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ADDIO AL NAZARETH   di Annamaria Riccio   E’ caduta come un fulmine a ciel sereno la notizia che lo storico istituto Nazareth al rientro dalle vacanze...
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Parlanno ‘e poesia Giulio Pacella   di Romano Rizzo   Spesso mi sono chiesto perché la figura di un grande poeta come Giulio Pacella si affaccia...
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La caduta del Forte di Vigliena   di Antonio La Gala   Uno degli episodi militari che portarono alla caduta della Repubblica Partenopea del 1799, fu...
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Miti napoletani di oggi.82 I LUOGHI COMUNI   di Sergio Zazzera   Male intendendo il significato della locuzione, nel cortile di un condominio, nei...
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Campionato di calcio di serie A   di Luigi Rezzuti   Dove eravamo rimasti? Alla 27esima giornata di campionato di serie A, quando la pandemia da...
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Le antiche denominazioni delle strade napoletane   di Antonio La Gala   La toponomastica napoletana nasce formalmente alla fine del Settecento, ma...
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Positano in prosa

 

di Antonio La Gala

 

Le cronache estive si soffermano volentieri su località turistiche, evidenziandone il movimento turistico, le manifestazioni in calendario e altre situazioni d’attualità,

Spesso si tratta di luoghi che anche nel passato hanno richiamato l’attenzione di artisti e letterati di grande sensibilità, i quali ci hanno lasciato le loro impressioni, la loro interpretazione di quei posti, chi in forma di immagini pittoriche, chi in versi, chi in prosa.


Uno di questi luoghi è la costiera amalfitana, in particolare Positano, su cui ci è capitato di rileggere un libricino, edito da Guida nel 2004, sotto il titolo “Positano in prosa”, una raccolta curata da Francesco D’Episcopo.

D'Episcopo, nella prefazione, così anticipa e sintetizza il senso della pubblicazione: “Le pagine positanesi che si sono qui proposte, rispondono alla calcolata casualità di un percorso letterario comune, intrapreso dagli scrittori scelti. Una sorta di passaggio di consegne fra autori diversi, per estrazione e formazione culturale; ciascuno di essi chiamato a rincorrere una propria prospettiva. Eppure, nella diversità è possibile individuare una percezione di fondo comune”.

Fra i prosatori che ci hanno voluto raccontare le loro impressioni sono stati scelti Riccardo Bacchelli, Raffaele La Capria e Carlo Knight.

Riccardo Bacchelli ci racconta la Positano del 1926-27, quando vi mancava l’energia elettrica e l’acqua nelle case, ancora silenziosa, chiusa nella sua acrobatica architettura verticale, eretta a difesa, “per scampare dai barbari longobardi di terra e dai pirati saraceni di mare, con la sua gente che asseconda i silenzi della natura. E’ una città fatta a scale e si va per scale…. I cittadini la fondarono per conservarsi romani, così gli altinati fecero fra le paludi di Venezia, per salvarsi dagli Unni”.

Le impressioni di Bacchelli riportate nel libro, si soffermano, più fugacemente, su Napoli, il percorso lungo il Golfo per arrivare a Sorrento, da qui a Positano e poi oltre Positano, verso Amalfi.

Raffaele La Capria ci racconta i suoi ricordi, a cominciare dal suo primo approccio alla costiera amalfitana: “quel giorno mi apparve come un altro mondo, con caratteri e luci e colori di una sconvolgente e drammatica intensità. Ma quando dopo altre e altre curve e montagne scoscese dirupanti sul mare vidi finalmente le bianche case di Positano sparse come caprette sul verde di un poggio, quando vidi la spiaggia e la chiesa al centro con la cupola scintillante di maioliche a scaglie gialle e blu, mi sembrò tutto accogliente e ridente nel nitore di quel lontano mattino”.

Il terzo autore è Gilbert Clavel, uno dei tanti nordici attratti dalla luce mediterranea. Agli inizi del Novecento venne a Capri per curarsi dalla tubercolosi, ma poi passò a Positano, meno mondana e più tranquilla. Lì acquistò e restaurò, per farne la propria abitazione, quasi come metafora della sua trasformazione esistenziale ed artistica, una torre poggiata su uno scoglio di fronte a Positano, una di quelle torri costruite per avvistare l’arrivo delle navi saracene.

