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Pensieri ad alta voce

 

di Marisa Pumpo Pica

 

La triste vicenda di Giulia Cecchettin

 

Chi ha avuto modo di seguirci saprà certamente che qui trovano posto quei pensieri che nascono dal desiderio di comunicare con i lettori e con loro condividere sentimenti, immagini, emozioni che, a ruota libera, si agitano nella mente e nel cuore.

Accade anche in questa circostanza, dinanzi alla recente storia drammatica di Giulia Cecchettin, barbaramente assassinata dall’ex fidanzato, Filippo Turetta.

Giorno dopo giorno, il turbamento emotivo, nato dalle prime notizie, fino all’epilogo agghiacciante, si traduceva in questi nostri “Pensieri ad alta voce”, vergati di getto, così come mente e cuore li concepivano, destinati a voi, cari lettori, per un pacato e libero confronto su fatti, ipotesi, commenti. Abbiamo preso tempo, però, prima di pubblicarli. Lo facciamo oggi, dopo tentennamenti e rèmore di varia natura.

Questa drammatica vicenda ci consegna diversi spunti di riflessione, non solo sul caso in sé, molto triste ed amaro, ma anche, e soprattutto, su come si vada trasformando sempre più questa nostra società, nei fatti che accadono e nei commenti che ne seguono.

Sorvoliamo sui dettagli della vicenda, che ha commosso tutti noi, che in Giulia abbiamo visto la figlia, la sorella, la nipote e le tante altre donne, vittime di femminicidio (in Italia, in questo 2023, 110, fino ad oggi). Vogliamo soffermarci, invece, su alcuni elementi che ci hanno colpito, nel tentativo di riportare questo tragico evento entro i confini che gli sono propri, giuridici, culturali e sociali. Il caso, lo abbiamo detto, ha commosso ed appassionato l’Italia, con un ampio contributo della stampa, della radio, delle emittenti televisive e degli immancabili social, che hanno incrementato dibattiti ed accese discussioni. Si è scritto e detto di tutto e di più. Forse anche troppo. Oltre misura, dinanzi al dolore di due famiglie, che hanno visto la vita sconvolta da questa tragedia. È appena il caso di sottolineare come, anche in questa occasione, siano emersi i limiti, la pericolosità e l’invadenza debordante dei social. Si è giunti ad aprire una pagina su facebook per Filippo Turetta, con pochi follower (e meno male!) e molte corbellerie come la dedica della canzone Biko, scritta da Peter Gabriel per il sudafricano, attivista antipartheid (Steve Biko, appunto), morto a causa delle torture subìte in carcere. A nessuno sfugge, senza dubbio, come ingiustificato ed incomprensibile possa essere il raffronto tra Biko e Turetta. Sempre sui social, poi, non sono mancati attacchi alla sorella della povera Giulia, la giovane Elena, accusata di sovraesposizione mediatica e, da taluni, addirittura di strumentalizzazione del suo dolore per preparare le basi di una prossima candidatura alle elezioni europee. Assurdità inaccettabili, insomma. Tali anche le parole fuori luogo di un consigliere regionale veneto, Stefano Valdegamberi, il quale, facendo riferimento alla felpa da lei indossata, parlava di simboli satanici e qualificava come frasi sovversive quelle dalla stessa  pronunziate, durante la trasmissione televisiva “Diritto Rovescio”

Ora, dopo tutto questo, sarà forse chiaro il motivo del nostro iniziale silenzio. Più che i ragguagli di una cronaca, ormai ben nota a tutti, ci sono apparsi necessari questi brevi cenni ad alcune cose fatte e dette a sproposito. Poche, per fortuna, rispetto alle tante altre belle espressioni e manifestazioni di un cordoglio, commosso e sincero, nei confronti del padre, della sorella e del fratello della povera ragazza (la madre, purtroppo, è morta nell’ottobre dello scorso anno).

