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"FREEDOM"   Santa Lucia  San Gennaro in stato di riposo dopo il recente replay del miracolo di settembre sembra l’allenatore celeste che opera i...
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Miti napoletani di oggi.88 IL CARRO-ATTREZZI   di Sergio Zazzera   Nato per gl’interventi di soccorso stradale (anche chi scrive queste righe ha...
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Miti napoletani di oggi.89 “THE PASSENGER”   di Sergio Zazzera   Vi fu un tempo in cui il concetto di “Guida” evocava immediatamente il Baedeker –...
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UNA STAGIONE CALCISTICA STORTA   di Luigi Rezzuti    Durante il periodo precampionato tutti affermavano che questa stagione 2019/2020 sarebbe stata...
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Calcio mercato invernale del Napoli 2024   di Luigi Rezzuti                           Si è concluso il calcio mercato invernale del Napoli. La...
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Il Vomero greco-romano   di Antonio La Gala   Un luogo comune che riguarda il Vomero è che la collina vomerese sia un luogo “senza storia” e che,...
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Pittura nel Seicento al Vomero   di Antonio La Gala   Quando si parla di pittori "vomeresi" il pensiero va subito ai protagonisti del mondo artistico...
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Giovanni Panza, pittore  senza problematiche   di Antonio La Gala   Giovanni Panza (Miseno, 1894-1989), teorizzava che la vita di ogni persona è...
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Parlanno ’e nu poeta - Alfredo Granata   di Romano Rizzo   A voi che amate la Poesia, quella che sa toccare le corde del cuore, voglio raccontare la...
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15 MAGGIO 2022: NAPOLI ACCLAMA SANTO DON GIUSTINO MARIA RUSSOLILLO

 Basterebbe poco per rendersi santi.

 

di Luciana Alboreto

 

Una voce accogliente e non stridente, una mano tesa e non lacerante, un sorriso rassicurante e non acredini gratuite. Una quotidianità vissuta nella semplicità del donarsi, nella gioia riscoperta alla luce di ogni alba e nelle difficoltà riposte all’imbrunire di ogni tramonto.

Il 15 maggio 2022 Papa Francesco, visibilmente provato dagli esiti della pandemia e dai devastanti eventi bellici, con tono partecipato e commosso, ha presieduto il rito di canonizzazione di dieci Beati, tra cui il campano Don Giustino Russolillo. Dal Sagrato della Basilica di San Pietro, per la prima volta dopo gli anni critici dell’emergenza sanitaria, alla presenza delle Autorità e del popolo dei fedeli, si è elevata la voce del Pontefice, tenera e disarmante. “La santità non è fatta di pochi gesti eroici, ma di tanto amore quotidiano… di dedizione alla famiglia, al lavoro, al bene comune… senza avidità e competizione… condividendo i carismi e i doni di Dio… non pensando a compiere atti eroici, ma ad essere fedeli a questi comportamenti”. E Santo è stato proclamato anche Don Giustino Maria Russolillo, noto come il “Santo di Pianura”. Nato nel 1891 nel quartiere napoletano, si formò al seminario di Pozzuoli divenendo sacerdote nel 1913. Nel 1920 fu Parroco nel suo quartiere di Pianura, vivendo con profondità spirituale il suo apostolato e impegnandosi a fondare una congregazione religiosa “Per il culto delle vocazioni di Dio alla fede, al sacerdozio, alla santità”. Dal fervore di questi intenti furono fondate le congregazioni dei Vocazionisti. Morto nel 1955 e beatificato il 7 maggio 2011, visse come “Il sacerdote che ha la missione di giovare alle anime”. Spese la vita per i giovani e per rendere unite le famiglie in nome della Pace. Confidava nella cultura e nell’intelligenza di ognuno che potesse essere contributo fruttuoso nella società. Il 27 ottobre 2020 Papa Francesco autorizzò l’approvazione del Decreto di Santità grazie ad un miracolo attribuito all’intercessione del Beato Russolillo, riguardante la guarigione di un giovane religioso vocazionista originario del Madagascar colto da un grave malore e salvatosi dal coma dopo che gli era stata apposta una sua immagine, sul corpo gravemente malato. La sua canonizzazione è Luce di speranza per la città di Napoli che, attraverso il carisma dei vocazionisti, promuove la formazione spirituale e culturale di chi è sinceramente votato alla vita religiosa.

