra dell’Opera di Novgorod Ivan Velikanov per un breve discorso di ripudio della guerra e l’esecuzione dell’Inno alla gioia di Beethoven. Contro la guerra, anche il regista teatrale Lev Dodin, l’attrice e conduttrice televisiva Julia Menshova, Anatoly Bely e Sergey Lazarev, l’attrice Elizaveta Boyarskaya, la cantante lirica Anna Netrebko”. Appello alla riconciliazione e alla fine della guerra di alcuni sacerdoti della Chiesa ortodossa russa. Putin all’83 per cento?
(Aprile 2022)
Spigolature
di Luciano Scateni
Habemus papam
e che papa!
L’intero pianeta dell’informazione si è giustamente appropriato di un evento inaspettato, di altissimo profilo giornalistico, di un ‘caso’ che chiarisce e coincide perfettamente con il significato di ‘scoop’, che ogni direttore di quotidiani e settimanali vorrebbe esibire: lunga, intensa, affascinante presenza di Papa Francesco nello spazio televisivo di ‘Che tempo che fa’. Per non perdere neppure una virgola del colloquio a distanza di Bergoglio con Fazio, non c’è che leggere i resoconti pubblicati dai media o recuperare il filmato su Rai Play. In poche righe si può solo proporre un campionario parziale di termini e tentare di definire la statura universale di Bergoglio: saggezza, solidarietà, lungimiranza, cultura, bontà, pacifismo, serenità, ottimismo, simpatia, empatia, tolleranza, accoglienza, sensibilità, umiltà, amore, altruismo, rispetto, comunicatività, elegante umorismo, fascino...
Buona, confortante, la notizia del Covid che sembra perdere virulenza e mutare in forme ‘più umane’ e che potrebbe presto ridimensionarsi a patologia stagionale, simile all’influenza. L’ottimismo ha una sua ragione perché nasce nel cuore dell’inverno, stagione potenzialmente soggetta a pericolose impennate di diffusione del virus. Di qui le previsioni della scienza di un auspicato recupero della normalità per la prossima primavera. E che dire^ Se son rose, fioriranno.
La classe non è acqua, tanto meno lo charme dell’avvocato Agnelli che ne ha lasciato a iosa in eredità. La prova ieri sera, sul tardi: in vista di osservare spazio e commenti Rai del Tg2 Sport dedicati al 2 a 0 del Napoli in trasferta a Venezia, abbiamo atteso, con infinita e non rassegnata pazienza, il the end di conduttori e ospiti soggiogati dal fascino indiscreto della Juventus, che ha monopolizzato la rubrica sportiva della televisione pubblica per una buona mezz’ora. I poveri protagonisti del meticoloso, dettagliato, pignolo racconto del 2 a 0 della vittoria juventina sul modesto Verona, hanno vissuto, con evidente disagio, l’onere di aggrapparsi a ogni minimo spunto per giustificare il tg sport a tinte uniche, in bianconero. Nel tentativo di ingannare i tempi di attesa abbiamo intuito che, nel rispetto del bon ton ereditato dall’Avvocato, i successori si sono imposti di non pubblicizzare l’estensione dell’impero mediatico della Fiat (giornali, Tv, radio) al segmento di informazione sportiva della Rai. La scoperta ha sollecitato un ovvio raffronto con le testate del gruppo Gedi. Nessuna sorpresa: per dire della ‘strabiliante’ vittoria della Juventus sui poveri veneti, il quotidiano confindustriale, comprato dagli Agnelli, ha usato il massimo carattere tipografico e il titolone domina il paginone di ‘Repubblica
(Febbraio 2022)
SPIGOLATURE
di Luciano Scateni
L’invito. Rai 3 “Generazione Bellezza”
Sarebbe interessante affidare al responso dei sondaggi il quesito: “Quanti followers del conduttore televisivo che il gossip classifica come il più sexy e che gli utenti Rai assolvono a pieni voti per la lettura condivisa-contestata di ‘Stanotte a Napoli’, hanno pari empatia per
