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Miti napoletani di oggi.88 IL CARRO-ATTREZZI   di Sergio Zazzera   Nato per gl’interventi di soccorso stradale (anche chi scrive queste righe ha...
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Ricordi di Napoli di Giustino Fortunato   di Antonio La Gala   Giustino Fortunato, poco più che ventenne, volle scoprire personalmente alcuni dei...
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Il forte di Vigliena   di Antonio La Gala   Nel primo decennio del Settecento, per motivi di difesa, fu costruito sulla costa vesuviana un fortino,...
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IMMAGINI DI UNA NAPOLETANITA’ D’ALTRI TEMPI   di Sergio Zazzera   Una malintesa maniera d’intendere la globalizzazione potrebbe indurre a...
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CALCIOMERCATO DI SERIE A - SESSIONE INVERNALE   di Luigi Rezzuti   Il calciomercato invernale è iniziato ufficialmente il 2 gennaio 2023. A partire da...
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Una dinastia di pittori: i Pratella   di Antonio La Gala     Nel mondo della pittura è frequente il caso in cui in una stessa famiglia si contano...
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Vincenzo Irolli: arte o commercio?   di Antonio La Gala   Vincenzo Irolli (Napoli,1860 - 1949), scoprì la passione per l'arte a diciassette anni,...
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E' IL TEATRO, BELLEZZA!       (Maggio 2022)
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Chiesa della Madonna del Buon Consiglio di via Girolamo Santacroce

 

di Antonio La Gala

 

La Chiesa parrocchiale della Madonna del Buon Consiglio sorge nella curva che si trova pressoché a metà di via Girolamo Santacroce, inserita, da un lato, fra disordinate salite che portano a labirinti di condominii e il Parco Viviani dall’altro lato.

Fu edificata dai Padri Agostiniani a partire dal 1952, e aperta al culto nel 1954, l’anno della proclamazione dell’anno Mariano.

Il culto della Madonna del Buon Consiglio a Napoli è piuttosto diffuso, come dimostra che questo titolo compare in sette parrocchie della Diocesi. Un’altra chiesa in collina con questo titolo la troviamo a Piazza Canneto. È un culto che risale a secoli fa, e parte da un dipinto che raffigurava la Vergine, che per vie miracolose dall’Albania giunse in Italia, dove gli Agostiniani ne diffusero il culto.

Le origini della chiesa si allacciano all’acquisto fatto nel 1882-83 dall’Ordine Agostiniano della villetta del duca di Sassinoro sperduta nel verde della campagna, a cui si accedeva da una scalinata, rimasta uguale fino ai giorni nostri, chiamata “gradini Sassinoro” o anche “via Cupa vecchia a Sassinoro”, che inizia da corso Vittorio Emanuele e sbuca fra alcuni condominii che danno su via Girolamo Santacroce.

In un solo anno i Padri Agostiniani ingrandirono la villa, allora chiamata “Villa Neno Driscoll”, posero un’edicola sacra all’ingresso dedicata alla Vergine, ne fecero una casa religiosa che dedicarono alla Madonna del Buon Consiglio, sede di noviziato, e costruirono una chiesetta, anch’essa dedicata alla Madonna del Buon Consiglio.

Nel 1936 un agostiniano così descriveva il convento di salita Sassinoro: “Da questo convento si domina tutta la città. Mare, cielo, terra, tutto immerso nella splendida luce, e un’aria purissima, olezzante di profumi che ristora e ricrea. In mezzo ad un campo coltivato ad agrumi sorge la nostra chiesa [non quella attuale n.d.r.], d’intorno tralci di vite pendono a foggia di festoni dagli alberi”.

Negli anni Trenta del Novecento, quando nacque via Girolamo Santacroce e attorno a questa strada si sviluppò urbanisticamente la zona, cominciò ad essere richiesta l’edificazione di una chiesa; quando poi si sviluppò l’ulteriore crescita del dopoguerra, l’apertura di un nuovo tempio divenne improrogabile. Furono gli Agostiniani ad aprirla nel loro territorio, quella di cui qui stiamo parlando, vendendo nel contempo, nel 1950, parte del restante territorio a un’impresa edilizia che l’utilizzò per realizzare condominii.

A ridosso della vecchia casa dei marchesi di Sassinoro, l’ex villa Driscoll, costruirono l’attuale Chiesa della Madonna del Buon Consiglio, aperta al culto a Pasqua 1954, e divenuta parrocchia nel 1955.

La chiesa è un edificio “d’autore”, essendo stata progettata da Ferdinando Chiaromonte nel 1952, mentre stava sorgendo il confinante parco residenziale di via Santacroce 19 progettato dallo stesso Chiaromonte.

