Miti napoletani di oggi.90
IL “RAGU’”
di Sergio Zazzera
Quello che piaceva a Eduardo «’o ffaceva sulo mammà»; a casa mia, una vecchia zia di mio padre, che viveva con noi. Sia chiaro: quello napoletano non è quello bolognese, fatto con la carne macinata e il trito di cipolla, carota e sedano, né quello francese, il ragoût (“stracotto”, in italiano), dal quale discende la nostra storpiatura onomastica. A Napoli il ragù si fa col braciolone (grosso involtino) di maiale, rigorosamente legato con lo spago, ovvero, per i meno abbienti, con le tracchiulélle, spuntature delle costole del suino, più ossa, che carne, e con la conserva di pomodoro; il tutto fatto cuocere a fuoco lentissimo (pippià’), per almeno quattro ore, in un tegame di coccio, e adoperato per condire le “candele spezzate”.
Il mito relativo è il frutto della concomitanza di più dati: a) in quale casa napoletana si fa più la conserva? b) chi ha più la pazienza di rimestare il tutto per quattro ore, per evitare che si attacchi al fondo del tegame? c) chi usa più il tegame di coccio? d) Si vendono più le “candele”? e c’è più chi abbia voglia di spezzarle?
Dunque, continuare a chiamare ragù quel sugo che può ricordare soltanto alla lontana il vero ragù napoletano è falso linguaggio, cioè mito. E quella roba che esce dalla pentola – di alluminio o di acciaio inox, che sia – e condisce le penne rigate o i tortiglioni corrisponde in maniera esatta all’eduardiana «carne cu ‘a pummarola».
(Novembre 2021)