Emilio Casalini, autore e conduttore di “Generazione Bellezza”, che precede “Un posto al sole” e racconta di qui al 9 gennaio un’Italia ‘altra’, ovvero storie di coraggio e creatività di persone e luoghi da Nord a Sud, non di Venezia, Roma, Napoli, Firenze, ma di piccole isole del miracolo italiano, ignorate dai sontuosi programmi che Alberto Angela e Corrado Augias propongono, anticipati e seguiti dal tam tam di ripetuti spot promozionali. Casalini e il suo percorso professionale, ricco, intenso, ben oltre i curricula di giornalisti più famosi e meno impegnati a raccontare realtà drammatiche o, nel caso di ‘Generazione bellezza’, realtà stupefacenti ma ignorate, ritenute poco idonee ai grandi ascolti televisivi. Dunque Casalini: premi giornalistici (‘Ilaria Alpi’, e il ‘Baldoni’ sulla condizione dei ragazzi iraniani), laurea in Relazioni internazionali, fotoreporter di settimanali, autore di documentari sull’Europa orientale, dell’inchiesta “Invisibili siete voi” sul lavoro minorile, collaboratore di Rai News (campi profughi in Albania), autore del programma “Dagli Appennini alle Ande” (sfruttamento petrolifero della Guinea), inviato di ‘Report’ (sull’ambiente), di Rai Educational, autore di Crash (caporalato in Puglia), inviato in Iran, sua l’indagine sui rifiuti tossici italiani provenienti dalla Cina, collaboratore del Corriere della Sera.
“Generazione Bellezza” esemplifica come poco altro delle reti pubbliche e commerciali un possibile modello alternativo alla ‘paccottiglia’ imposta da interessi commerciali (pubblicità) che infliggono ai telespettatori un ignobile mix di banalità, volgarità, superficialità, di valori opposti all’etica, dosi massicce di pettegolume, con poche eccezioni di televisione ‘no trash’, per merito di isole d’alto profilo come appunto “Generazione bellezza”, alla sua seconda stagione. In 15 puntate, Casalini propone progetti, storie di persone e comunità, che disegnano il loro destino con intelligenza creativa, intraprendenza e valorizzano l’identità dei territori, generano bellezza, economia sostenibile, condivisa. Il viaggio sosta dentro luoghi e visioni dell’Italia orgogliosa di se stessa, che non si lamenta e crea spazi dove vivere bene ed essere felici. Mostra paesaggi, tradizioni, agricoltura, archeologia, artigianato, architettura, enogastronomia, arte, cultura, natura, connessioni tra le persone, i saperi e i patrimoni disponibili di persone comuni, replicabili ovunque, che lavorano per realizzare sé stesse e la terra in cui vivono.
Le puntate di questa seconda serie hanno narrato “Il sogno di una comunità”, quella di Sciacca, in Sicilia, che vince la crisi con la decisione di diventare coesa, competente e consapevole del valore di ciò che la circonda, che crea un turismo di comunità sostenibile, duraturo nel tempo. “Il teatro di Andromeda” è la visione di un pastore che dà voce alla sua anima di artista e con le sue mani costruisce un teatro di pietra in cima ad una montagna nel centro della Sicilia, strumento perfetto per godere la sontuosità del paesaggio circostante. “Le panchine della felicità”, idea geniale di Chris Bangle, famoso designer di auto che ha scelto l’Italia e inventa le ‘panchine giganti’, collocate opportunamente per godere i suggestivi panorami delle Langhe e attrarre migliaia di turisti. “Va’ zapp, vai a zappare” dice di Giuseppe Savino, contadino foggiano dal coraggio visionario, che introduce la bellezza nella campagna, con la consulenza di architetti della sua terra che la ridisegnano per un’agricoltura delle relazioni, un profitto giusto e la sconfitta del caporalato, dello sfruttamento del lavoro. Da non perdere “Il sindaco”, racconto del coraggio di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, che ha protetto la sua terra dall’abusivismo edilizio e oggi ha lasciato il suo comune come un modello di sviluppo sostenibile, dove anche un bambino di 6 anni, da grande vuole fare il sindaco. Insomma visioni di territori in recuperata armonia. Parlarne, come fa questa nota, è lontano anni luce dalla qualità, dall’unicità, dall’impegno civile di ‘Generazione Bellezza’ che la Rai farebbe bene a promuovere come esempio di buona, buonissima televisione e a pubblicizzare quanto, se non di più, di programmi simili, ma non di pari “Bellezza”.