L’esterno, rivestito di travertino, presenta forme elementari, prive di decorazioni. L’interno custodiva sull’altare un’immagine della Madonna del Buon Consiglio dipinta nel Settecento, venerata nel convento agostiniano di San Carlo alle Mortelle. Quando nel 1866 il convento fu soppresso, il padre Vicario dell’Ordine la portò con sé. Custodita per 20 anni, fu poi esposta alla venerazione nel 1885 nella chiesetta costruita ai gradini Sassinoro. Nel 2004 l’immagine fu rubata dalla nuova chiesa, sostituita da una copia.

La cappella del fonte battesimale è ornata da un Crocefisso dell’Ottocento. Numerose le statue devozionali dell’arredo sacro interno, fra cui quella di Sant’Agostino.

(Novembre 2023)

I Gesuiti a Napoli

 

di Antonio La Gala

 

I Gesuiti dopo il 1767 ebbero una vita difficile in Europa, dopo che molti stati europei iniziarono a sopprimere il loro Ordine.

A Napoli a espellere la Compagnia di Gesù ci pensò Bernardo Tanucci, a novembre 1767, dopo analogo provvedimento adottato da Spagna e Portogallo. Uno dei motivi principali della soppressione di Tanucci era l’incameramento dell’enorme potere economico raggiunto dai Gesuiti da quando, a metà Cinquecento, erano venuti a Napoli.

Riammessi nel 1804, ne furono nuovamente espulsi nel 1806 dal governo francese. Rientrati dopo la caduta di Napoleone, furono di nuovo dispersi dalla venuta di Garibaldi, per rientrare definitivamente nel 1900.

Uno dei compiti principali dell’Ordine era l’istruzione delle classi dirigenti.

A tale scopo a Napoli nel 1552 fondarono il Collegio Napoletano, che offriva un servizio scolastico gratuito di buon livello. Due anni dopo il Collegio si stabilì nei locali dell’ex Palazzo Carafa in via Paladino, assumendo la denominazione e la funzione di Collegio Massimo, cioè scuola di rango universitario. Nella risistemazione degli edifici in quell’area, con abbattimenti e ricostruzioni, sorse il vasto complesso attorno al Cortile del Salvatore che ancora oggi, dopo secoli, conserva l’antica funzione d’istruzione nell’ambito dell’Università Federico II.

A Napoli, alla fondazione del Collegio Massimo seguì la fondazione della Casa Professa, del Noviziato e di quattro Collegi.

Le Case Professe erano comunità di Gesuiti che avevano come missione l’apostolato sacerdotale (predicazione, confessioni, ecc.).

Quella napoletana nacque nel 1579 con sede provvisoria in via San Biagio dei Librai; nel 1584 si trasferì nel Palazzo Sanseverino, che i Gesuiti acquistarono e trasformarono nella Chiesa del Gesù Nuovo. Attualmente una parte dell’antica Casa Professa ospita una scuola (la Pimental Fonseca) e il resto è utilizzato dai Gesuiti per le loro attività, fra cui la biblioteca.

Il Noviziato era un seminario per gli aspiranti Gesuiti istituito nel 1587 nei locali oggi occupati dalla scuola militare Nunziatella.

I Collegi aperti a Napoli nel Seicento (dopo il Collegio Massimo del Cinquecento), furono quattro.

Uno dei quattro Collegi, il Collegio dei Nobili, fondato da un marchese nel 1626 per la formazione di giovani aristocratici, che ne affidò la direzione fin dall’inizio ai Gesuiti, che lo gestirono fino al 1767. Aveva sede in via Nilo, oggi parte degli edifici universitari di via Mezzocannone.

L’immagine che accompagna questo articolo presenta il “Cortile del Salvatore”.

(Ottobre 2023)

Porta Reale, una porta girovaga

 

di Antonio La Gala

 

In via Toledo, sulla facciata di palazzo De Rosa, ad angolo con via Cisterna dell’Olio, sono apposte due lapidi. Una di esse ci ricorda che da quelle parti esisteva una porta d’ingresso alla città inserita nella cinta difensiva muraria realizzata nel Cinquecento da don Pedro, appunto, de Toledo.

Era una porta sobria, non decorata, ma recante sul fornice lo stemma di Carlo V, un’aquila a due teste, simbolo che ritroviamo sulla facciata di Castel Capuano e sull’ingresso del castello di sant’Elmo.

L’ubicazione vicino a palazzo De Rosa era l’ultima posizione di una porta che nei secoli “è andata camminando” per Napoli, assecondando l’allungamento del decumano inferiore verso est.

Infatti la sua antenata più antica era la greco-romana Porta Cumana, che si trovava dalle parti di S. Domenico Maggiore, ed era il “capolinea” della strada che collegava Neapolis con Pozzuoli, con l’area flegrea e Cuma. 

Nella seconda metà del Duecento gli Angioini, nel sistemare la zona dell’allora costruenda santa Chiara, di fatto determinarono un allungamento del decumano inferiore (via Capitelli), e una crescita d’importanza della strada, che si è andata poi arricchendo di conventi, fra cui primeggia quello di S. Chiara, e di palazzi di potenti personaggi. 