Le impressioni di Clavel, nel libro curato da D’Episcopo, vengono proposte attraverso un espediente letterario escogitato da Carlo Knight, il quale costruisce un racconto di Clavel recitato in prima persona, attraverso brani di lettere e di diari dello stesso Clavel.

A nostro avviso la lettura di questo libro riconcilia il lettore con una Positano più autentica, quella che sta nascosta prima e sotto la Positano che vediamo oggi, quella che oggi ci si presenta come uno dei tanti anelli della catena dei business turistici di massa, del boom di presenze post covid.

(Agosto 2023)

Curiosità etimologiche

 

di Alfredo Imperatore          

 

Alluccà

 

A Napoli c’è questo gioco di parole: “’O Re sta a Pisa (appiso= appeso) e ‘a Regina allucca ancora= il Re è appeso (all’impiccagione) e la Regina grida ancora”.

Alluccare, troncato in alluccà, in napoletano significa gridare. Scrive l’Abate Galiani nel suo famoso (per noi napoletani) “Vocabolario delle parole del dialetto napoletano, che più si scostano dal dialetto toscano, con alcune ricerche etimologiche sulle medesime degli accademici filopadridi” del 1789: <Allucco, grido altissimo, urlo, ululato, onde alluccare, gridar forte con segni di dolore: forse dall’uccello detto Allocco>.

Su tale parola si dilunga il D’Ascoli che così sintetizzo: <Alluccà: gridare, alzare la voce; etimologicamente, da lu(c)cullare= urlare, di origine onomatopeica o da una base luk= bocca aperta; o da buccare= urlare, da cui il napoletano allucco; o dal latino medioevale alucari= lamentarsi>.

Per il de Falco non c’è problema, scartata ogni altra ipotesi, per Lui la voce proviene dal latino adloquor, verbo che significa, tra l’altro, parlare a più persone, rivolgersi a una vasta platea di uditori e quasi comiziale: è risaputo che le arringhe degli antichi avvocati venivano chiamate allocuzioni.

L’allocco (strix aluco)è un uccello molto simile al gufo, però questo ha due ciuffi di penne erettili sul capo ed è generalmente inviso al popolo per l’abitudine di emettere, la notte, grida lugubri e stridenti (perciò porterebbe sfortuna); l’allocco, invece, ha come particolarità quella di avere il capo molto grosso e assumere durante il giorno, anche se disturbato, un’immobilità attonita, la qual cosa ha fatto sì che il termine allocco entrasse nell’uso per designare una persona goffa e sciocca; infatti, in napoletano allocco, che per aferesi di al diventa locco, acquista il significato di stupido, fessacchiotto.

L’allocco è tra i più grandi e aggressivi rapaci notturni, anche il suo canto è alto e stridulo, perciò viene spesso inserito nelle scene dei film di alta tensione. E’ proprio a questa sua specialità vocale che va riferita la radice napoletana della parola alluccà.

Concludiamo ricordando che il termine in epigrafe è diffusissimo nella letteratura napoletana; citiamo da Nicola Capassi autore delle “Alluccate contra li Petrarchista”: <Tanto te allucco ‘nfi ca te sturdisco>. (Tanto ti sgrido fino a stordirti).

E Ferdinando Russo in Sinfonia d’amore: <Ma mo’, sulo e desierto, a casa mia, vaco alluccanno sempre: addò starraje?> (Ma ora, solo come in un deserto, a casa mia, vado gridando sempre: dove starai?).

 

P.S. all(o) è il primo elemento di parole composte, tratto dal greco (alloò) allos= altro, differente, diverso; es. allocazione, allodola, allocco.

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

ELOGIO DI “SE’ STESSO”

 

di Sergio Zazzera

 

Non tema il lettore: non si tratta di un episodio di narcisismo. Non è di me stesso che intendo parlare, bensì della locuzione della lingua italiana, virgolettata nel titolo.