Ciò detto, ritorniamo al nostro assunto iniziale: tentare di riportare il caso nell’ambito che gli compete. Il primo, naturalmente, è quello giuridico. Filippo Turetta è accusato di omicidio volontario, cui quasi certamente verranno associate le aggravanti del legame sentimentale, dato il rapporto affettivo con l’ex fidanzata; della crudeltà, per “l’inaudita ferocia” con cui si è accanito contro la vittima. Non è ancora possibile dire se verranno riconosciuti il reato di sequestro di persona e quello dell’occultamento di cadavere. Il corpo della giovane donna, come è ben noto, è stato ritrovato in fondo ad un dirupo, a circa 50 metri di profondità, rispetto al ciglio della strada, quindi difficilmente visibile, ricoperto da sacchi neri e fogliame, in una sorta di giaciglio naturale, presso il lago Barcis, in provincia di Pordenone. Sarebbe da accertare, ed è invocato e testimoniato dai familiari della vittima, anche il reato di stalking, che egli avrebbe messo in atto nei confronti della ragazza, attraverso telefonate e messaggi pressanti ed ossessivi, un vero e proprio assedio psicologico, esercitato prima e dopo la rottura del fidanzamento. In ultimo, ma non ultimo, resterebbe da considerare l’aggravante della premeditazione, come svariati elementi, significativi nelle indagini, lasciano prevedere.

L’atroce morte di Giulia Cecchettin, lo dicevamo in apertura, ci spinge a riflettere, oltre che sul caso umano, anche sugli aspetti sociali, culturali, educativi che, in questo, come in altri reati di violenza contro la donna, richiedono una reale presa di coscienza da parte di tutti noi affinché il dolore, la commozione, lo sdegno del momento non siano sempre e soltanto l’unica reazione, sporadica ed emotiva, dinanzi ad un femminicidio. Di proposito sorvoliamo sui risvolti politici, che richiederebbero più ampio spazio. per limitarci ad affrontare quanto è accaduto su quei piani a cui innanzi si accennava.

IL VIRTUALE E L'APPARIRE

Forse oggi molti di noi vivono in un mondo che non è quello reale, bensì quello virtuale e dell’apparire, fondato su un consumismo esasperato, dove predominano l’avere più che l’essere, il possedere, più che il dare, insieme ad un ego altrettanto esasperato e smisurato. Un mondo labile in cui il “dentro” e il “fuori” non sempre combaciano. Gli altri spesso ci conoscono solo nel nostro “apparire”, non per come siamo dentro, ma per come ci vedono, per come vogliamo che ci vedano. Di qui il primo dato, eclatante, in questo caso: la sorpresa, che si unisce allo sgomento dinanzi a questo delitto efferato, per cui tutti, insieme ad amici, conoscenti, familiari di lei e di lui si chiedono il perché. Non poteva immaginarlo nessuno e non se lo aspettava nemmeno la stessa povera Giulia che, nei vocali trasmessi dal programma “Chi l’ha visto?”, confidandosi con le amiche, si chiedeva cosa fare e, nella grande generosità del suo cuore, temeva per lui. “Vorrei sparire dalla sua vita”, diceva, e, in un altro, “Vorrei che sparisse. ma ho paura che possa farsi del male.” E… invece Filippo Turetta agiva molto diversamente… Ecco “l’apparire”. Siamo diversi da come gli altri ci conoscono, da quel che pensano di noi. Nessuno avrebbe potuto immaginare che un ventiduenne, un giovane universitario, un “bravo ragazzo, un ragazzo esemplare, che non aveva dato mai problemi, (eppure ne aveva! n.d.r) un ragazzo quasi perfetto”, stando alle parole del padre, si rivelasse nella sua vera identità, attraverso questo crimine spaventoso. Se vogliamo capire a fondo il perché di questo gesto insano, al di là di estreme generalizzazioni o frettolose semplificazioni, dobbiamo riconoscere che il tema dell’evento specifico, oggetto di discussione, si espande dall’individuo alla società, ampliandosi ed articolandosi in varie problematiche che investono la famiglia e, all’interno della stessa, il rapporto genitori - figli, la scuola, la formazione, i modelli culturali e sociali, la comunicazione. Sono tematiche che coinvolgono tutti noi, nella riflessione e nel dolore, oltre ai familiari, di lei e di lui, per chiederci tutti insieme come questa tragedia possa essere accaduta, in che cosa si sia sbagliato, che cosa si sarebbe potuto fare e che cosa ancora si può fare per evitarne di simili. Risposte adeguate a tali angosciosi ed inquietanti interrogativi, a nostro avviso, possono arrivare solo da una riformulazione dei modelli culturali, educativi e sociali.