In conseguenza di questa variazione la Porta Cumana fu spostata in un punto non meglio precisato fra l’attuale piazza del Gesù Nuovo e palazzo Maddaloni, cambiandole il nome in Porta Reale.

In età vicereale, nel 1537, a seguito della costruzione di via Toledo, la porta fu spostata ancora, dove troviamo la lapide, con il nome di Porta Reale Nuova. Poiché stava nelle vicinanze (come ci ricorda la toponomastica), delle cisterne per la conservazione dell’olio, veniva anche chiamata Porta dell’Olio. Stava però anche vicino alla chiesa dello Spirito Santo, e perciò era detta pure Porta dello Spirito Santo.

Con l’intensificarsi del traffico la porta cominciò ad essere di grave intralcio “troppo angusta e presso che deforme; e soprattutto incapace del continuo passaggio delle carrozze, de’ carri e delle some, il che dava origine a scandalosi disordini derivanti dalla strettezza dell’uscita e dalla sfrenata licenza della plebe”.

Nel 1775 fu abbattuta. Dopo quaranta giorni ininterrotti di intenso lavoro (bisognava far fuori anche le costruzioni che le erano cresciute attorno), la via Toledo fu riaperta il 29 maggio in occasione di una corsa di cavalli.

La statua di San Gaetano che la sormontava fu spostata sulla vicina e più nuova Portalba, dove oggi continuiamo a vederla.

L’immagine che accompagna questo articolo mostra la Porta Reale vista da Micco Spadaro nel 1656.

(Giugno 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti) 

Parlanno ‘e poesia

Giulio Pacella

 

di Romano Rizzo

 

Spesso mi sono chiesto perché la figura di un grande poeta come Giulio Pacella si affaccia ancora oggi alla mia mente. Talvolta a me pare quasi di vederlo ancora mentre, con pazienza, attende che venga il suo turno per declamare una delle sue tante belle poesie, sempre impregnate di umanità e così ricche di contenuto.

Un giorno, all’improvviso, ho finalmente compreso che, forse, mi sentivo ancora in debito con lui, per non avergli mai esternato in privato, così come avevo fatto con altri amici, la stima e l’ammirazione che provavo da tempo nei suoi confronti. Probabilmente non lo avevo mai fatto perché la sua figura, sempre seria e distaccata, mi incuteva spesso un po’ di soggezione o tutto era dipeso soltanto dalla mia innata timidezza.

Ho immaginato che anche lui fosse un po’ timido o che quantomeno non apprezzasse per nulla le consorterie. Ricordo solo che, a volte, incontrando degli amici, confidenzialmente lanciava degli strali contro quelli che amavano frequentare dei salotti.

Era un uomo tutto di un pezzo, un po’ all’antica ed io ero, all’epoca, un giocherellone che amava molto verseggiare su temi che raccogliessero il favore dei convenuti di cui godevo i facili consensi.

Giulio, no, era un vero poeta e, in quanto tale, era un po’ geloso delle sue creature dalle quali si separava a fatica vincendo un certo imbarazzo.

Invidiavo a lui il fatto che potesse godere dello incondizionato appoggio dei suoi (la delicata e sensibilissima Ida e il suo impagabile rampollo Giovanni), mentre io ero costretto a remare da solo e…controcorrente! Giulio è sempre stato un autentico grande poeta che rifuggiva da tutto ciò che sapeva di folklore e da sdilinquiti rigurgiti romantici, ma rivestiva di scintillante poesia tutto quello che aveva osservato e amava raccontare.

In tutte le sue composizioni non vi è mai una sia pur pallida traccia di imitazione dei classici, ma, al contrario, c’è chiaramente espressa la volontà di fare qualcosa di nuovo, di dare una veste più moderna ed attuale alla poesia.

Della nostra poesia di cui è stato maestro e innovatore, dovrebbe essere considerato colui che ha dato una veste moderna ed un carattere di “verismo” alle nostre liriche.

Con grande amabilità, inoltre, ci ha regalato spesso in chiusura delle sue gradevolissime composizioni un piacevolissimo assaggio di bonomia, saggezza, napoletanità e di quella ironia che traspariva a volte dal suo eterno sorriso, bonario e sarcastico insieme. Con le sue poesie ha trattato i temi più vari e, quando ha indugiato a descrivere la bellezza di alcuni paesaggi, ha rivelato il suo grande amore per la pittura. La sua poesia è caratterizzata sempre da un felicissimo connubio tra la freschezza del contenuto e la pregevolezza della forma che si avvale di una grande espressività ed è capace di conquistare l’animo del lettore rendendolo partecipe di quell’immenso piacere che può dare solamente qualche grande composizione.