Quello stesso maestro delle elementari, che ho già ricordato a proposito dell’apostrofo alla fine del rigo (marzo 2023), avrebbe sottolineato in blu anche il “sé stesso” scritto con l’accento sul pronome. E non si sarebbe neppure fermato lì, perché si sarebbe affannato a spiegarvi che il rischio di confusione tra il “se” congiunzione e il “sé” pronome non si correrebbe, in questo caso, perché l’aggettivo “stesso” che segue quest’ultimo chiarirebbe le idee a chi legge.

Ebbene, nulla di più errato, per quanto suggestivo; e ricorro a un esempio, con la precisazione che la forma plurale è “sé stessi”. Ma vengo all’esempio: “dico che, se stessi uscendo, dovresti ricordarti di prendere le chiavi”, e qui il “se” è congiunzione. Ora, provate a scrivere il pronome senza l’accento e ditemi se non vi troverete di fronte alla stessa forma grafica, più che idonea a generare confusione.

E, poiché io non sono nessuno, linguisticamente parlando, consentitemi di ricordare che Franco Fochi, che non è l’ultimo arrivato, nel suo L’italiano facile (del 1964, ma continuamente ristampato), dopo avere ritenuta ammissibile la forma non accentata, scrive: «tuttavia consigliamo di conservare l’accento… evitando così l’eccezione e, con essa, la complicazione».

Dunque, per quanto assolto “per insufficienza di prove”, il vostro maestro si metta pure l’anima in pace: “sé” è sempre “sé stesso”, anche nella locuzione “sé stesso”.

(Aprile 2023)

Curiosità

 

di Alfredo Imperatore

 

Tarallo

 Il tarallo è un biscotto a ciambella, cioè di forma circolare con un buco nel mezzo, tipico dell’Italia meridionale, dolce, ma specialmente salato.

Quello salato, io lo definirei un tortano in miniatura, formato, però, solo da farina tipo zero, sugna, sale, pepe con sopra qualche mandorla sgusciata, senza altri ingredienti come salame, formaggio, ciccioli, uova sode ecc., anch’esso attorcigliato come il tortano.

C’è ancora un’altra differenza “sfiziosa”: mentre tarallo attualmente è riportato da tutti i Vocabolari di madrelingua, il tortano, pur essendo di uso comune in tanta parte d’Italia, non è ancora entrato nelle voci dei nostri Dizionari.

Se è facile la manifattura dei taralli, difficile è il ripescaggio della sua etimologia.

L’avv. Renato de Falco, “il maestro di color che sanno il napoletano”, incomincia la sua disamina partendo dall’Abate Galiani che scrive pudicamente: <Tarallo, ciambella, e, in senso osceno ed in gergo, il forello>, prosegue affermando che il discorso rischia di farsi accidentato per rintracciare la sua origine.

Egli scarta il greco  talos = germoglio, contentezza, canestro, che non hanno alcun nesso col nostro biscotto, e il lat. torreo, es, torrui, tortum, torrere= abbrustolire, ciò varrebbe per il torrone, ma non per il nostro tarallo, ed è orientato, sempre al greco, ma a  tornos = che indica un oggetto tortuoso.

Inevitabile, adesso, è il ricordo della canzone Napule ca se ne va (1920) di Ernesto Tagliaferri nei meravigliosi versi: <e figliole, pé sottaviento, mo se fanno ‘na suppetella cu’ ‘e taralle ‘int’all’acque ‘e mare.. >.

Postilla. Se dopo una lite si fa subito pace, si usa dire: è finito tutto a tarallucci e vino.

Codicillo, Ricordiamo come curiosità, che al nostro onorevole e futuro Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, in una delle tante crisi dei governi democristiani, fu proposto di farne uno nuovo e, dato che si era in estate, fu chiamato “Balneare”.

Si racconta che Egli, dopo aver accettato, abbia detto ad alcuni amici: <M’hanno pigliato pa’ ‘a sporta ‘o tarallaro>, per significare qualcosa che è sempre presente in tutte le stagioni.

Nota. La prima attestazionedi tarallo si trova nello Statuto di Ancona, ben cinque secoli prima dell’adozione nella lingua nazionale, come attributo nella loc. pan tarallo a indicare una sorta di galletta, un ritaglio di pane asciutto (Guglielmotti 902). (Nocentini).