IL MOVENTE

Nella ricerca del movente, dunque, il nostro bisogno di verità. Nello sforzo di capire fino in fondo questo delitto, riflettori puntati su famiglia, scuola, società.

Il problema, infatti, come abbiamo detto, si amplia nella ricerca delle cause e dello sfondo culturale e sociale che ritroviamo spesso in delitti del genere. Ma non è detto assolutamente che lo sfondo socio-culturale debba essere sempre e soltanto di degrado o sottocultura, può essere anche di apparente normalità. E lo è stato, infatti, anche per tanti altri femminicidi. Su tutto questo, acceso è stato il dibattito. Tante le voci, tante le ipotesi, le ricostruzioni. Noi ne proponiamo una, tentando di fornire un quadro d’insieme, attraverso l’analisi del profilo dei due giovani, della compatibilità di tali profili e del tipo di relazione da loro vissuta. E mentre scrivevamo, ponendoci mille interrogativi, andando avanti, sulla falsariga dei nostri pensieri, i fatti, che via via venivano resi noti, sembravano darci ragione. La nostra ricostruzione è risultata confermata da quanto è successivamente emerso.

Abbiamo cominciato a riflettere, per prima cosa, sul profilo dei due giovani. Lei, che è entrata nel cuore di tutti noi, era una ragazza sempre sorridente, solare, estroversa. “Eterna bambina”, la definisce la sorella, aggiungendo e precisando che la caratterizzava “un senso gioioso della vita, un amore grande per la vita. Eterna bambina, per questo, ma non infantile, anzi sempre decisa e determinata.” Lui, già in parte da noi innanzi descritto attraverso le parole del padre, è un ragazzo che sembra vivere nella normalità di un’esistenza tranquilla. Un po’ introverso, divide il suo tempo tra lo studio e l’amore per lo sport, per la montagna e per la “sua” ragazza, verso la quale si mostra geloso e possessivo, come raccontano gli amici comuni, fornendo dati significativi: “sempre mano nella mano con Giulia e braccio sulla spalla di lei”, a sottolineare il possesso, il concetto padronale dell’amore, aggiungiamo noi. Un profilo piuttosto contorto o, quanto meno, problematico, quello di Filippo Turetta nel quale, stando a queste testimonianze e ai fatti accaduti, sembrerebbero affiorare tratti di un narcisismo non superato. nella ricerca esasperata di valorizzazione del proprio ego, con tendenziali note manipolatrici. È da chiarire che egocentrismo e narcisismo sono tratti naturali nella fase dell’infanzia, che vengono, poi, superati nelle fasi successive del processo evolutivo, quando consapevolezza, responsabilità e maturità di pensiero devono fornirci le armi necessarie ad affrontare le sfide a cui la vita ci sottopone. D’altra parte, se non ponessimo attenzione al profilo del ragazzo, non si spiegherebbe il tentativo incessante di riallacciare una relazione, da lei chiusa, ma da lui mai accettata. Né sarebbe comprensibile, se non in un tale soggetto, l’ulteriore, assurdo tentativo di distoglierla dal conseguimento della laurea, ormai imminente.

Un giovane, con questo profilo, fragile, problematico, non può e non sa accettare rifiuti, ostacoli e, meno che mai, la rinunzia alla parossistica volontà di possesso, di controllo estenuante dell’altro, che porta alla manipolazione.