A mio parere, tutta la sua opera andrebbe con cura valutata dalla critica specializzata e collocata, quindi, tra quelle che hanno dato lustro al nostro linguaggio ed al modo di essere di noi napoletani.

E’ stato non solo un grande poeta ma anche un grande innovatore che ha tracciato una nuova strada alla nostra poesia rendendola più vicina al mondo di oggi ma senza perdere la puntigliosa precisione ed accuratezza dei grandi classici.

 

*   *   *

Realtà e poesia

 

Si vuò cuntà cchiù stelle int’’a nuttata

o vuò sentì ll’addore d’erba ‘e mare,

si pienze a na figliola nnammurata

nun t’abbaglià cu ‘a luce d’’e llampare,

.

nun sta’ a sentere ‘o rimmo dint’a ll’onne,

nun te ncantà cu ‘a voce ‘e na sirena

pecchè sti ccose belle nun so’ suonne

o ‘nvenzione ‘e puete ‘e bona vena

.

ca, si sta grazia ‘e Dio nun fosse niente,

si fosse surtanto smania e poesia,

ll’acqua ‘e surgente se farrìa vullente,

.

‘a luna a ll’intrasatta s’addurmesse

e, senza ll’illusione e ‘a fantasia,

‘o calore d’’o sole nun scarfasse !!

 

*   *   *

 

’A musica è cagnata!

 

Me piace ‘e tratteggià cchiù de na cosa

si piglio ‘a penna ‘mmano pe sbarià ;

me piace ‘e ve cuntà na nuvità

e..nun ‘e parlà sempe ‘e terra ‘nfosa !

.

Me piace ‘e cuntà ‘e fatte d’ogne ghiuorno,

‘e Napule ca se ngegna n’ata vesta,

n’appicceco, na femmena, na festa

o ‘e cunfessà na pena senza scuorno.

.

Nun c’è pueta ncopp’a chesta terra

ca nun ha suspirato sott’â luna

pure si ne pateva famme e guerra!

.

Ma mo è ‘o mumento pe cagnà mutivo,

scurdammoce d’’o mare e de na bruna

pecchè spisso…se canta...pe currivo !!

 

*   *   *

 

‘O ppane

 

 

So’ gocce d’oro chist’acene ‘e grano,

prete prezziose ammullate ‘e sudore

e, quanno d’’o ppane sente ‘addore

è allero ‘o parulano nzieme ô luciano!

.

Addunucchiate, si ‘e spiche so’ cchiene,

vasano ‘a terra ca ll’ha generate;

buriose e ttèseche stanno chell’ate,

chelli vacante pecchè nun so’ prène!

.

Ténnero è’o ppane pe chi s’’o ffatica,

pàsteno ‘o ggrano spaccannese ‘e mmane,

pure cu ‘a pioggia ca spisso è nemica.

.

Nun c’è ricchezza ca le po’ sta’ a pparo,

nun c’è na cosa cchiù sana d’’o ppane

ca, mmiez’ô bbene...è ‘o bene cchiù caro!

 

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

Miti napoletani di oggi.96

IL TEATRO SAN CARLO

 

di Sergio Zazzera

 


So già che più di qualcuno si starà domandando come possa costituire un mito il teatro lirico più antico – e tuttora uno tra i più prestigiosi – del mondo. Chiarisco subito, perciò, che il mito non è costituito dal teatro in sé, bensì da un coacervo di situazioni, sostanzialmente concomitanti, che in questi ultimi tempi si stanno manifestando intorno a esso.

a) Il passaggio dalla gestione Purchia alla gestione Lissner aveva lasciato sperare in una risalita qualitativa dell’istituzione. Poi, però, la pandemia appena conclusasi ne aveva fatto sospendere le attività, riprese in tempi recentissimi, ma nel teatro Politeama e con l’esecuzione delle opere liriche in forma di concerto, poiché, nel frattempo, nel San Carlo era in corso un’operazione di maquillage. Quesito: passi lo spostamento di sede, ma perché non rappresentare le opere in forma scenica?

b) Un decreto legge ad personam invia in quiescenza il soprintendente Lissner, per evidenti motivi politici, proprio quando, cessata la pandemia, egli avrebbe potuto dimostrare di poter realizzare anche a Napoli ciò che aveva realizzato a Parigi (leggi: messa in scena delle opere nel teatro a lui affidato). Quesito: è mai possibile che il nazionalismo (se non anche altro) debba prevalere sulla qualità?

c) La Regione Campania, che da più di un po’ di tempo va dirottando i fondi destinati alla musica c.d. “seria” dal napoletano teatro San Carlo al salernitano teatro Verdi (guarda un po’…), vota contro il bilancio del lirico napoletano (guarda un altro po’…), che, tuttavia, è salvo, grazie al voto favorevole di tutti gli altri componenti del consiglio di amministrazione. Quesito: possibile che sulla qualità debba prevalere, addirittura, anche un regionalismo campanilistico?