(Marzo 2023)

ELOGIO DELL’APOSTROFO ALLA FINE DEL RIGO

 

di Sergio Zazzera

 

Ricorderete, sicuramente, che il vostro maestro delle elementari vi segnava in blu l’apostrofo messo “in fine di rigo”, cosa che – a suo dire – non si sarebbe dovuta fare mai. Ebbene, qualora doveste incontrare quel maestro, siete pregati di segnare in blu (magari, con vernice e pennello) lui stesso.


Partiamo da una considerazione: il “rigo” altro non è, che la trasposizione in grammatica della “retta” della geometria, la quale è, per definizione, infinita: dunque, se il “rigo” – del quaderno o del foglio protocollo – s’interrompe, ciò è dovuto soltanto alla “finitezza” delle dimensioni della pagina, mentre noi dobbiamo immaginarlo nella sua naturale continuità.

Ciò posto, è corretta la collocazione dell’apostrofo alla fine del rigo, come si può vedere, oggi e di solito, negli articoli di giornali e riviste; ed è proprio qui che volevo arrivare. Ancora adesso, ma ancor più quando la stampa richiedeva la composizione a piombo delle pagine, il proto, che s’imbatteva in una sequenza del tipo «alla fine di una / altra giornata» (e qui il simbolo “/” indica la fine del rigo della minuta, scritta dal maestro di cui sopra), qualora nel comporre la pagina si fosse ritrovato quel «una» nel corpo del rigo, l’avrebbe lasciato così, pari pari; con la conseguenza che il lettore si sarebbe trovato, a sua volta, nella condizione di leggere quel testo «col bitume in bocca», per dirla con Claudio Marazzini. E non so a voi, ma a me il sapore del bitume provoca disgusto.

(Marzo 2023)

PROCIDA MARINARA

 

La speranza dell’isola di primeggiare sui mari dell’intero universo nell’edizione riveduta e aggiornata di Procida Marinara, scritto da Sergio Zazzera e pubblicato da Edizioni Fioranna.

 

Come il luccichio delle onde illuminate dalla luna in una sera d’estate, Procida splende più che mai in questo 2022 che la vede Capitale Italiana della Cultura. E brilla, ancor più, voltandosi alle spalle per scrutare uno dei punti cardine della sua cultura: la marineria. Quando è trascorso ormai un quarto di secolo dalla prima edizione di Procida Marinara di Sergio Zazzera (1997, edizioni napolitane de il Sebeto), eccone una nuova, riveduta e aggiornata di questa completa sintesi storica che rivela come le attività marinare hanno costituito, per secoli, la fonte di reddito principale per Procida, la cui flotta ha conteso a lungo il primato a quella della costiera sorrentina. Oggi, invece, quello di Procida marinara è poco più che un mito. La frammentarietà e la dispersione delle notizie che concernono le vicende della marineria procidana, nonché la difficoltà di accesso a molte delle fonti, ne hanno reso non semplice la ricostruzione, che è stata realizzata col ricorso, oltre che a libri, periodici e documenti di varia natura, anche a reperti di cultura materiale e a fonti orali, pur con le ben note difficoltà esegetiche che vi sono connesse.

A quest’opera fu assegnato il premio Penna d’argento nell’edizione del 1998 della Fiera del libro di Procida. Assente dalle librerie ormai da un quarto di secolo, è riproposta nel momento in cui Procida ha assunto il ruolo di Capitale italiana della Cultura, grazie a Sergio Zazzera ed Edizioni Fioranna, casa editrice napoletana sempre attenta ai fenomeni culturali dell’isola. All’interno del volume, durante la narrazione, immagini e documenti storici davvero unici per ricostruire una storia che luccica. Zazzera lo spiega nella premessa: «È un dato di fatto innegabile che – mentre gli ischitani si dedicavano all’agricoltura e i capresi a una forma primordiale di turismo – la storia di Procida sia stata realizzata, in terra, dai sacerdoti e, sul mare, dai naviganti («acqua santa e acqua salata», potrebbe dirsi, parafrasando un modo di dire borbonico), poiché sono queste le classi sociali che hanno, sempre, espresso – e, per lo più, continuano a esprimere – le due maniere di manifestarsi della cultura dell’isola, la più originale delle quali finisce per essere, per ragioni fin troppo scontate, proprio l’ultima di esse. E, se, nella contesa con la costiera sorrentina, Procida fu seconda per consistenza della flotta, viceversa, per dimensioni degli scafi essa primeggiò, indiscutibilmente, laddove, oggi, e da alcuni decenni, ormai, il mito di Procida marinara vive tra l’“imbalsamazione”, per lo più, compiaciuta, del passato e la ricerca – febbrile, quanto vana – di un’identità per il futuro”.