“Un manipolatore di affetti, fatti e persone”, lo ha definito, infatti, la criminologa, Roberta Bruzzone.

Molto si è parlato, poi, di gelosia e frustrazione. E conveniamo che questi siano stati elementi fondamentali nella dinamica del delitto. Ci sembra, però, semplicistica e riduttiva l’interpretazione che vede Filippo agire sotto la spinta di una frustrazione, dovuta al fatto che la fidanzata giungesse alla laurea prima di lui. La frustrazione c’è, sicuramente, ma è di altra natura e agiva già dentro di lui dal momento della rottura della loro relazione. Si lega al temperamento del giovane, al tipo di amore che egli nutre per Giulia, fondato, appunto, sulla gelosia e sul sentimento nevrotico del possesso. E non si può escludere che alla frustrazione, derivante da questi sentimenti, non si sia aggiunta anche una reale sofferenza: il senso di vuoto totale per la perdita definitiva dell’ex fidanzata. Giulia, infatti, amava disegnare, voleva diventare illustratrice di libri di fumetti per bambini e aveva un progetto ben determinato: frequentare una scuola di fumettistica a Reggio Emilia. Dinanzi ai progetti della ragazza, Filippo più che depresso, come qualcuno ha detto, si sente represso, in quanto privato di quel controllo, finora esercitato su di lei. La sua ragazza andrà lontano da Padova. Andrà altrove e in quell’altrove non ci sarà più posto per lui. Una fuga, un tradimento, agli occhi di Filippo e lui, questo, non poteva assolutamente permetterlo. Per quel sentimento di gelosia ossessiva, parossistica, morbosa che lo divorava, non poteva accettare che lei uscisse alla luce, in piena autonomia, da quel circuito chiuso, buio, in cui, col suo pressing psicologico, aveva pensato di poterla tenere bloccata.

Dall’analisi del profilo dei due giovani alle riflessioni sulla loro relazione e sul tipo di amore che viene vissuto, all’interno di questa relazione, soprattutto, da Filippo, il passo è breve.

LA RELAZIONE. IL CIRCUITO CHIUSO

Proviamo ad entrare nel vivo di questa relazione Una relazione d’amore come un’altra, quella di Giulia e Filippo, ma forse solo apparentemente e magari agli inizi, quando, come tutti i giovani, vanno incontro alla primavera del loro amore con gioia ed entusiasmo. Essi, però, probabilmente la vivono, lo abbiamo appena accennato, come in un circuito chiuso: frequentano lo stesso corso di laurea, Ingegneria biomedica, nella stessa Università, quella di Padova, studiano spesso insieme, anche a casa. Inizialmente, l’amore riempie la vita dei due ragazzi, che si chiudono nel loro mondo, dal quale gli altri sono esclusi o quanto meno lontani dal loro orizzonte, figure sullo sfondo. E così deve essere, per Filippo, ma probabilmente non per Giulia.

Infatti, ad un certo punto, il circuito chiuso si interrompe. Spazio e tempo, vissuti fino a quel momento all’unisono, in piena sintonia, in perfetta simbiosi, non sono più gli stessi per entrambi. Lei sta per laurearsi ed è determinata a chiudere, una volta per tutte, questa relazione, già finita ad agosto, e a proseguire i suoi studi a Reggio Emilia. Dopo la rottura del fidanzamento, è un altro anello di una catena che si spezza. Lui ha ancora degli esami da sostenere. Vede nella laurea di Giulia e nel suo successivo allontanamento un addio alla ragazza che, nel suo amore nevrotico e possessivo, è stata al centro della sua vita, punto di riferimento unico, fondamentale. In questo suo amore distorto, il giorno imminente della laurea segnerà la rottura definitiva non solo della loro relazione d’amore ma anche del loro legame affettivo, un legame che, forse, egli sperava potesse anche permanere sotto altra forma, magari di semplice frequentazione o amicizia. Per chi ha vissuto l’amore come totalizzante la rottura non può essere definitiva. Questo non può e non deve accadere. Il tentativo di distoglierla dal presentarsi alla seduta di laurea è, per Filippo, l’ultima chance. E gioca, infatti, l’ultima carta, proponendole di accompagnarla allo shopping pre-laurea nel centro commerciale. È la trappola, il tranello, pianificato con lucida freddezza, come ritengono molti e come taluni indizi portano a sostenere o, in un primo momento, soltanto l’ultimo, disperato tentativo di non perderla e convincerla a non rinunciare a lui? L’ultimo appuntamento, sfuggito al suo controllo e degenerato in un litigio furibondo e in un delitto senza pietà, con le venti e più coltellate inflitte alla povera Giulia? È questo l’interrogativo terribile, il nodo che dovrà essere sciolto. Compito che, ovviamente, toccherà alla magistratura.

