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ASSEMBLEA ANPI SEZIONE COLLINARE "AEDO VIOLANTE"   (Marzo 2024)
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Pensieri ad alta voce

 

di Marisa Pumpo Pica

 

Le Frenesiadi - Sanremo Festival

 

Ebbene sì. I Greci, fra tanti giochi e feste, avevano le Olimpiadi, i Romani i Saturnalia e noi, oggi, abbiamo le Frenesiadi. È questo il termine che i nostri Pensieri ad alta voce in questo momento ci spingono a coniare per definire l’atmosfera che il Festival di Sanremo crea intorno a noi. Trasmissioni, programmi, conduttori radiofonici e televisivi, stampa, social, spettatori, tutti invasi da una frenesia che, per settimane e mesi, non sembra placarsi. Né prima, né durante, né dopo, col Prima, Dietro e Dopo Festival e, quest’anno, anche con l’Aristonello di Sciuri (Rosario Fiorello ndr). Tutti, o quasi, nel vortice dell’attesa.

Per la verità occorre dire che, negli ultimi tempi, questo avviene per il Festival, come per molti altri eventi, che si susseguono, giorno dopo giorno, di qualsiasi natura essi siano, gioiosi, tristi o luttuosi, per i quali veniamo bombardati, in una girandola di notizie, smentite, contestazioni, polemiche, ritrattazioni e gossip senza fine. Una sorta di contagio nazionale, accentuato, ovviamente, dall’amplificazione dei media, con le ospitate e le comparsate dei più diversi personaggi, depositari sempre del fuoco sacro della Verità. Veniamo colti tutti da una smania, quasi morbosa, di sapere, cogliere i dettagli, i retroscena, approfondire. Il che non guasta. Anzi, una sana curiositas, per tornare agli Antichi, è stata sempre principio di conoscenza, nonché di vero umanesimo (Homo sum ... e tutto ciò che concerne l’uomo mi appartiene).-

Dunque, anche noi non abbiamo disdegnato il Festival. Lo abbiamo seguito per tutte le cinque serate, fino a notte inoltrata, con la sua simpatica appendice dell’Aristonello. Siamo, però, sempre quelli del giorno dopo. Amiamo seguire gli eventi. Alla vecchia maniera. E per gli eventi, seguiti minuto per minuto, leggere, scrivere e... far di conti. E i conti si fanno sempre dopo… Senza addendi non c’è somma.

Amiamo parlare quando il clamore si è attutito perché, nel momento in cui il clamore è alle stelle, nel vivo delle polemiche e delle contestazioni, la voce di ciascuno si alza più alta di quella dell’altro e, nella confusione, c’è scontro. Occorre il silenzio perché nasca la riflessione. Senza ascolto reciproco non si giunge mai al confronto. Chi è alla guida di un’imbarcazione, sia essa una nave o una piccola barca, deve tenere sempre stretto fra le mani il timone, per non essere trascinato in alto mare dai flutti. È per questo che, a Festival concluso, abbiamo voglia di capire dove va la nostra musica, i suoi percorsi, le mete, le aspettative. E dunque ci piace ascoltare, se e quando ci sono, i messaggi, gli impegni, i progetti dei cantanti e degli autori. La musica, da sempre, è questo: luogo del cuore o, come ha pur detto il maestro, Leonardo De Amicis, unguento dell’anima, ma anche, aggiungiamo noi, bisogno di comunicazione, denuncia, condivisione, come alcune canzoni dei nostri giovani ci hanno lasciato intendere.

Diodato, infatti, di cui abbiamo apprezzato, nella sua perfezione, l’esecuzione, oltre che il testo, ha opportunamente chiarito con un commento, di poche, stringate parole, rilasciato il giorno dopo il Festival, che cosa è per lui una canzone precisando che la canzone non è solo di chi la scrive o la esegue, ma anche di chi l’ascolta e ne fruisce. Ed è davvero così. Se ti prende il cuore, una canzone è tua e di tutti. E non muore mai, come è accaduto per tante canzoni, che passano di generazione in generazione.

Del resto, da sempre il Festival non è “solo canzonette”. Ha anche i suoi contenuti profondi, magari dentro una musica assordante. Fai rumore per farti sentire. Vèstiti in modo estroso per stupire. Fai salti sul palco per fermare l’attenzione di chi ti guarda. Una nota di narcisismo, tipica dell’artista, non guasta. Accadeva con Renato Zero, Zucchero, Vasco Rossi, per citare almeno qualche nome. Ed è così ancora, con i nostri giovani di oggi. Si canta e si denuncia perché il Festival, oggi come ieri, rispecchia la società, con le problematiche del momento, e viceversa. Un esempio per tutti Ghali. Con la canzone Casa mia, vuole ricordarci che, casa mia casa tua, siamo tutti sotto lo stesso cielo e che, per goderne tutti, al di là di nascita, razza, lingua, religione, è necessaria la pace. E tutti noi, piuttosto che alzare muri, fronti divisori e sollevare polemiche, con comunicati senza senso, dovremmo impegnarci per assicurarla al mondo intero.