Conclusione, ovvero il mito: mentre il Governo compie un passo indietro, rispetto, addirittura, alle XII Tavole che, già alla metà del V secolo a. C., ammonivano: Privilegia ne inroganto, la Regione, dal canto suo, o sottovaluta una istituzione, o ne sopravvaluta un’altra; e – ciò ch’è peggio – l’uno e l’altra pensano che chi è dotato di cervello (correttamente funzionante, s’intende) possa apprezzare in maniera positiva le loro rispettive iniziative.

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

L’incendio tedesco dell’Archivio di Stato di Napoli nel 1943

 

di Antonio La Gala

 

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 i Tedeschi di stanza a Napoli cominciarono a trattare subito la città come una città occupata nemica, distruggendo, saccheggiando, terrorizzando la popolazione inerme con brutalità spietata, secondo il loro celebre copione in materia.

I Tedeschi sapevano che davanti all’avanzata anglo-americana avrebbero dovuto lasciare la città, ma decisero di fargliela trovare distrutta, dopo averla razziata di tutte le risorse, materiali ed umane, alcune da trasferire in Germania. Aiutati e guidati da fascisti locali, ricomparsi dopo essere cautamente scomparsi il 25 luglio, distrussero le attrezzature industriali di S. Giovanni a Teduccio e Bagnoli, quelle portuali e ferroviarie, cabine elettriche, acquedotto, gasometro, banche, edifici pubblici, alberghi; saccheggiarono depositi, rimesse, asportando tutto ciò che potesse essere loro utile.

A dimostrazione della barbarie che li animava, i nazisti non si limitavano a distruggere per finalità belliche, ma anche a titolo di pura gratuità.

Fra le innumerevoli gratuite nefandezze ce ne fu una che colpì gravemente il patrimonio culturale di Napoli e lasciò sgomento il mondo degli studiosi: l’incendio dell’Archivio di Stato.

Nei mesi precedenti, nel marzo 1943, per l’esplosione di una nave nel porto, alcuni spezzoni incendiari avevano sfondato il tetto dell’Archivio di Stato, ospitato dal 1835 nell’ex convento dei Santi Severino e Sossio, bruciando alcuni atti del debito pubblico borbonico. Dopo questo episodio i responsabili dell’Archivio ritennero opportuno trasferire il prezioso contenuto dell’Archivio in un luogo lontano dalla città, che si presumeva non preso di mira dal nemico, scegliendo la Villa Montesano in prossimità di San Paolo Belsito.

Così 866 casse, molte balle, pacchi e pacchetti, presero la via di questa nuova sede, per esservi conservati “al sicuro”.

Ma la scelta non fu felice.

Infatti il 30 settembre i Tedeschi, nel quadro di una rappresaglia verso i contadini del posto, responsabili della morte di un loro commilitone nel difendere derrate e bestiame dalle razzie tedesche, si presentarono armi in pugno a Villa Montesano e, vincendo con estrema facilità la resistenza e le suppliche dell’esiguo personale di custodia, dettero fuoco ai documenti dell’Archivio. La loro barbarie ridusse in cenere, in pochi minuti, secoli di storia.

Tra gli intellettuali addolorati per questa perdita, Benedetto Croce e Fausto Nicolini non riuscivano a farsene una ragione..

Fra le collezioni più importanti incendiate c’erano i circa 500 volumi della Cancelleria angioina, sopravvissuti alle distruzioni fatte dai napoletani stessi nel corso delle frequenti sommosse popolari dei secoli precedenti.

I documenti angioini erano indispensabili per la conoscenza degli atti di governo e amministrativi di quella dinastia, dal 1265 al 1442, e, per estensione, per la conoscenza della storia europea di quel periodo.

Andarono distrutti anche atti della Cancelleria del periodo Aragonese e parte della corrispondenza intercorsa fra uomini di Stato, dal Cinquecento al Settecento.

I documenti angioini, per fortuna, erano stati oggetto di studio fin dal Cinquecento e quindi erano stati trascritti per intero oppure riassunti in numerosi studi, sparpagliati in tutta Europa, consultando i quali è stato possibile, negli anni successivi all’incendio del 1943, ricostruirne in parte il contenuto, grazie soprattutto alle iniziative del Sovrintendente dell’Archivio di Stato dell’epoca, Riccardo Filangieri.

A partire dal 1949 fu così possibile pubblicare progressivamente in volumi il materiale recuperato dei registri della cancelleria angioina, riparando in parte al danno prodotto dal barbaro atto del barbaro occupante del 1943.

(Maggio 2023)

Il poeta del giorno

 

di Romano Rizzo

 

Antonino Alonge (Palermo, 20 Settembre 1871 - Milano, 13 Agosto 1958)

Poeta e giornalista, visse fin da bambino a Napoli ed anche quando dovette trasferirsi portò questa città sempre nel cuore.