È evidente che questa nostra analisi non vuole ancorarsi a cavilli giustificativi perché nulla e nessuno potrà mai giustificare questo insano delitto. È soltanto il tentativo di capire cosa sia realmente accaduto in quella terribile sera del 10 novembre. Abbiamo cercato unicamente di scavare nel buio insondabile dell’io, in quel sottobosco oscuro nel quale si nascondono le nostre pulsioni, per quel poco che può emergere dalle sabbie mobili della coscienza.

AMORE TOTALE E AMORE TOTALIZZANTE

E a questo punto il nostro pensiero va ai giovani, ragazzi e ragazze, perché possano intendere l’enorme distanza che intercorre fra l’amore totale e l’amore totalizzante e sappiano tenersi lontano da quest’ultimo, che non può dare gioia, anzi procura sofferenza a chi lo gestisce come a chi lo subisce. Sul terreno in cui la gelosia ossessiva attecchisce e cresce, come gramigna, non sboccerà mai il fiore dell’amore. L’amore è dono di sé, non desiderio di possesso e meno che mai di annientamento dell’altro. Alle ragazze, soprattutto, vogliamo ricordare di non scambiare la gelosia per amore. “Mi ama veramente, sapessi come è geloso!”, confidano spesso, compiaciute, alle amiche. Nulla di più errato. Tenetevi lontano da questo tipo d’amore. A genitori ed educatori, poi, tocca il compito di insegnare ai giovani che nella relazione di coppia è importante che la donna non sia mai costretta a rinunziare alle sue aspirazioni, ai suoi progetti, alle sue possibilità di realizzazione, in una parola, alla sia libertà.

L’amore totale per la persona amata, infatti, è quello che ci fa desiderare che l’altro possa realizzare sempre tutti i suoi sogni, che non sia prigioniero dei nostri incubi o delle nostre ossessioni, in una parola, che sia libero e felice. Quando, invece, l’amore, da sentimento forte, che dona sicurezza, che offre protezione e certezze, nella condivisione di un progetto di vita, si trasforma in amore totalizzante, che sottrae e non aggiunge, che pretende e non offre nulla in cambio, finisce col rivelarsi come un amore malato. Un amore tossico, velenoso, che tarpa le ali alla persona amata. Dinanzi a questo amore oppressivo, l’altro fugge via, insofferente, e prende le distanze da questo sentimento che non dona felicità.

Nelle belle parole, scritte su un post dal padre di Giulia, terribilmente provato da questa tragedia, è racchiuso il vero significato dell’amore, totale e non totalizzante, l’amore coma valore e non come ossessione e morte.

Citando i versi di Gaia Maritan, egli scrive “L’amore vero non umilia, non delude, non calpesta, non tradisce, non ferisce. L’amore non picchia, non urla, non uccide”.