(Gennaio 2022)
Spigolature
di Luciano Scateni
“Soy Giorgia, soy mujer…alalà”
La Treccani, Corte Suprema che tutela la ricchezza della lingua italiana, a proposito di ‘Repulisti’ sentenzia che, in senso figurato, vuol dire “allontanamento di persone corrotte o sgradite. È quanto il Paese chiede per essere liberato dai rigurgiti di nazifascismo”. Piazza pulita non è solo il format che ha chiamato in causa i vertici di Lega e Fratelli d’Italia, collusi con il marcio dei nazifascisti che gravitano nella loro orbita. È anche il titolo della consapevolezza, finalmente acquisita, della minaccia alla democrazia italiana che si ritrova alle prese con possibili riedizioni del maledetto Ventennio, testimoniate da innumerevoli episodi di violenza e di aperta apologia. Certo, l’urgenza è spazzare via il pericolo con lo scioglimento e la successiva, permanente attenzione, perché non si ricostituisca con altre sigle e identica ideologia. Un auspicio: che già da domenica prossima con i ballottaggi, l’Italia nata dalla Resistenza dimostri di riconoscersi indissolubilmente democratica ed elegga i sindaci del centrosinistra. In particolare sarebbe significativa la bocciatura del candidato della destra per Trieste, il sindaco uscente Di Piazza, sorpreso a dire ‘presente’ a un congresso di Forza Nuova. E poi, fossi Lamorgese, il capo della polizia, il generale comandante l’Arma dei Carabinieri, il premier Draghi, un alto magistrato, un inviato di Fan Page, testata che ha smascherato le complicità della destra con i neofascisti, mi porrei l’obiettivo (e mi dannerei per risolverlo) di accertare senza margini di dubbio un responsabile No Vax che ha infettato una vittima del Covid, per processarlo e condannarlo esemplarmente. Pensate che sia esaustiva la decisione di sospendere tale Nunzia Schilirò, vicequestore Schilirò, protagonista di un comizio contro il green pass? Errore, è da licenziamento in tronco.
Il rifiuto di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia di rispondere con la loro presenza alla mobilitazione democratica contro l’attentato fascista alla Costituzione, l’assalto alla sede della Cgil devastata, la violenza che ha sconvolto Roma, conferma il filo doppio della destra italiana con il neofascismo che si fa strada in aree non marginali del mondo.
La borgatara Meloni, durante un comizio fascista di Vox a Madrid ha esportato, urlando come un’assatanata, il gingle da fuori di testa “Soy Giorgia, soy mujer, soy madre, soy italiana, soy cristiana e nessuno me lo può togliere”. Mentre veniva assaltata la sede della Cgil, e la Capitale era scossa dalle violenze di gruppi neofascisti, dallo stesso palco ha parlato sì di violenza, ma aggiungendo “non so di che matrice”. Ora che l’Italia si mobilita per delegittimare l’eversione fascista, cominciando da Forza Nuova, la ‘soy Giorgia’ accusa il Pd di volerla cancellare dallo scenario politico italiano e mente, lo scioglimento si riferisce solo a Forza Nuova.
La richiesta impegna il Governo “a dare seguito al dettato costituzionale in materia di divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista e alla conseguente normativa vigente adottando i provvedimenti di sua competenza per procedere allo scioglimento di Forza Nuova e di tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista artefici di condotte punibili ai sensi delle leggi attuative della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione repubblicana”.