(Maggio 2022)

Benedetta primavera

 

di Luciano Scateni

 

Ironia? Satira? L’una e l’altra: m’incammino sulla retta via dell’empatia quasi affettuosa per l’ex testata che in oltre 10 lustri ha raccontato l’Italia e il mondo con il linguaggio della democrazia di sinistra, mai inciampata nel rischio dell’estremismo, ma saldamente ancorata alla linea editoriale progressista: con la primavera è sbocciato un impeto di riconoscenza amorosa per l’inversione a ‘U’ del quotidiano la Repubblica, ‘comprato’ dalla Fiat e affidato alle cure di Molinari direttore, collaudato interprete dell’Elkann pensiero, ovvero de  vertici della Confindustria guidata da un presidente molto ‘padre padrone’. Finalmente è chiara la transizione in ambito politico lontano dalle origini. Ieri il giornale fondato da Scalfari, si è superato, ha prefigurato il ruolo opportunista di un chiaro ‘sto dalla parte del potere’, perché finito nelle mani della destra, fino ad azzardare consenso al finto liberismo della Meloni che prova a mascherare la connivenza con il fascismo della destra estrema. La cosiddetta ‘convention’ milanese, messa in scena da Fratelli d’Italia come prova generale della macabra, paventata aggressione all’Italia democratica. La ‘borgatara io sono Giorgia’, convinta di governare una volta occupato con la fiamma tricolore palazzo Chigi, ha messo a nudo il pigro buonismo del Paese, che sorvola sul dettato costituzionale e la legge disconosciuti, per colpevole tolleranza dell’esplicita nostalgia del Ventennio e di recente sulle saluto fascista dei fans della Meloni ai piedi del palco, che ha ospitato la diffusione del suo programma destrofilo di governo e perfino indiscrezioni sui candidati all’esecutivo di destra. Fatti loro? Purtroppo no, dal momento che a prescindere da lodi e gaudio della stampa ‘amica’, ieri anche la Repubblica ha regalato alla Meloni due pagine e mezzo, un’accurata elencazione delle sue intenzioni ‘governative’, senza un rigo, un aggettivo, un ‘nota bene’ critico su punti programmatici. Attuati omologherebbero l’Italia ai Paesi sovranisti, che inquinano la democrazia di mezzo mondo. Con spiccata intraprendenza, la Repubblica affida l’endorsement per la Meloni premier al saltellante Orsini (lunga intervista), ospite televisivo seriale di ogni strumento dell’informazione. Al professorino non par vero di recitare il ruolo di ‘Pierino il terribile’, ospite ambito, anche di talk show per nulla destrorsi di La7 (‘Il martedì’, di Floris, ‘Piazza pulita’ di Formigli’) intervistato con l’obiettivo di creare ressa mediatica a favore degli ascolti, citato nel format dell’inguardabile Giletti di ‘Non è l’arena, che ieri sera ha fatto l’en plein di sconcezze on le ridondanti presenze di Salvini, del fuori di testa Santoro.

In poche parole: vuoi vedere che il the end della guerra in Ucraina se lo aggiudica il dictator turco Erdogan, ben visto dal dictator Putin?

Israele non ci sta e censura il ministro degli esteri russo Lavrov, autore di queste ingiuriose castronerie: “Zelensky è ebreo e non può essere nazista? Anche Hitler aveva origini ebree, i maggiori antisemiti sono proprio gli ebrei”.

Lavrov bis: “Dichiarazioni di politici e media italiani vanno oltre le buone norme diplomatiche e giornalistiche. L'Italia è in prima fila tra coloro che adottano e promuovono le sanzioni anti-russe. Pensavamo che l'Italia, grazie alla sua storia, sapesse distinguere il bianco dal nero”. Errore, l’Italia distingue tra aggressori e aggrediti. “Chi importa gas russo, come l’Italia, deve pagare in rubli perché ha rubato a Mosca le riserve in dollari e in euro”.  

Nasce una polemica largamente condivisa: ospitare in Tv, o no, personaggi che mistificano la realtà, che mentono spudoratamente e negano l’evidenza (Ucraina: “false le stragi di civili, le fosse comuni, le violenze disumane documentate da immagini inequivocabili)”, peggio se in assenza di contradditorio? Se la risposta fosse ‘no’, configurerebbe la limitazione della libertà di opinione? Con il ‘sì’ avrebbe ragione la scelta di evitare conseguenze nefaste della mancata comprensione della verità, pericolo corso in questi due anni dando voce ai No Vax.