QUANDO L'AMORE DIVENTA FOLLIA

Questa è una storia che viene da lontano. Nasce, come si è visto, nell’atmosfera irrespirabile, derivante da un amore malato, fatto di gelosia, divieti ed imposizioni. In questo amore tossico, che avvelena entrambi i protagonisti, c’erano già un carnefice ed una vittima, ancora prima di quella sera del 10 novembre al Centro commerciale. Nell’amore paranoico del giovane, infatti, c’era già il desiderio inconscio di una forma di annientamento psicologico dell’altro e, quando l’altro fugge e non vuole più far parte di quel mondo soffocante, chi ama di un amore totalizzante cerca una forma di compensazione in gesti negativi. È un modo di pensare distorto, ovviamente, che tende all’annientamento non più soltanto psicologico, ma totale dell’altro. Ed è qui il preludio di quella tragedia della quale colui che è stato il regista di questa relazione ossessiva ha già segnato le tappe e l’ultimo atto, con l’orribile epilogo. Con o senza pianificazione. Nel desiderio di possesso, se l’altro sfugge a questo amore e ne prende le distanze, non resta che il ricorso alla sopraffazione, alla violenza, alla morte, come nei tanti altri casi di femminicidio. Non resta che l’ambiguità di un atteggiamento che potremmo definire storico, una vera e propria rappresaglia: “Se mi lasci la faccio finita, mi uccido” o il classico aut aut: “O mia o di nessun altro.” L’ambivalenza è tipica di queste due frasi. Nella prima, il ricatto, nella seconda, la minaccia dell’annientamento dell’altro. Tornando a ripensare ai vocali di Giulia, trasmessi da “Chi l’ha visto?” ce ne rendiamo perfettamente conto. In quella ricerca di un consiglio alle amiche, si nasconde la richiesta di un aiuto. La ragazza appare sola e smarrita, forse anche disorientata ed impaurita. “Vorrei sparire” e, nell’altro audio, “Vorrei che sparisse”. È l’eco di quegli occulti aut aut. In Filippo la trama dell’annientamento dell’altro. In Giulia il desiderio di non esserci più per lui, di reagire e liberarsi per sempre da questo amore soffocante che la disorienta e le devasta l’animo, il desiderio di andare incontro ai suoi sogni, ai suoi progetti di vita e respirare vento di libertà.

Un gesto folle, senza dubbio, quello di Filippo. Un amore totalizzante non costruisce. Distrugge se stesso. Ma, sia ben chiaro, definire folle il gesto non vuol dire che sia folle chi lo compie, come di solito invocano gli avvocati con le richieste di perizie psichiatriche, nel tentativo di ridurre la pena ai loro assistiti. Gesti folli, insani, la storia ce lo insegna, sono compiuti, spesso, anche da persone perfettamente sane di mente, quando “il sonno della ragione genera mostri”.

Nell’attesa del processo ci chiediamo, non senza sgomento, se, soprattutto per quanto concerne la premeditazione, si arriverà mai alla verità, quella ancora chiusa nei labirinti dell’io. Ci si può aspettare che Filippo Turetta ci racconti la verità, quella vera, che egli solo conosce, di quella terribile notte o avremo, piuttosto, anche qui, una manipolazione del vero, magari attraverso i suggerimenti della difesa? Pianificazione del delitto o pianificazione difensiva?

Noi ci auguriamo di cuore che Filippo possa trovare la via del riscatto, che sappia meritare, attraverso una confessione piena e un pentimento sincero, quel sentimento di commozione che, come noi in questo momento, può provare ogni altra madre, dinanzi ad un giovane di appena ventidue anni che, nel distruggere la vita dell’ex fidanzata, ha finito col distruggere anche la sua e quella dei suoi cari.

IL DISCORSO EDUCATIVO

Come già detto innanzi, abbiamo evitato di affrontare il discorso sotto il profilo politico per comprensibili motivi di spazio, ma anche per non scivolare verso facili strumentalizzazioni di una vicenda così triste che vede distrutte due famiglie e, sia pure in modo diverso, la vita di due giovani.

Non possiamo rinunciare, però, al discorso educativo, che più da vicino ci riguarda.

Ci limiteremo, tuttavia, all’essenziale e soltanto a qualche breve annotazione, ripromettendoci di sviluppare tali note in altro momento.