(Ottobre 2021)
SEGNALIBRO
a cura di Marisa Pumpo Pica
Storie che si biforcano – Wojtek Edizioni
di Dario De Marco
Siamo ben lieti di occuparci, dopo molti anni, di Dario De Marco, che è stato un giovane collaboratore di questo nostro giornale e del quale, tra l’altro, su queste stesse colonne, nel 2011, abbiamo recensito il primo romanzo Non siamo mai abbastanza (Edizione 66THAND2ND).
Da allora ne ha fatta di strada, il nostro giovane Dario! Ha collaborato e collabora a diverse testate, continuando, nel contempo, a coltivare e ad amare la scrittura.
Non vive più a Napoli, ma a Torino, dove ha nesso su famiglia e si è confermato, come nelle premesse di quei lontani anni di collaborazione con noi, un giornalista di ottimo livello, serio, riservato e poco propenso a parlare molto di sé, come dimostrano le stringate note biografiche che accompagnano questo suo ultimo libro, che segue i precedenti, quello da noi indicato innanzi e l’altro, da lui definito la non fiction Mia figlia spiegata a mia figlia (Edizione LiberAria).
Storie che si biforcano è un libro che incuriosisce ed intriga anche per il particolarissimo modo di presentare al lettore i racconti: 21 coppie di racconti paralleli, in un gioco di incastri e di specchi. Una struttura singolare, finora mai tentata, a quel che ci risulta, molto simile ad un labirinto, nel quale, tuttavia, il lettore attento riesce facilmente a districarsi, grazie alle suggestive chiarificazioni dell’autore, che avverte: nei primi racconti cambia solo il finale, negli ultimi quasi tutto.
Non ci perderemo nei dettagli in quanto, se una sana curiositas spinge sempre alla lettura e al sapere, qui, in questo libro, più che in altri, la curiositas la fa da padrona, fin dai primi racconti. E non sarà determinata soltanto dalla genialità ed originalità dell’intricata struttura, ma anche da un contesto appassionato, fantastico e molto diversificato, con risvolti e finali che sorprenderanno il lettore.
Come si legge in una fra le tante recensioni, con cui il libro è stato accolto, fra ampi consensi di pubblico e di critica, dobbiamo riconoscere con Marco Ciriello (Herzog ilmattino.it) che Dario De Marco gioca, si diverte, diverte e stupisce con questa sua scatola di costruzioni, che rappresenta un piccolo miracolo dell’editoria artigianale, un granello di sabbia che blocca per un attimo la grande ruota dell’inutile.
La geometria ci insegna che le rette parallele sono quelle destinate a non incontrarsi mai, ma qui, in questo piccolo libro, semplice e complesso al tempo stesso, semplice nella linearità del linguaggio e della prosa, ma complesso nella profondità dell’ingranaggio della sua struttura, apprendiamo che può anche accadere il contrario, ovvero che racconti paralleli possano dar luogo a strade che si biforcano, apprendiamo che racconti paralleli possano convergere e divergere, al tempo stesso. Qui, in questo piccolo libro e attraverso questa sua innovativa forbice strutturale, può anche verificarsi quello di cui si è spesso discusso dietro le pagine di un libro: quanto siano distanti o ravvicinate vita e letteratura, l’una, reale e concreta, l’altra, mondo del fantastico e del possibile. E, al tempo stesso, può anche riscontrarsi come il mondo reale sia anche mondo del possibile, quanto quello della letteratura e della vita narrata.
Che in questa struttura labirintica ci sia genialità, non è nemmeno il caso di sottolinearlo, ma quello che non ci appare scontato e sarebbe interessante scoprire è quanta intenzionalità vi abbia posto l’autore o quanto, invece, ciò sia accaduto come per caso, sponte sua. Per esperienza diretta possiamo solo dire che, quando cominciamo a scrivere, spesso ignoriamo, agli inizi della nostra narrazione, percorso e meta, talchè il raccontare sembra farsi da sé. Le storie, i protagonisti, i fatti narrati prendono il sopravvento e portano per mano l’autore che, quasi inconsapevole, cede agli inganni e alle lusinghe del narrare. Qualcosa del genere può essere accaduto anche a Dario De Marco con i suoi racconti con finale a scelta multipla, come qualcuno ha sottolineato in un’altra interessante recensione (Alessio Forgione, Corriere del Mezzogiorno).