(Maggio 2022)

BORGHI ABBANDONATI

 

di Luigi Rezzuti

 

Questa nostra gita fuori porta potrebbe iniziare come un racconto col classico “c’era una volta”

C’era una volta un borgo operoso, pieno di case, botteghe e contadini, rallegrato dal vociare dei bimbi che scorrazzavano per le strade rincorrendosi.

Poi, per vari motivi l’abbandono, il silenzio al posto delle voci, la vegetazione che avvolge le case, le porte divelte, i muri scrostati, la vita che se n’è andata via.

E’ il destino di molti piccoli borghi lasciati dopo secoli di vita per avversità naturali.

Anche in Campania vi sono diversi borghi, alcuni ben conosciuti, altri meno, spopolatisi in epoche relativamente recente per svariati motivi hanno in comune le pietre, le case ancora in piedi o ridotte a pochi resti, la presenza di manufatti che ricordano le attività di un tempo.

La primavera è ormai arrivata, i primi tiepidi raggi del sole ci riscaldano e ci invitano ad uscire all’aria aperta.

Abbiamo deciso di fare delle passeggiate domenicali andando alla scoperta di piccoli borghi abbandonati, un’ottima occasione per stare in famiglia o con amici.

Basta spostarsi di qualche chilometro per trovare angoli suggestivi e particolarmente ameni: borghi, castelli e chiese.

Siamo andati ad Aquilonia, un borgo medievale che prima si chiamava Carbonara per la presenza sul suo territorio di particolari pietre che contenevano petrolio e che bruciavano con fiamma viva come carboni.


Questo piccolo borgo abbandonato per sempre dopo il terremoto del 1980 ha un fascino avvolgente, dove si percepisce pienamente l’interezza e la presenza di un assordante silenzio.

Abbiamo incontrato un’ampia piazza con una chiesa settecentesca e una bella fontana di pietra da cui sgorga generosamente acqua.

Abitazioni con porte spalancate, stanze vuote, cucine in muratura, piccoli oggetti rimasti abbandonati, botteghe con scritte sbiadite che ricordano le attività di un tempo, eppure, nonostante l’apparente silenzio viene interrotto solo dal vociare di turisti che nel fine settimana si aggirano incuriositi tra le case e le botteghe e da una frequentazione da parte dei suoi vecchi abitanti.

Ad ogni buon conto è stata un’esperienza da rivivere quella di stamattina, magari, più in là in un altro piccolo borgo abbandonato per vivere un’altra meravigliosa avventura.

(Marzo 2022)

LICENZA DI CONTAGIO

Un mito (una volta tanto) non soltanto napoletano

 

di Sergio Zazzera

 

Il d.l. 1/2022, in vigore dall’8 gennaio scorso, ha introdotto l’obbligo vaccinale per gli ultracinquantenni e per chi compirà i 50 anni il 15 giugno prossimo. La sottrazione all’obbligo è punita con la sanzione amministrativa di 100 euro, una tantum, a decorrere dal 1° febbraio.

Ebbene, durante i miei studi universitari ho avuto un Maestro, il grande Antonio Guarino, col quale cominciai a collaborare già dal secondo anno di corso, continuando fin verso il 1989-90. Ora qualcuno si starà domandando che cosa c’entra il mio Maestro con la sanzione per la violazione dell’obbligo vaccinale; e, allora, mi spiego.

Quando parlava dell’iniuria, illecito civilistico del diritto romano, Guarino narrava un gustoso, ma anche significativo, episodio. Nel I secolo a. C., per sanzionare l’iniuria – che, allora, oltre all’offesa verbale, comprendeva, fra l’altro, anche le percosse –, il pretore introdusse l’actio iniuriarum aestimatoria, che consentiva di commisurare la pena all’effettiva gravità di ciascuna violazione. Fino a quel momento, infatti, le percosse erano state punite dalla Lex XII Tabularum con un risarcimento di appena 25 assi in favore dell’offeso, pari a circa 38 euro odierni: una miseria, dunque.

E qui viene l’episodio che Guarino narrava. Un cavaliere romano, tale Lucio Verazio, se ne andava in giro e, quando incrociava persone che gli erano antipatiche (e sembra che non fossero poche), le abbuffava ‘e pàcchere (come si dice a Oslo). Lo seguiva, però, un servus dispensator, munito di sacchetto di monete, che subito dopo consegnava i 25 assi allo schiaffeggiato, il quale non avrebbe più avuto di che dolersi (almeno, davanti a un giudice).

Similmente, oggi è possibile comprare la libertà di non vaccinarsi – meglio definibile come “licenza di contagio” (altrui, prima che proprio) –, al modico prezzo di 100 euro, una tantum. E poi, Pauwels e Bergier (Il mattino dei maghi) vengono a raccontarci che la storia non si ripete.