Partiamo, in premessa, dalle parole del padre di Filippo, Nicola Turetta, il cui dolore pur commuove e richiede rispetto e considerazione da parte nostra. Quando parla del figlio, al di là della descrizione che, come padre, ne fa e che noi abbiamo innanzi riportato, egli si chiede “Non so in che cosa abbiamo sbagliato (…) un figlio al quale abbiamo dato tutto quello che potevamo dare.” Estrapoliamo questa frase dal suo primo commento sui fatti, perché è qui il punto nodale del discorso educativo, è qui, proprio in queste parole, la chiave di lettura di quanto accaduto. Volendo limitarci all’essenziale e senza alcuna intenzione di infierire contro questi genitori, che tanto stanno soffrendo, o contro i genitori di oggi e di sollevare dubbi sulla qualità del loro rapporto con i figli, della loro capacità di dialogo e di confronto, rimandiamo il lettore a quanto abbiamo innanzi accennato circa quei modelli culturali e sociali dominanti. Quei modelli, che si fondano sul consumismo esasperato, sull’apparire, sulla gratificazione di un ego altrettanto smisurato, sono sicuramente da rivedere e superare. Riconosciamo che, in una società come la nostra, ciò non è facile e aggiungiamo soltanto che educare è compito arduo e ricade sulla famiglia e sulla scuola, che, insieme alla società, intesa come un complesso di relazioni, sono gli organi deputati alla formazione. Ciò, nella più stretta e costruttiva collaborazione. I fatti di cronaca più recenti ci dicono, invece, che questo rapporto, scuola-famiglia, oggi, è spesso terreno di aspra dialettica, quando non diventa addirittura di scontro aperto in cui si assiste anche a violenze inaudite, verbali e non solo, di genitori ed alunni contro i professori. Educhiamo, invece, ogni giorno, i nostri figli al dialogo e al confronto, pacato e sereno, cercando di essere per loro sempre un modello attivo e propositivo, senza mai dimenticare che dialogo e confronto sono componenti fondamentali nelle relazioni umane e sociali. Con “I no che aiutano a crescere” (come già anni or sono ci suggeriva Asha Phillips, autrice dello splendido libro così intitolato), facciamo in modo che essi si rendano conto, fin da piccoli, che la vita è fatta anche di ostacoli e che le difficoltà, che possono incontrare, oggi o nel futuro, non sono insormontabili, ma vanno superate con l’impegno  e la volontà. Ricordiamo loro che occorre obbedire alla ragione, ma anche al cuore. Educhiamoli all’affettività, ai sentimenti, alle emozioni, quelle positive, come quelle negative (gioie o dolori). Dinanzi ad esse devono sviluppare un senso di responsabilità per gestirle, metabolizzarle e, attraverso questo percorso, poter superare quei momenti difficili che la vita, prima o poi, potrà presentarci. Un medico, un giorno, in un dibattito televisivo, chiuse il suo discorso con parole che, da sole, potrebbero sintetizzare il compito dei genitori, dinanzi alle incognite della vita. “Non lasciate che i vostri figli vivano sempre in pianura, teneteli anche ai bordi del burrone, sull’orlo dell’abisso.” Conveniamo pienamente con questa metafora educativa ma, naturalmente, occorre anche, sorvegliare attentamente, in attesa che facciano le loro scelte e raggiungano, pur con qualche nostro suggerimento, consapevolezza e responsabilità. Soltanto così potranno assaporare il senso e il valore della libertà.

Anche il padre di Giulia, che ha commosso tutti e che tutti ormai chiamano papà Gino, ci offre un ultimo spunto educativo. Con le sue parole, ma soprattutto col suo esempio, ci ha mostrato come si può metabolizzare un dolore così grande e come si può trovare, proprio in questo dolore profondo, la forza di testimoniare e di lottare perché non si verifichino più tragedie come queste, perché non si vedano più tante lacrime sul volto e nel cuore di migliaia di persone, come è accaduto ai funerali di Giulia.

(Dicembre 2023)

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