Dario De Marco sceglie per i suoi racconti finali paralleli, ribaltati, in assoluta libertà, senza vincoli di spazio e di tempo. È quella assoluta libertà che rivendica sempre ogni autore, nella costruzione fantastica della narrazione. E qui, in questo caso, in queste Storie che si biforcano, il finale, aperto, parallelo, ribaltato o a scelta multipla, assume un significato rilevante. È la più netta espressione, non solo di questa assoluta libertà dell’autore, ma anche di quel legame autore-lettore, che rende davvero particolare e stimolante la lettura. Un finale aperto, che può essere quello indicato dall’autore, ma anche un altro, possibile o immaginabile da parte di chi legge.
La magìa della lettura sta nel fatto che ogni lettore, piuttosto che trovarsi dinanzi a storie del tutto definite e delimitate, si aspetta comunque uno spazio di libertà. Si aspetta, insomma di trovarsi sempre dinanzi ad una pagina ancora da riempire.
Dietro questo piccolo libro c’è, dunque, una struttura singolare che vuol far parlare di sé, della sua complessità e c’è un autore che si fa anche spettatore, autore di storie definite e concluse e spettatore di storie da definire e concludere, grazie alla lettura, un autore, in poche parole, che si fa spettatore di quelle possibilità cui la pagina rimanda e che il lettore potrebbe voler cogliere e far sue.
(Luglio 2021)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Dietro il velo delle parole…
Senso e abbandono
“Le parole sono pietre. Sono proiettili”, ebbea dire una volta il grande scrittore siciliano, Andrea Camilleri. Con questa espressione, così netta e precisa, voleva ricordarci di usarle con cura e, soprattutto, con ragionevolezza
Non diversamente, e con altrettanta saggezza, le nostre mamme, quando dovevamo affrontare situazioni importanti, solevano ripeterci: “Parla poco, mi raccomando, e conta fino a dieci prima di aprire bocca.” E se noi, con un misto di apprensione, timore e sorpresa, chiedevamo perche mai avremmo dovuto misurare così tanto le parole, la risposta era sempre la stessa, puntuale e lapidaria: “Pare brutto…”
E siamo cresciuti così, frenando, in molte circostanze, moti immediati di insofferenza, di rabbia o di aggressività, scambiati, spesso, dagli altri, come paura, timidezza o riservatezza. Lo ricordavamo ad alcuni amici, qualche giorno fa, ed insieme abbiamo finito col concludere che ogni generazione ha la sua cifra, che ne rappresenta il segno distintivo e la rende singolare, rispetto ad altre. La cifra della nostra generazione è stata quella del pare brutto, che ha pesato non poco sulla formazione ed evoluzione umana e culturale di ognuno di noi. Tacere ed obbedire. Non era mai il nostro momento per parlare.
Questa premessa, che evoca tempi lontani, ma sottolinea anche valori e significati fondamentali, anticipa il nostro assunto: le parole hanno un senso, velato o nascosto, ma anche esplicito e fin troppo evidente. Tutto sta nel capire contesti sociali, incastri linguistici, accostamenti fra le parti del discorso, come sostantivi, aggettivi, verbi, preposizioni. Su queste ultime, in particolare, vogliamo soffermarci perché, nell’articolato e variegato collocarsi delle parole fra loro, esse assumono un ruolo importante e finiscono col caratterizzare sentimenti, situazioni e stagioni della vita. Nel bene e nel male.
Non si riflette forse mai abbastanza, non tanto sul significato delle espressioni che usiamo, quanto piuttosto sulle variabili in esse contenute, nella varietà degli accostamenti.
Le parole sono proiettili, comediceva Camilleri. È vero. Talvolta, e in talune situazioni, sono esplosive, ma noi vorremmo aggiungere che sono anche fluttuanti, come agili ballerine, che danzano in vario modo a seconda degli accompagnatori. E, come il corpo di una danzatrice muta e si adatta alle varie posizioni, assumendo direzioni diverse, così muta il senso di un discorso e le parole si piegano a diversi significati e prospettive.