(Gennaio 2022)

CUIUS REGIO… (ovvero: meno male che c’è un Papa straniero)

 

di Sergio Zazzera

 

Antefatto n. 1: Nell’Enciclica Pacem in terris, il Pontefice Giovanni XXIII affermò, tra l’altro, la necessità di mantenere distinto l’“errore” dall’“errante”.

Antefatto n. 2: Joe Biden, presidente U.S.A., di religione cattolica, personalmente contrario all’aborto, non ritiene di dover estendere al popolo statunitense il proprio pensiero in materia, promuovendo l’adozione di norme repressive, ma lascia a ciascuno libertà di coscienza.

Il fatto: In occasione del G20 di Roma, Joe Biden, in visita a Papa Francesco, lo interpella, circa la possibilità di ricevere la Comunione, che l’episcopato del suo Paese vorrebbe negargli, ricevendosi risposta affermativa.

Il commento: Oltre a ignorare la dottrina di Giovanni XXIII, la posizione dell’episcopato U.S.A. nega la validità dell’Editto di Nantes, emanato da Enrico IV di Borbone nel 1598 (nella foto), che sancì la libertà di culto e l’abolizione del principio della religione di Stato, significato dal brocardo «Cuius regio, eius et religio», e, con esso, disconosce oltre quattro secoli di storia e di civiltà.

So perfettamente che la storia non si fa interrogandosi sul naso di Cleopatra: me lo insegnava il mio Maestro. Poiché, però, di recente, qualcuno non lo ha escluso, la prova voglio farla, non prima di avere chiesto perdono alla felice memoria di quel Maestro. Oggi abbiamo un Papa venuto «dalla fine del mondo», come egli stesso si definì, nel discorso dell’elezione; ma quale risposta sarebbe stata data al presidente Biden, se il Pontefice fosse stato un italiano? uno, cioè, cresciuto e educato in seno alla Curia romana? Nomi non intendo farne, ma credo che ciascuno possa riempire da sé lo spazio che sto lasciando in bianco.

(Novembre 2021)

Chiude il complesso Damiani

 

di Luigi Rezzuti

 


A Pozzuoli, il mitico Club dei Damiani ha chiuso i battenti. Un triste segno un po' per tutti, sia per i giovani che per i diversamente anziani.

Chi, fra i giovani, non ricorda i tuffi in piscine, alimentate da una sorgente naturale di acqua termale, le piste di pattinaggio, il campo di pallavolo, di pallacanestro, di calcetto, i quattro campi da tennis e la discoteca?

E, fra i diversamente giovani, chi può dimenticare gli impianti termali, i concerti, le serate in musica, il piano bar, il ristorante-pizzeria, i balli a luci soffuse, gli amori sbocciati al chiaro di luna, sotto le stelle?

I Damiani hanno segnato la storia del tempo libero, fin dagli anni ’50. Nel 1934 la famiglia Damiani acquistò questo vasto appezzamento di terra per realizzare un’attività agricola e andarvi ad abitare.


Successivamente i due fratelli, Enzo e Lucio, organizzarono delle feste da ballo tra amici e così nacque l’idea di formare il Circolo degli amici, Poi, negli anni, il circolo diventa un’impresa, nasce un ristorante e si festeggiano matrimoni e cerimonie varie.

Purtroppo, a partire dagli anni ’80, prima per il bradisismo, poi per il sorgere di tante piccole trattorie, muta pian piano il volto del locale dei Damiani, che accusa il colpo della concorrenza spicciola.

La chiusura dei Damiani, quest’estate, ha avuto un sapore amaro e non è solo colpa del bradisismo, del Covid e della piccola concorrenza. Nel novembre scorso è mancato Enzo Damiani e nel 2007 Lucio, i due fratelli che sono stati il motore di questa struttura.

Ho frequentato il mitico complesso dei Damiani per oltre 55 anni. Da giovane non perdevo un fine settimana. Elemento tipico del locale erano “i balli della mattonella”, che permettevano alla ragazza di turno di valutare le proposte che venivano avanzate, mentre, stretti, stretti, guancia a guancia, si seguivano le note musicali.

Negli ultimi tempi ho continuato a frequentare il complesso ma unicamente attratto dalla piscina termale, capace, in egual misura, di farmi rilassare e di lenire gli acciacchi di una giovinezza, che ormai confina con la vecchiaia.