Collaborò al don Marzio, al Mattino, al Giornale di Sicilia, a l’Ora, alla Gazzetta dell’Emilia e al Corriere della Sera.

Pubblicò, nel 1888, a soli 17 anni, Cusarelle, cui seguirono Pennellate napoletane, nel 1934, e Aria di Napoli, con la prefazione di Benedetto Croce, nel 1952.

I suoi versi ricevettero le “ambitissime lodi” di Ferdinando Russo e Roberto Bracco.

Di seguito, un breve saggio della sua produzione.

 

‘A sciuliarella

::::::::::::::::::::

 Quanno i’ passo mmiez’â ggente

comme fosse nu stunato

che nun vede e che nun sente

chi sa quante hanno penzato

che so’ n’ommo scumbinato,

anze peggio, n’ommo ‘e niente.

.

Ma nisciuno ha ‘nduvinato

ca è tristezza sulamente;

so’ ‘e ricorde d’’o ppassato

che avvelenano ‘o ppresente

e s’affollano ‘int’â mente

nu penziero appriesso a n’ato…

.

Tutt’’e ccose malamente

che aggio visto e aggio pruvato,

tutte ‘e ‘nfamità d’’a ggente,

tutte ‘e guaje che aggio passato !

I’..so’ n’ommo amariggiato

e nun già distratto ‘e mente..

 

Si’, però nun dico niente ;

che aggi’’a ddì? me so’ seccato!

cerco ‘e fà ll’indifferente,

ma nun è che so’ cagnato :

è ‘o vveleno d’’o passato,

è ‘a tristezza d’’o presente..!!

(Aprile 2023)

LESSICO FAMILIARE

 

di Luigi Rezzuti

 

Come lo prendete voi il caffè? Amaro? Zuccherato? Io amaro.

Vi assicuro però che un po' di zucchero lo gradirei. Ma è per via del lessico familiare, si quella cosa del personalissimo slang che ogni nucleo domestico si inventa e che va benissimo se speso tra le pareti di casa. Il problema è se esce fuori.

Mio padre si riferiva al bicchiere (anzi, mezzo bicchiere) di vino che beveva a pranzo definendolo sempre “un goccio” o anche “un goccetto”. E fin qui tutto ok. Era col caffè il problema: la consueta tazza di caffè l’aveva trasformata in “una lacrima di caffè” con “un’ombra di zucchero”.

Noi non solo eravamo abituati a queste sue espressioni ma presto le facemmo nostre.

Una volta ricordo che mio zio venne a trovare la sorella maggiore e come di formula consueta le chiese come stesse.

Mia mamma godeva di una salute invidiabile ma aveva questa ipocondria scaramantica di iniziare alla fatidica domanda un elenco infinito di acciacchi: “la schiena fa male e poi ho un dolorino allo sterno che mi preoccupa e l’artrosi cervicale che non mi fa dormire e poi lo stomaco…ah…ma non ti ho offerto niente?”. “Vuoi una lacrima di caffè?” E mio zio seriamente preoccupato per le precarie condizioni della sorella e già quasi lui con le lacrime agli occhi: “si, solo una lacrima però” pensando che in quel luogo di malanni e dolori una lacrima di qualsivoglia bevanda fosse l’unica possibile forma di ristoro.

Ma il problema diventava serio se quelle espressioni a noi consuete venivano esportatale fuori. Ho ancora perfettamente in mente la volta in cui a un bar con amici alla richiesta di cosa ciascuno volesse da bere mi venne spontaneo: “io una lacrima di caffè con un’ombra di zucchero”. Tutti, anche quel maleducato del barista, cominciarono a ridere e a fare scontate e interminabili battutine sulla mia richiesta.

Risultato. Il caffè lo prendo amaro onde evitare involontari esilaranti automatismi linguistici.

E questo è niente. Prima o poi vi racconterò della mia (dis)avventura con lo champagne…

(Marzo 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

 “Il broccolo”

 

di Antonio La Gala

 

Testimonianze della vita artistica e letteraria napoletana a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta ci vengono fornite da un periodico che visse nel 1949 con il titolo “Il broccolo” e poi, nel 1950, con il titolo di “Belvedere”.

Il primo numero del periodico uscì il 12 febbraio 1949, con il sottotitolo “settimanale letterario umoristico”, sotto forma di foglio in quattro facciate di grande formato, del costo di lire 20, con uscita il sabato.

I fondatori furono l’Avv. Ugo Ragni (direttore responsabile), il commercialista Guido del Gaudio (direttore amministrativo) e i funzionari di banca Luigi (Gino) Apa ed Alessandro Zazzera (padre di Sergio Zazzera, magistrato, autore di pregevoli pubblicazioni di natura storico-culturale e attuale direttore del web magazine “Il revocatore”). I disegni erano firmati GIN (Gino Apa).