Vi siete mai chiesto quanto siano importanti, in una lingua, le preposizioni, semplici o articolate? Poste accanto a dei sostantivi, conferiscono ad essi un particolare significato, a seconda della loro collocazione.
A mo’ di esempio, facciamo riferimento a due parole: abbandono e senso. Accostandole a preposizioni articolate diverse, avremo tre espressioni con un significato che sta a rappresentare situazioni molto differenti fra loro:
l’abbandono ai sensi;
l’abbandono dei sensi;
il senso dell’abbandono.
Come il lettore potrà notare, le stesse parole, senso e abbandono, danno luogo a situazioni, esperienze, sensazioni e sentimenti diversi, spesso agli antipodi fra loro e, in linea di massima, riconducibili, come innanzi si sosteneva, a stagioni diverse della vita.
L’abbandono ai sensi. La frase dà subito l’idea dell’adolescenza e della giovinezza, di quella età spumeggiante della vita, in cui tutto sembra possibile e l’essere umano, come puledro a briglia sciolta, corre ansante, ma deciso, verso il proprio futuro. Si appropria della vita, sua, e talvolta anche di quella altrui. Va alla conquista del mondo, che impara a conoscere, inizialmente, solo grazie alle sue prime sensazioni. Tutto sembra concesso. Ai sensi, più che alla ragione.
Agli albori dell’esistenza siamo “bestioni tutto senso”, prima di abbandonarci alla fantasia e di essere, poi, in grado di “riflettere con mente pura” (Vico docet!). Questo, in linea di massima, come si diceva, in quanto non è detto che l’uomo non possa rimanere un eterno fanciullo e concedersi, da adulto e in età senile, (anche in quella!) l’abbandono ai sensi.
Ma gli appartiene sicuramente, in questa età, l’abbandono dei sensi e, ancor di più, il senso dell’abbandono.
Lo sperimenta pian piano, questo abbandono dei sensi, il venir meno della vista, dell’udito, della memoria, di quel bagaglio, insomma, di forza e di baldanza che lo rendeva orgoglioso di procedere trionfante lungo i sentieri del mondo.
Di qui è facile che possa sentirsi imprigionato nella tristezza e nel rimpianto per il tempo che sfuma e per la vita, che sembra sfuggirgli di mano.
È il senso dell’abbandono, un’esperienza dolorosa che, negli ultimi anni, a seguito dell’imperversare della pandemia da Covid 19, con il suo corollario di paura, ansia e depressione, rappresenta sempre più frequentemente lo stato d’animo dell’anziano.
Anche qui, però, non si può generalizzare perché spesso incontriamo, nei parchi cittadini o nelle palestre e nelle piscine più attrezzate, persone in età avanzata che praticano gioiosamente e gagliardamente ogni sport, tanto da fare invidia a giovani immusoniti ed impigriti, dinanzi allo smartphone. È da aggiungere, al riguardo, che le varie forme di alterazione del tono dell’umore, fra cui ansia e depressione, non conoscono differenza di età, sesso o stato sociale. Si segnalano oggi con sempre maggiore intensità, più frequentemente come il “male oscuro” della società del benessere e del consumismo. Abbiamo tutto eppure tutto sembra mancarci.
Colpisce il fatto che questo senso dell’abbandono sia presente spesso in ogni fascia di età. C’è, addirittura, chi il senso della solitudine se lo porta dentro, vivo nel cuore, fin dall’adolescenza. Lo avverte come una condizione dell’animo, sensazione, predisposizione o atteggiamento, che può accompagnare a lungo un essere umano, a prescindere dagli agi, dalla vita che conduce e da quanti gli vivono intorno e che possono essere anche tanti, senza che per questo riescano a riempire il vuoto e ad impedire che il loro caro avverta il senso dell’abbandono.
Quanta strada possono farci fare, col pensiero, quelle che sembrano le parti del discorso più trascurabili e insignificanti: le preposizioni, semplici ed articolate!
È la magìa delle piccole cose.
(Maggio 2021)