L’augurio, la speranza di noi tutti è che il mitico club riapra i battenti per far rivivere, sia ai giovani che ai diversamente anziani, quei dolci ricordi di un tempo.

(Settembre 2021)

‘O PAESE ‘E MASTU RAFELE

 

di Sergio Zazzera

 

Nel 1869 Antonio Petito diede alle stampe il testo di un suo lavoro teatrale, intitolato So Masto Rafaele e non te ne ncarricà, il cui protagonista è un personaggio che risolve tutti i problemi, sia propri, che altrui, con modalità assolutamente originali e fuori da tutti gli schemi: da lui ha tratto origine la proverbiale definizione di Napoli come ‘o paese ‘e Mastu Rafèle.

Tale modo di essere della città si è manifestato, per l’ennesima volta, proprio in questi ultimi giorni. Dal numero del 6 giugno del quotidiano Il Mattino, infatti, a p. 22, sotto il titolo «Chiaia, Madonna trafugata» ma l’opera torna al suo posto, si rende noto che il dipinto raffigurante la Madonna di Piedigrotta, sparito diversi mesi fa dall’edicola posta in piazza Santa Caterina da Siena e sostituito da una stampa della Madonna di Pompei, è tornato al suo posto, dopo essere stato sottoposto a un intervento di restauro.

Nell'articolo stesso sono espresse le felicitazioni verso tutti coloro che avrebbero partecipato all'operazione; felicitazioni che potrebbero anche rivelarsi fuori luogo. In tale articolo, infatti, non si specifica se il restauro sia stato eseguito sotto la vigilanza della competente Soprintendenza, come dovrebbe avvenire per qualsiasi opera sottoposta a un tal genere d'intervento; tanto più, poi, che il dipinto era stato eseguito da Ferdinando Ferrajoli (allievo di Raimondo d'Aronco e sicuramente non l'ultimo arrivato), che abitava nel palazzo attiguo (con ingresso da vico S. M. a Cappella Vecchia), le cui opere sono presenti, fra l'altro, nella Galleria del Circolo Artistico Politecnico. Senza dire che, nel momento in cui il dipinto è stato rimosso dall'edicola, non sarebbe stato superfluo lasciare nella stessa un avviso con i motivi dell'asportazione, come si suole fare per le opere esposte in musei e chiese.

Purtroppo, però, Napoli continua a essere 'o paese 'e Mastu Rafèle, dove ognuno decide in autonomia il proprio modo di comportarsi e le regole sono, forse, anche poco meno che un optional.

(Giugno 2021)

…QUEL CH’E’ DI CESARE

 

di Sergio Zazzera

 



La Costituzione della Repubblica italiana afferma, all’articolo 7, comma 1°, il principio secondo cui «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

A sua volta, fra i cardini della dottrina cristiana è annoverato il principio, affermato da Gesù, secondo cui bisogna dare «a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», riferito dai Vangeli sinottici (Mt. 22,21; Mc. 12,17; Lc. 20,25) e perfino dall’Apocrifo Vangelo di Tommaso (100,2-3).

Lo Stato italiano e la Chiesa cattolica concordano, dunque, sul concetto, coniato dal pastore calvinista francese Alexandre Vinet e introdotto in Italia da Cavour, espresso dalla formula «libera Chiesa in libero Stato».

Ho adoperato l’indicativo presente – “concordano” –, ma sarebbe stato preferibile l’uso del condizionale – “concorderebbero” –, poiché, a ben guardare, le cose vanno, talvolta, in maniera diversa.

Di recente, la Diocesi di Napoli, retta fino a qualche mese fa dal cardinale Crescenzio Sepe, è stata affidata, dopo l’accoglimento delle sue dimissioni, alla guida di monsignor Domenico Battaglia. E sembrava che l’aria fosse cambiata, ma, poi, qualcosa che non va ha cominciato a manifestarsi, poiché

egli, in un suo intervento recentissimo, ha esortato le autorità italiane ad astenersi dall’eseguire demolizioni di costruzioni realizzate abusivamente, già decise con provvedimenti, divenuti definitivi, provenienti “da Cesare”.

Ma, allora, ferma restando la sostanziale coincidenza tra il principio evangelico e quello costituzionale, sopra ricordati, c’è da domandarsi se sia legittimo che l’autorità ecclesiastica si arroghi la competenza di stabilire che cosa sia “di Cesare” e che cosa sia “di Dio”.