Le direzioni e la redazione erano in Via Tino da Camaino 13, e il foglio era stampato dalla tipografia del Dott. Dino Amodio, in Via Pignatelli a San Giovanni Maggiore 48.

Nella testata un disegno schematico raffigurava un broccolo dietro il quale s’intravedeva la sagoma di Castel Sant’Elmo e della Certosa di San Martino.

Come è noto la collina del Vomero in passato era nota per le sue estesissime coltivazioni di broccoli, ed i suoi abitanti venivano indicati spesso con il soprannome di “pier’’e vruoccole”.

Nell’articolo di fondo del primo numero, a firma di Ragni, veniva dichiarata l’intenzione di continuare l’opera a favore della cultura e della vita vomerese svolta fino a pochi anni addietro da Edoardo Ceci attraverso il “Corriere” delle colline.

In effetti nei primi numeri comparvero molti articoli che avevano per oggetto uomini e cose del Vomero, ma con il passare dei mesi il periodico assunse sempre di più le caratteristiche di una pubblicazione artistico-letteraria riguardante tutta Napoli, senza più alcuna preferenza per il Vomero.

Nel 1950 il periodico cambiò testata: il 7 gennaio 1950, con il sottotitolo “settimanale napoletano artistico letterario” uscì la testata “Belvedere”, che è da considerare la continuazione del “Broccolo”, visto che il primo numero portava l’indicazione “anno II n.1” e che i direttori, redattori sede e tipografia erano gli stessi, e che il giornale conservava lo stesso formato e lo stesso prezzo.

Il numero 2 uscì solo il 13 maggio, con una leggera modifica nella testata, da cui scomparve il sottotitolo.

Inoltre dal n.2 il Direttore responsabile diventò Mario Perrone, la redazione si spostò in via Ugo Niutta 25, la tipografia era quella del cav. Franco Severini, in via Tribunali 132. A luglio subentrò la tipografia “AA & F.Cicero”, al prolungamento di via Scarlatti (oggi via Cilea), n. 214.

Fra le firme apparse sul Broccolo-Belvedere ricordiamo quelle di Vittorio Paliotti, Pasquale Ruocco, Mario Spedacci, Enzo Palumbo, Antonio d’Auria, Antonio Spagnuolo, Enzo Armenio.

Nel n. 21 del 14.10.1950 comparve il seguente “Avviso importante”: “per ragioni di carattere tecnico siamo costretti a sospendere le nostre pubblicazioni settimanali. I lettori che vorranno conservarci la loro benevolenza potranno leggerci in rivista mensile a partire dal gennaio prossimo”. Firmato Belvedere.

A noi non risulta una ripresa della pubblicazione, ma abbiamo solo notizia di un numero “zero” del Broccolo, pubblicato nel dicembre 1999, in occasione del cinquantenario dell’uscita del primo numero.

(Marzo 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

Miti napoletani di oggi.95

L’OSPEDALE DEL MARE

 

di Sergio Zazzera

 


La sanità a Napoli gode di una salute tutt’altro che ottima, il che è quanto dire: se non sta bene lei, figuriamoci noi… Tuttavia, a darle una mano, perché potesse risollevarsi, fu progettato, nel 1997, un complesso ospedaliero a Ponticelli. Poi, si sa come vanno queste cose nella nostra città: la prima pietra è facile da posare, le altre un po’ meno: così, un mattone oggi, uno dopodomani, un terzo dopo qualche mese, un quarto dopo qualche anno, si è dovuti arrivare al 2015 perché la struttura potesse cominciare (dico: cominciare) a funzionare.

Già in tutto ciò, dunque, potrebbero essere ravvisati i connotati del mito; ma non basta: qui siamo in presenza di una vera e propria concentrazione di miti.

Tanto per cominciare, infatti, la collocazione del nosocomio in un’area mal servita dai trasporti pubblici ne rende difficoltoso il raggiungimento, se non si dispone di mezzo proprio; e, anche in questo caso, non è che la viabilità sia proprio delle più agevoli.

L’acme del mito, però, è nella denominazione del complesso: Ospedale del Mare, il quale, però, si trova a una decina di chilometri di distanza. Più falso linguaggio di così… A meno che il riferimento non sia proprio al mare …di problemi che vi si riconnettono.

(Febbraio 2023)

Prima era un’altra cosa

 

di Antonio La Gala

 

Fra i luoghi comuni più comini della nostra città luoghi comuni merita un posto d’onore quello che, con lacrime di coccodrilli, tiene banco da decenni: Lauro, lo scempio, i palazzinari, Rosi e "Le mani sulla città", e tutto il trito e stucchevole repertorio sull'argomento. L’anatema si limita al secondo dopoguerra.