Lo stesso Sergio Zazzera, spiega così la voglia di raccontare Procida marinara: «La marineria costituisce per Procida - rivela l’autore - insieme con la religiosità, popolare e non, e con l’agricoltura, uno dei cardini della cultura locale. Mi è sembrato giusto, dunque, celebrarne i fasti nell’occasione di Procida Capitale italiana della Cultura 2022».

Con lo stesso entusiasmo Anna Fiore, titolare della casa editrice Edizioni Fioranna (www.edizionifioranna.it): «Dal 2008 siamo sempre vicini a tutto ciò che riguarda la cultura di Procida e pubblicare un volume del genere, scritto da una penna autorevole come quella di Sergio Zazzera, per noi è importantissimo. La storia della marineria procidana – spiega Anna Fiore – è uno dei fulcri principali dell’isola. Grazie all’autore abbiamo potuto vedere, toccare documenti storici originali come passaporti o atti di compravendita delle barche. Un vero privilegio. Avere nel nostro catalogo una pubblicazione sulla marineria procidana è per noi motivo di vanto».

(Luglio 2022)

Il forte di Vigliena

 

di Antonio La Gala

 

Nel primo decennio del Settecento, per motivi di difesa, fu costruito sulla costa vesuviana un fortino, con funzione precipua di difesa verso il mare. Fu chiamato Forte di Vigliena, per ricordare il vicerè che ne iniziò la costruzione, il marchese di Villana, l’ultimo vicerè spagnolo di Napoli.

Sorgeva poco più di un chilometro dopo il Ponte della Maddalena, fra il mare e la via che portava alla Reggia di Portici, ed in effetti era la prima ed isolata difesa sul lato orientale della città.

Era una costruzione di forma pentagonale, il cui perimetro sviluppava circa trecento metri di lunghezza. Sul lato verso il mare le mura erano chiuse e ai lati si notavano due bastioni sporgenti: quello rivolto verso Napoli conteneva il deposito delle polveri, l’altro il deposito delle armi; sette cannoni di grosso calibro erano puntati verso il mare.

Al forte si accedeva dal lato verso terra (anch’esso munito di due bastioni) mediante un ponte levatoio su un fossato. Era difeso da quattro cannoni, di diametro più piccolo, e da diverse fucilerie.

“L’arredo interno” del forte era quello classico: corpo di guardia, cammino di ronda, casematte per gli artiglieri, officina, vivanderia, pozzo, alloggiamenti per i militari.

Il forte di Vigliena visse il suo momento di gloria (e di sangue), nel giugno 1799, quando le truppe del cardinale Ruffo, provenienti dalla Calabria, espugnarono Napoli, cacciandone i giacobini della Repubblica Partenopea.

Il forte, ultimo avamposto prima della città, era difeso da 150 rivoluzionari della Legione Calabrese Repubblicana, comandati dal prete calabrese Antonio Toscano.

Allo spuntare dell’alba del 13 giugno fu assaltato dagli uomini di Ruffo. Verso l’una di notte, quando questi già erano penetrati nella roccaforte, saltò in aria la polveriera.

Un fulmineo intenso chiarore squarciò il buio della notte, accompagnato da un fortissimo tuono. Nell’esplosione morirono tutti, vinti e vincitori, affratellati anche nella morte, visto che si trattava, da una parte e dall’altra di combattenti quasi tutti provenienti dalla Calabria.