(Giugno 2021)

SOTTO AL TAPPETO

 

di Sergio Zazzera

 

“Città segreta”, nell’immaginario di Corrado Augias, Napoli ha costituito il tema della trasmissione televisiva da lui stesso condotta, sabato 17 aprile, su Rai3; e lo spazio da lui dedicato alla figura e alla vicenda di Raffaele Cutolo ha sollevato l’indignazione di numerosi benpensanti, che, sia in forma pubblica (lettere ai giornali), sia in forma privata (discorsi tra amici), hanno stigmatizzato la scelta del giornalista, sostenendo che di Cutolo non si sarebbe dovuto parlare.

Da un siffatto atteggiamento non posso – giornalisticamente – non dissociarmi. In primo luogo, infatti (e purtroppo!), “don Raffaele” E' stato Napoli; una Napoli negativa, ma anche le negatività hanno, da sempre, un loro posto nella storia: si pensi al nazifascismo. E qui vengo al “secondo luogo”: con grande professionalità, Augias ha costruito il discorso mediante una serie di passaggi, cominciata con la presentazione del “fenomeno Maradona”, del quale, dopo le positività (rivitalizzazione del Napoli, scudetti vinti, azioni di beneficenza), ha posto in evidenza le negatività, vale a dire, l’avvicinamento agli stupefacenti e il conseguente rapporto stretto con il clan familiare dei Giuliano. A questo punto, presentata questa famiglia come quella che ha espresso più collaboratori di giustizia (vulgo, “pentiti”: “Loigino”, Salvatore, Guglielmo), ha introdotto il discorso sulla N.C.O. di Raffaele Cutolo, sottolineando come, viceversa, questi abbia conservato la sua mentalità criminale fino all’ultimo giorno della sua esistenza terrena.

Augias, dunque, ha delineato, in maniera estremamente corretta, un frammento di storia della società napoletana, che – purtroppo – è esistito, e perciò non può essere “spazzato e nascosto sotto al tappeto”.

Altrimenti, dovremmo negare diritto di cittadinanza nel mondo della storia anche a quanto sulla camorra hanno scritto Marc Monnier, Abele de Blasio, Ferdinando Russo, Paolo Ricci, e chi più ne ha, più ne metta. Con la grave conseguenza che di essa non sapremmo niente.

(Aprile 2021)

Una passeggiata nel quartiere Sanità

 

di Luigi Rezzuti

 


Napoli ha tanto da offrire. Ogni volta scopro qualcosa di nuovo, che magari era lì da secoli, ma io non ci avevo mai prestato attenzione.

È stato questo il motivo di una passeggiata nel Rione Sanità, un quartiere per anni additato come pericoloso, malfamato, da evitare assolutamente.

Mi è sempre stato detto: “Tieniti lontano dai quartieri Spagnoli, dalla Sanità e da Forcella”, ma io non sempre l’ho fatto.

E non me ne pento perchè questi quartieri stanno cambiando, si stanno aprendo al turismo, mostrando la loro allegria, la loro arte e la loro storia.

Sono stato fortunato, lo ammetto, ho visitato la Sanità più volte e questa volta, però, è stata un’interessante passeggiata, grazie alla quale ho potuto apprendere molte storie, leggende e aneddoti su questo quartiere.

Visitare un luogo con qualcuno che ne conosce la storia è assolutamente un valore aggiunto ed io l’ho visitato con un amico molto preparato sul piano della storia napoletana.

Questa è la passeggiata, alla quale mi sono dedicato una domenica mattina. Il tragitto non è stato lunghissimo, ma c’era da fermarsi tante volte per guardarsi intorno ed osservare.

Il nome Sanità viene dalla salubrità della zona, un tempo incontaminata, e dal fatto che qui, nelle sue catacombe, si verificavano miracolose guarigioni.

Voce di popolo sostiene che il nome provenga anche dalle frequenti alluvioni, causate dal torrente che scendeva da Capodimonte, purificando il Rione.

Il Rione Sanità parte, infatti,  dal quartiere Stella, si trova a nord del centro storico di Napoli, adiacente la collina di Capodimonte.

La visita al Rione Sanità parte dalla Porta San Gennaro, che si trova su via Foria, di fronte piazza Cavour. Era l’unico punto di accesso, dal lato nord della città, e l’unico che portasse alle catacombe.

A differenza delle altre porte di Napoli, questa non ha i due torrioni laterali, ma è circondata dai palazzi che vi sono stati costruiti intorno.

Attraversando la strada ci si immette in via Vergini, una strada allegra e festosa, ricca di negozietti e bancarelle del mercato, con i commercianti che si mettono in posa non appena vedono comparire una macchina fotografica.