La parola d’ordine a Sanremo è sempre la stessa: non conta vincere, ma partecipare, per cui ci saranno sempre i “vincitori” della proclamazione ufficiale dell’ultima serata e quelli “effettivi”, con le canzoni che, come si è già detto, portiamo nel cuore per non dimenticarle più. Ognuno di noi, è fuor di dubbio, vede il Festival e ascolta le canzoni a modo suo, ciascuno secondo la propria sensibilità e i propri gusti. Noi abbiamo apprezzato, oltre che Diodato e Ghali, anche Fiorella Mannoia, una vera signora della canzone italiana, che si distingue per classe e bravura. Sarebbe stata auspicabile una migliore collocazione in classifica, ma ha portato a casa un dono prezioso, il meritatissimo, prestigioso Premio Sergio Bardotti, per il miglior testo. Con la sua Mariposa, parole forti, serie, accompagnate dauna musica gioiosa, moderna, dai ritmi latineggianti, ha “dialogato” con tutte le donne, di ogni estrazione sociale. E con lei, Annalisa, Irama, Loredana Bertè (Premio della critica Mia Martini, conferitole dalla Stampa) e Mr. Rain. La sua Due altalene è lo struggente colloquio d’amore di una madre con il figlio che non c’è più. Brave le ospiti, una Gigliola Cinguetti, che festeggia i sessant’anni di carriera con la stessa grazia ed eleganza di quando, giovanissima, non aveva “l’età per cantare” e le co-conduttrici, come Giorgia e, in modo particolare, Lorella Cuccarini, nella sua fantastica e meravigliosa esibizione danzante, in apertura della quinta serata.

Un discorso a parte va fatto per Angelina Mango e Geolier, ovvero Emanuele Palumbo. i quali, molto diversi fra loro, ma accomunati dalla giovanissima età, si sono disputati il podio e la vittoria all’ultimo sangue, sarebbe il caso di dire, dividendo il pubblico, in sala e da casa, nella giornata delle cover e in quella finale.

Angelina Mango, brava, sicuramente, padrona della scena e del palco, a noi è piaciuta soprattutto nella serata delle cover, quando ha cantato, in modo commovente, la splendida canzone La rondine, in un sofferto ed ideale dialogo col padre, il compianto Pino Mango, voce eccellente della canzone italiana.


Per la serata delle cover da segnalare anche Alfa. che ha aggiunto forza e vigore giovanile alla suggestiva interpretazione della canzone Chiamami ancora amore, nel meraviglioso duetto con il grande Roberto Vecchioni. Anche qui un intenso ed ideale passaggio del testimone. E tutto ciò dimostra come sia giusto dare spazio ai giovani, ma anche quanto sia opportuno che i giovani tengano conto della “lezione” di chi li ha preceduti. Il che è possibile quando il recupero del passato avviene attraverso la contaminazione con le istanze del mondo giovanile.

È un discorso educativo che ha un grande significato solo nel riconoscere il valore dello scambio intergenerazionale.

Il caso Geolier, invece, va affrontato, in via preliminare, con una considerazione seria: il culto che bisogna avere sempre per la lingua napoletana che non può mai essere oggetto di divulgazione frettolosa ed improvvisata, come a noi è apparsa, in fin dei conti, la canzone P’me P’te, scritta in modo, a nostro avviso, inaccettabile per un Festival e, meno che mai, per una vittoria finale. A voler essere benevoli, lasciandosi trascinare dall’onda campanilistica, si potrebbe prendere atto della giovane età dell’autore, ma non si può non riconoscere in lui un tentativo maldestro, nel presentare una canzone di questo tipo. Qualcuno ha voluto trovare una giustificazione alludendo ad un presunto napoletano, scritto in un linguaggio artistico, ovvero un napoletano d’arte, di cui non abbiamo contezza, nonostante i nostri studi sulla lingua napoletana. Si è parlato di rispetto, di impegno, di coraggio. Chiamare in causa questi termini ci sembra questione di lana caprina. È la canzone napoletana, con la sua storia millenaria e, soprattutto la lingua napoletana, che meritano rispetto nel maneggiarle, impegno nell’affrontarne lo studio e, più che coraggio, tanta umiltà nell’approccio ad entrambe. Al di là di ogni eccesso campanilistico (certamente anche a noi avrebbe fatto piacere che Napoli fosse prima in classifica a Sanremo), bisogna riconoscere che, se il giovane Geolier, come ha sostenuto, voleva, con questa canzone portare in auge la lingua napoletana, il suo intento è andato in senso contrario. Il discorso, poi, si complica anche per altri motivi, che tirano in ballo, per prima cosa, la possibilità di accesso della canzone napoletana in un Festival della canzone italiana, che dovrebbe a questo punto, per par condicio, accogliere anche le canzoni scritte in altre lingue regionali. Un elemento di tipo formale che si aggiunge a tutto il resto.

Tanto rumore per nulla sarebbe il caso di chiedersi.