Gli studiosi non sono concordi se attribuire lo scoppio ad un errore dei difensori che dopo aver minato il forte non fecero in tempo ad uscirne, oppure ad un deliberato gesto del comandante  Toscano, o infine all’infuriare della battaglia.

Non è facile dire veramente come andarono le cose. A qualcuno è sembrata apologetica verso i giacobini la versione di Pietro Colletta secondo la quale il prete Antonio Toscano, comandante della guarnigione, animato dallo spirito degli Eroi delle Termopili o emulo di Pietro Micca, quando si rese conto che il forte era stato conquistato dagli avversari, si trascinò eroicamente, benché gravemente ferito, fino alla polveriera, dandole fuoco, per distruggere i nemici che vi erano penetrati.

Il Re borbonico, restaurato sul trono, provvide a restaurare anche il forte, che nel 1861 passò all’esercito italiano postunitario, con funzione soprattutto logistica per i militari di passaggio verso il resto del Sud.

Ridotto poi in ruderi, nel 1891 i suoi ruderi furono dichiarati “Monumento Nazionale” e recintati.

Nel secondo dopoguerra, seguendo un copione molto diffuso dalle nostre parti, la zona, non vigilata da nessuno, divenne deposito di rifiuti e spazio per catapecchie. Il forte fu cancellato definitivamente, alle soglie dei nostri giorni, dal tradizionale disinteresse per le memorie storiche e dalla non meno tradizionale incuria.

A ricordarlo rimane il molo portuale sistemato negli anni Trenta nei suoi pressi. Chi poi vuole avere un’idea del forte diroccato, può andare a vedere un quadretto dipinto nel 1913, ospitato nel Museo di San Martino.

(Aprile 2022) 

IMMAGINI DI UNA NAPOLETANITA’ D’ALTRI TEMPI

 

di Sergio Zazzera

 

Una malintesa maniera d’intendere la globalizzazione potrebbe indurre a considerare come una caratteristica negativa la Napoletanità: perfino il più recente Raffaele La Capria mostra già di farlo, rinnegando di fatto quella sua originaria, quanto benefica, distinzione fra “napoletanità” e “napoletanitudine”, che pure costituirebbe un utile contributo alla salvaguardia dell’identità napoletana, della quale, poi, guappo e femmeniello, autentici “figli di Partenope”, costituiscono due maniere distinte di atteggiarsi.

Quanto al primo di costoro, Ernesto Murolo cantava, in Napule ca se ne va, «quann’’o guappo era ‘nu rré»; e, infatti, costui incarnava il volto benevolo di un’alternativa alla legalità, propria di altri tempi, atteggiandosi a paciere/giustiziere con una pretesa di rispetto, ch’egli stesso riteneva giusta e che per tale gli era riconosciuta, quasi come una ricompensa, da coloro che ricorrevano alla sua interposizione. È noto, poi, come una virata in senso negativo abbia operato nel senso della cancellazione – meglio, sopraffazione – di questa figura da parte di quella del camorrista.

A sua volta, il femmeniéllo, costituisce l’immagine di una diversità, che l’apertura mentale del popolo napoletano ha sempre accettato e che soltanto la ricerca del “nemico” da proporre al popolo (questa volta, non soltanto napoletano, bensì a quello italiano intero), che il regime fascista si era posta come obiettivo, riuscì a rendere oggetto di persecuzione, determinandone, addirittura, qualche deprecabile strascico anche nell’Italia liberata.

A ricostruire la fisionomia di queste due figure provvede oggi Monica Florio, passando in rassegna tutte le possibili fonti – letterarie, giornalistiche, iconografiche – e offrendo, così, un valido contributo al salvataggio di componenti preziose del patrimonio identitario del popolo napoletano; il quale oggi, più che mai, ne ha enorme bisogno.

MONICA FLORIO, Storie di guappi e femminielli (Napoli, Guida, 2020), pp. 148, €. 15,00.