Il mercato è aperto tutti i giorni fino alle 20, la domenica fino all’ora di pranzo.

Passeggiando, non si può fare a meno di notare i colori dei vicoli: artisti ignoti ma anche altri ben conosciuti, lo hanno colorato e fatto oggetto dei loro dipinti.

Subito dopo la pizzeria “Concettina ai 3 Santi”, sulla destra, c’è un bel palazzo a pianta ottagonale e doppia scalinata: è il palazzo Sanfelice, costruito nel 1728, dove sono state girate alcune scene di Gomorra ed altre fiction.

Arrivo a piazza Sanità. Proprio di fronte alla Basilica, “Sants Maria alla Sanità”,  sulla facciata di un edificio, è stato realizzato un grande murales.

La chiesa sorge al centro della piazza ed è stata eretta nel 1600 sulle catacombe di San Gaudioso.

La cosa che mi ha più colpito, che non avevo mai visto nelle altre chiese, è che il presbiterio è rialzato rispetto alla navata, raggiungibile attraverso una bella scalinata di marmo, sotto cui si sviluppa la cripta.

All’interno della Basilica c’è una statua di San Vincenzo, detto “‘O Munacone”, che il quartiere ha eletto come proprio protettore.

Fino al 1978, il 5 luglio, si celebrava la festa della Sanità, “Festa d’ò munacone”, appunto, cui venivano invitati anche cantanti famosi.

Quando poi la camorra si è introdotta, con richieste di pizzo, la festa è stata sospesa.

La Basilica è quindi conosciuta anche come “ ‘a chiesa e San Vincenzo”.


Il Ponte della Sanità sovrasta il rione unendo due strade, Santa Teresa degli Scalzi e Corso Amedeo di Savoia, per collegare la Reggia di Capodimonte alla città. Successivamente nacque l’idea di un ascensore che permette di salire, da Materdei, sulla parte alta della città.

È curioso vedere come alcune case sono state costruite proprio sotto il ponte.

Passeggiando per questi luoghi, mo sono imbattuto nella sagoma di Totò, una delle tante installazioni, dedicate  all’attore, che abbelliscono il suo quartiere natio.

A pochi metri dal Ponte della Sanità ho trovato l’opera che mi è piaciuta di più in questa passeggiata  “Speranza nascosta” con il volto di un senzatetto rimasto in negativo sul muro.

Cammino tra graffiti, bassi e panni stesi ad asciugare. I bassi sono quelle case al piano terra degli edifici, la cui unica apertura è fonte di luce. Un tempo erano sgabuzzini o botteghe di artigiani.

Sono arrivato su via Fontanelle, che prende il nome dalle sorgenti e fonti d’acqua che caratterizzavano, un tempo, questa zona.


Arrivo, quindi, al Cimitero delle Fontanelle, uno dei luoghi più suggestivi del Rione Sanità e di tutta Napoli.

Impregnato di storia, fede, riti e leggende, il cimitero delle Fontanelle è un antico ossario, scavato nella roccia di tufo della collina di Materdei.

Inizialmente era destinato a seppellire i corpi che non trovavano posto nelle chiese, poi, le vittime della grande peste del 1656 e del colera del 1836.

Il cimitero, ad oggi, accoglie circa 40,000 resti ed è anche famoso perché vi si è svolto, per tanti anni, un particolare rito detto delle “anime pezzentelle”.

Il rito prevedeva l’adozione, in cambio di una grazia, di un cranio anonimo (a capuzzella) al quale corrispondeva un’anima abbandonata (detta perciò “pezzentella”.

I fedeli sostenevano che l’identità delle anime, con il loro nome e la loro storia, veniva svelata loro in sogno.

I teschi delle anime avevano bisogno di cura ed attenzione e, per questo, i fedeli pulivano e lucidavano il cranio prescelto, lo adornavano con fazzoletti ricamati, cuscini e rosari. Se la grazia veniva concessa, il teschio veniva riposto in una scatola o in una teca protettiva, sulla quale veniva scritto “per grazia ricevuta” Il nome del fedele, altrimenti, veniva abbandonato e sostituito con un altro. La maggior parte dei teschi sono anonimi, ma ce ne sono anche alcuni diventati famosi e sui quali si narrano misteriose leggende. Uno di questi appartiene a donna Concetta, conosciuta come  “A capa che suda”.

Il cranio di donna Concetta è posto in una  teca di vetro in una cavità che raccoglie meglio l’umidità, per questo sembra sudare, secondo i fedeli, a causa delle fatiche e sofferenze a cui è sottoposta nell’aldilà.