Vale la pena tanto clamore quando da settimane e mesi si dava già per scontata, quale risultato ultimo, la vittoria finale di Angelina Mango? La domanda sorge spontanea, per dirla alla Lubrano. Valeva la pena montare il grande baraccone del Festival, con cinque serate di ascolto di ben 30 canzoni, fino a notte inoltrata? La risposta spetta al direttore artistico, il buon Amadeus, al quale pur vogliamo bene, riconoscendogli anche l’impegno per il gran lavoro affrontato. Soltanto lui potrebbe spiegarci perché non sarebbe stata possibile una preselezione più stringente ed efficace per una migliore riuscita del Festival. Sarebbe stato preferibile portare il numero a 15, nell’interesse degli stessi cantanti. Essere ultimi su 15 non è la stessa cosa che esserlo su 30. Minori illusioni comportano minori frustrazioni. Lo dimostra il caso di Sangivanni che ha reagito, mettendo forse in discussione (vogliamo immaginare solo temporaneamente) se stesso e la carriera artistica da poco intrapresa. Non tutti hanno la forza di accettare sconfitte e rialzarsi. Noi gli auguriamo di cuore che ciò avvenga tempestivamente.

Inoltre, vorremmo chiedere ad Amadeus se non sia il caso di cambiare il sistema delle votazioni, con l’esclusione di questo televoto a cui si ricorre costantemente, anche per altri spettacoli del genere, col supposto principio democratico che, alla fine, rivela solo il suo substrato economico, a tutto detrimento della specificità culturale del voto di una seria ed appropriata giuria tecnica, che potrebbe essere la sola in grado di giudicare una canzone, sulla base di una reale meritocrazia. Il televoto è figlio del nostro tempo, del clamore, dello share, dei social, dei follower. Un programma si giudica dagli ascolti. Una persona dai follower. Dimmi quanti follower hai e ti dirò chi sei. Suona, così, oggi, ogni forma di conoscenza, ogni approccio, ogni relazione fra le persone. E chi non ama i social, chi non ha follower o non li cerca, dove resta confinato? In quale limbo? Chi si occuperà di lui? A quale destino è votato? A quale la sua canzone e la sua musica? Noi siamo quelli del giorno dopo anche per questo, perchè il giorno dopo consente di riflettere su tante cose, di superare contrapposizioni e ricucire strappi. Ci permette di isolare il bello da quel che è trash, diritornare col pensiero alle commoventi e suggestive parole di Giovanni Allevi nel momento in cui ci ha trasmesso l’ansia e la gioia di riprendere ad accarezzare, con le mani sofferenti, il pianoforte, dopo più di due anni. Una pagina alta del Festival è stata scritta quando ci ha raccontato quanto possa essere grande ed intenso l’amore per la vita, “dopo aver visto, per giorni, l’alba ed il tramonto da una camera d’ospedale”. Un monito ed una speranza per quanti devono trovare la forza di risollevarsi dopo una tremenda malattia.

Ma il Festival di Sanremo è bello perché è vario. Accanto a questo e a tanti altri momenti di intensa commozione, non è mancato anche qualche neo, comparso come sul viso di ogni bella donna, stando ad un vecchio detto. E così Fiorello ha “preteso” che un personaggio internazionale, del calibro di John Travolta, che avrebbe potuto deliziare il pubblico con una splendida danzatrice del corpo di ballo, si esibisse, invece, in corteo con lui, Amadeus ed altri, in un ridicolo “ballo del qua qua”. Umorismo sotto traccia, ironia surreale, a cui il nostro intelletto non riesce ad arrivare. E, travolto dal qua qua non è arrivato a tanto nemmeno il povero Travolta, di cui comprendiamo, ovviamente, l’irritazione, se non l’indignazione, nonchè la dichiarata rinunzia alla firma per la liberatoria. Allo stesso modo riteniamo pienamente giustificati i commenti negativi della stampa, nei giorni successivi. Sorprende, anzi, che se ne meraviglino Fiorello e lo stesso Amadeus, padrone di casa!

Post scriptum in sospeso per il successore di Amadeus. Se veramente, come oggi sostiene, non condurrà ancora lui il prossimo Festival, bisognerebbe chiedere a questo Signor X se non riterrà utile scindere le due figure, quella del direttore artistico da quella del conduttore. A noi sembrerebbe opportuno per vari motivi, che non staremo qui ad elencare.

Amadeus e Fiorello hanno chiuso questa 74a edizione con un record di ascolti (oltre il 60 per cento di share), la più seguita, la più digitale, la più effervescente che mai (con la lunga coda di polemiche e contrapposizioni di sempre). Ma, per concludere come abbiamo iniziato, con il richiamo agli Antichi, vogliamo ricordare che i due amici sono andati via felici, verso l’Aristonello, mano nella mano, salendo su un grande cocchio dorato, quello degli dei dell’Olimpo, elemento fondamentale della mitologia greco-romanaa. E qui l’ultima delle nostre domande. Metafora della chiusura di un ciclo, fine di un’epoca d’oro? Del resto, la scelta di latinizzare il suo nome da Amedeo in Amadeus, conteneva forse già gli auspici di una favola moderna, destinata a trasformarsi in una favola mitologica.

(Febbraio 2024)

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