(Aprile 2022)

IL ROMANZO DELLA FINE DI UN REGNO

 

di Sergio Zazzera

 


Della nutrita comunità svizzera vissuta a Napoli nel secondo periodo della monarchia borbonica (da Ferdinando II in avanti) si conosce davvero poco; eppure, ancora tanti Brinkmann, Gily, Huober – a tacer d’altri – vivono tuttora nella ex-capitale delle Due Sicilie. Un tassello consistente, però, al mosaico di questa storia arriva ora dal romanzo di Elio Capriati, Alla fine di un regno, un titolo che arieggia quello del celebre saggio di Raffaele De Cesare e che annuncia con immediatezza il proposito dell’autore, di narrare gli ultimi momenti della vita del Regno delle Due Sicilie dall’ottica di due fratelli di origine elvetica trapiantati a Napoli.

Ho già osservato altre volte che la storia può essere scritta oppure narrata, e Capriati ha scelto questa seconda via, che sicuramente agevola la diffusione della sua opera presso un pubblico più ampio. Quanto, poi, alla scelta del tema, ho pure osservato in passato che, già sul primo trentennio dell’’800, si affermarono due filoni: quello, cioè, delle vicende di un protagonista-personaggio storico (fra tutti, Marco Visconti, raccontato da Tommaso Grossi) e quello di una storia di gente comune, che si staglia sullo sfondo di avvenimenti storici (fra tutti, I promessi sposi, di Alessandro Manzoni). E qui Capriati si è mosso a metà strada tra i due filoni, affiancando, in primo piano, personaggi reali ad altri di fantasia, con la conseguenza di far emergere i riflessi della politica del momento sulla vita dell’uomo comune.

Quanto ai contenuti, va osservato subito che fin dalle prime pagine traspare la profonda conoscenza del momento storico da parte dell’autore, il quale, poi, dedica nella descrizione un’attenta cura ai particolari e riesce a rendere veramente con poche parole la collocazione spaziotemporale degli avvenimenti.

Da ultimo, il finale della narrazione, sviluppato, in maniera tacitiana, in una sola pagina, si colloca in una posizione intermedia tra Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e Il giorno del giudizio, di Salvatore Satta (non a caso definito “Il Gattopardo dei poveri”): la lettera di Harriet a Josephine, il congedo di Garibaldi dalla città e la partenza di Konrad per Marsiglia lasciano presagire, con buona fondatezza, che per Napoli tutto era cambiato, perché nulla cambiasse. Come, del resto – e purtroppo –, fu.

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ELIO CAPRIATI, Alla fine di un regno (Torino, Robin, 2021), pp. 232, €. 14,00.

(Marzo 2022)

Cento idee per l’albergo dei poveri

 

di Luigi Rezzuti

 


Palazzo Fuga, l’imponente edificio di piazza Carlo III è diventato un palazzo che pullula di vita al suo interno, una vita disordinata e spesso non autorizzata.

Ora il ministro per il Sud, Mara Carfagna e Dario Franceschini, ministro per la Cultura, hanno promesso 100 milioni di euro del Recovery Fund, ottenuto dall’Europa, a seguito della pandemia, a questo gigante che potrebbe trovare tante destinazioni d’uso e forse, finalmente, un restauro definitivo.

Oggi, questo, è un luogo di storie perdute, ma anche ricettacolo di immondizia e allevamento abusivo di pitbull. Un paradosso, nel pieno centro della città.

Il terremoto dell’80 provocò il crollo di alcune sue parti, completandone il disfacimento, come si può agevolmente notare percorrendo la tangenziale, dall’Arenella a Capodimonte e dando un’occhiata al retro dell’Albergo dei Poveri, completamente privo del tetto.

Nel primo decennio del 2000 venne realizzato un restauro parziale, fra polemiche e critiche.

Non sono mancate proposte da autorevoli studiosi, né progetti, ma le amministrazioni sono state sorde.

Filippo Patroni Griffi, ex ministro e presidente del Consiglio di Stato, anticipò lo scorso anno, quanto oggi raccolto da Carfagna: “Serve il concorso di tutti, dal ministro dei Beni culturali a quello del Sud, alla Regione, di quanti hanno a cuore le sorti della nostra città, deve essere un restauro complessivo del palazzo, ma prima ancora serve sapere che farne”.

Lo storico dell’arte e dell’architettura, Cesare de Seta, riprendendo un’idea già da lui lanciata, aveva sottolineato la caratteristica della divisione in spazi dell’Albergo dei Poveri.