Poco dopo, in un’altra cavità scarsamente illuminata, l’inquietante statua decapitata del Monacone San Vincenzo Ferreri, vestito con il tipico abito domenicano bianco e nero.
Alla destra delle tre croci ho trovato un altro teschio ricoperto di fiori, monetine e candele, è quello del Capitano, sul quale si raccontano due versioni della stessa leggenda.

Pare che un giovane sposo avesse suscitato l’ira dell’anima del Capitano prendendosi gioco di lui, dicendogli di non aver paura di un morto ed invitandolo ironicamente al suo matrimonio.

Fatto sta che il Capitano al matrimonio ci andò davvero, travestito da un personaggio in abito scuro, silenzioso e severe, Questi, rivelando la sua vera identità, fece morire di paura la giovane coppia di sposi.

Sono uscito dal cimitero delle Fontanelle alle 13,30, giusto in orario di pranzo.

Sono quindi tornato indietro per fermarmi alla pizzeria ai Tre Santi. La folla che aspettava di entrare era numerosa, ma io, per fortuna, avevo lasciato il mio nome tre ore prima e sono riuscito ad avere un tavolo, aspettando solo una ventina di minuti.

Quando poi ho mangiato quella pizza ho realizzato che sarebbe valsa la pena aspettare anche un’ora.

Ho preso una classica margherita, soffice, leggera e buonissima ed ho assaggiato una fetta di dolce.

Uscito dalla pizzeria, sazio e soddisfatto, ho imboccato il vicolo che si apre proprio di fronte via Santa Maria Antesecula.

È qui che si trova la casa in cui, nel febbraio del 1989, è nato il Principe Antonio De Curtis, in arte Totò.

La casa è contraddistinta da un bellissimo ritratto sui muri esterni.

Tornando verso l’inizio del Rione ho visitato l’ultimo palazzo denominato “dello Spagnolo” perché appartenuto ad una nobile famiglia spagnola nel XIX secolo, anche questo molto simile al palazzo Sanfelice, ma tenuto meglio.

La mia bella passeggiata nel quartiere della Sanità è terminata.

Sono stato contento nel vedere gruppi di turisti, soli o accompagnati da guide, visitare il Rione Sanità, fotografarlo ed ascoltando talune storie, narrate dalle guide, mi sono sentito orgoglioso di essere napoletano.

(Aprile 2021)

VACCINARE I MAGISTRATI

 

di Sergio Zazzera

 

Potrebbe sembrare l’ottava opera di misericordia, e forse lo è. I magistrati – e, in maniera particolare, quelli napoletani – hanno fatto sentire la loro voce, attraverso gli organismi associativi locali, chiedendo di essere sottoposti a vaccinazione anti-SarsCov2 al più presto.

Premesso – e senza offesa per nessuno – che il convergere sul Governo delle richieste di numerose categorie professionali (tutte?) sta finendo per assumere la fisionomia di una guerra tra poveri, devo dire, però, che soltanto chi non ha mai messo piede in un’aula di Giustizia – soprattutto, ma non soltanto, civile – può stigmatizzare in maniera negativa una richiesta siffatta; ma mi spiego.

Anzi, per spiegarmi meglio, comincio con un episodio personale. Sono stato giudice dell’esecuzione civile per diciassette anni e, una volta, un mio parente mi telefonò a casa, dicendomi di essersi trovato per motivi suoi nella Pretura di Napoli e di essere passato per il mio ufficio, per salutarmi. «Ma non ti ho visto», concluse. Gli spiegai che, se fosse riuscito a farsi largo tra il nugolo di avvocati (una cinquantina, all’incirca) che affollava la mia aula, avrebbe avuto discrete probabilità di vedermi (ma non di più di tanto).

Questo, per dare un’idea delle condizioni nelle quali si svolgono – e non soltanto a Napoli – le udienze civili, benché quelle penali non siano messe, poi, tanto meglio. Ora, se si considera l’elevato rischio di diffusione del contagio in ambienti particolarmente affollati, che non è detto – come i media ci hanno consentito di apprendere – che le mascherine riducano fino a un massimo del 2 o 3%, non credo che ci sia da strapparsi le vesti se i magistrati – ma anche gli avvocati e tutti gli altri frequentatori più o meno abituali delle aule di Giustizia – invochino che sia loro praticata la vaccinazione. Altrimenti, sarebbe più che giustificato che fossero essi a strapparsi di dosso le toghe.

(Marzo 2021)

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