Ora, a causa della pandemia, quei corridoi nettamente isolati e all’aperto, si rivelerebbero di grande utilità funzionale e architettonica. Restaurarlo non è mai stato urgente, per i nostri politici, eppure quest’architettura unica, in rovina da molti decenni, suona vergogna per la classe dirigente della città. E tuttavua, nonostante tutto, conserva intatta la sua identità architettonica.

Il restauro della struttura non può condursi pezzo per pezzo, ma deve essere chiara la visione dell’insieme e la destinazione d’uso.

La sua bellezza si è smarrita persino nella facciata, che oggi risulta di un bianco anonimo e provvisorio, mentre era bicroma: bianca e rosa.

Una così immensa costruzione potrà e dovrà avere un uso polifunzionale.

Uno stanziamento di 100 milioni di euro è una cifra di cui tener conto per un monumento del genere. Non vorremmo che questa occasione si sprecasse, come è accaduto a Napoli più volte.

È il momento di immaginare una città diversa.

“Cento idee per l’Albergo dei Poveri” Si articola complessivamente intorno a tre indirizzi:

1- sede museale per valorizzare la storia e la cultura del territorio e le tante opere che non trovano ospitalità nelle gallerie attualmente esistenti e factory della cultura sul modello del “Lincoln Center” di New York.

2– finalità socio-assistenziali per il supporto a senza fissa dimora, minori, anziani, immigrati e ad associazioni ed enti del Terzo Settore, che mirano a questi scopi.

3– realtà giovanile attraverso percorsi di istruzione e formazione, ostello per studenti e turisti, spazi di co-working e incubatore di start-up.

Non sono mancate nemmeno proposte di riqualificazione dell’area all’aperto della struttura e suggerimenti per dar vita ad un parco pubblico attrezzato e collegato al vicino Orto Botanico, nonchè indicazioni ad ospitare all’interno di Palazzo Fuga alcuni uffici pubblici di istituzioni locali, nazionali e comunitarie.

Secondo le previsioni la ristrutturazione dovrebbe avere termine nel 2026.

A tal proposito è intervenuto il Sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, dichiarando: “Tra pochi giorni firmeremo l’accordo con i ministeri della Cultura e del Sud per la realizzazione del progetto di valorizzazione dell’Albergo dei Poveri. Palazzo Fuga è una delle grandi opportunità non utilizzate della città, un palazzo che è esso stesso un palazzo-città, per il quale c’è già un investimento nel Pnrr per il programma di valorizzazione, non solo di Palazzo Fuga, ma anche di  piazza Carlo III, che è uno snodo importante legato ai nuovi progetti sui trasporti della città. È  uno dei pezzi di rivalutazione e di trasformazione urbana di cui i cittadini sentono un grande bisogno e soprattutto gli abitanti di questa parte della città. Questa è una bella sfida che abbiamo davanti e a cui daremo delle risposte”.

(Febbraio 2022)

VOMMERO SULITARIO

 


E’ in libreria il volume Vommero Sulitario, del quale è autore il nostro capo servizio Sergio Zazzera; qui di seguito ne pubblichiamo la scheda editoriale:

La possibilità di accesso a una ricca messe di documenti, quasi tutti inediti, ha consentito la ricostru­zione di una serie di “storie”, più che di una storia organica del Vomero, il famoso “Quartiere dei broccoli”, che spaziano dal secolo XVI fino al XIX. A questi episodi se ne affiancano altri, documen­tati da scritti per lo più introvabili e da vecchi articoli di giornale, sconosciuti o dimenticati, che spo­stano la narrazione, sia all’indietro, che in avanti, dall’età romana, fin quasi al giorno d’oggi. Si tratta di vicende che hanno per protagonisti nobili, ecclesiastici, artisti, letterati, ma anche gente comune, e finanche criminali, e per teatro località, edifici, angoli della collina; vicende che, lette nel loro insieme, consentono di formarsi un’idea dei mutamenti subiti nel tempo dal quartiere e dalla sua popolazione e, nello stesso tempo, tentano di correggere inesattezze divenute, purtroppo, tralaticie.

(Dicembre 2021)

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