Chi si scaglia, giustamente, contro la stagione postbellica delle nefandezze urbanistiche (laurine e, per obbiettività, anche abbondantemente post laurine), non riflette abbastanza sul fatto che quella stagione non è stata un momento anomalo nella storia della città, ma piuttosto uno dei punti di una coerente linea di continuità storica.

I corifei che si stracciano le vesti per le edificazioni del secondo dopoguerra, non dedicano nemmeno un attimo a riflettere sulle edificazioni dei periodi precedenti, per capire se esse erano diverse; se erano diversi gli uomini che le hanno gestite; se erano diversi i meccanismi; se c'erano o no intrallazzi; se Napoli prima del dopoguerra era tutta un giardino fiorito oppure no, ecc. ecc.

L’epicentro del luogo comune è “lo scempio del Vomero”

E' oggettiva constatazione che uno dei luoghi che più ha sofferto l'offesa palazzinara postbellica è stata la collina, in particolare quella vomerese.

E' troppo facile dimostrare la sciaguratezza con cui è stato espugnato il Vomero: paesaggio scomparso, preesistenze storiche disperse, antiche ville abbattute, ecc. ecc.

Io stesso, nei miei libri sull'argomento, non vado per il sottile nelle critiche.

Però mi pongo una domanda.

Quando nel 1885 sono saliti in collina i primi costruttori per erigere i palazzi di Piazza Vanvitelli, via Morghen, Scarlatti e Cimarosa, come hanno trattato il paesaggio che hanno trovato, le preesistenze e le ville antiche? Come è stata trattata la risorsa paesaggistica?

Una collina, per motivi orografici, consente il godimento del panorama se l'edificazione avviene mediante edifici bassi sui terrazzamenti che seguono l'andamento dei pendii.

Il "Nuovo Rione Vomero" a fine Ottocento è nato cementificando parte della collina con palazzoni alti trenta metri, allineati, secondo una pianta a maglie quadrangolari, una pianta sabauda buona per la val Padana. Portata sulal collina vomerese, addio panorama per tutti. E per sempre.

Qualcuno si domanda perché? Non c'entra per caso lo sfruttamento dei suoli da parte dei costruttori? Per realizzare più case possibili?

Allora, mi chiedo: in che cosa differiscono i costruttori di fine Ottocento, da quelli laurini e postlaurini?

Le immagini dei fianchi della collina vomerese coperti dal cemento armato posbellico ormai girano il mondo. Piangendo su di esse, i coccodrilli intonano in coro il ritornello "Il verde di prima non c'è più; è scomparso".

Qualcuno ha mai controllato il verde che "c'era" prima? Ha mai guardato le immagini di inizio Novecento in cui compaiono i fianchi della collina su cui spuntano i palazzoni dalle ampie facciate "panoramiche", di Parco Antonina e Parco Marcolini? Ha guardato le cartoline d'epoca che presentano con orgoglio quelle costruzioni?


Mutatis mutandis, nei “parchi” Marcolini, Antonina, ecc. non vi si intravede, qualche antenato della famigerata "muraglia Ottieri" di via Ugo Ricci che incombe su via Aniello Falcone?

Alla muraglia Ottieri non sappiamo più quale insulto aggiungere, perché nella nostra memoria individuale e collettiva da quelle parti c'è il verde pre-Ottieri, perché alcuni di noi lo hanno  visto personalmente e se lo ricordano. Invece chi oggi ha meno di centoventi anni, (cioè tutti), i palazzoni di via Palizzi o di via Michetti li ha trovati e in un certo senso la sua memoria li ha incorporati nel paesaggio, lì da sempre. Della situazione paesaggistica precedente al Novecento nessuno ha visto niente direttamente. Anche attraverso le immagini il "verde" di fine Ottocento nessuno lo ha mai visto, perché nelle foto in bianco e nero il verde appare "nero". Forse lo ha dipinto qualche pittore. Ma, anche i pochi che conoscono i dipinti, pensano che, si sa, i pittori lavorano di fantasia.

Il secondo Novecento non ha distrutto "il verde", ma il verde "residuo".

Senza fare nomi, qualcuno ha mai notato che i nomi dei "parchi" dell'epoca coincidono con i cognomi dei maggiori costruttori del Vomero di fine Ottocento e inizio Novecento?

I sedicenti "parchi" costruiti distruggendo il vero parco preesistente li hanno inventati Otttieri e compagni di merenda nel secondo dopoguerra, oppure gli "Ottieri"di molti decenni prima?

Il palazzo di via Aniello Falcone 191, quello che sta sotto la scalinata che proviene da via Luca Giordano, sotto la Chiesa di San Francesco, anche se è un palazzo "firmato", un palazzo "d'autore", è o no un ecomostro che taglia il panorama? Non è stato costruito nel dopoguerra.

A carico dei costruttori del secondo dopoguerra i corifei dello "scempio" lanciano l'accusa che qualcuno di loro intratteneva buoni rapporti con la politica e gli amministratori pubblici, per riceverne sostegno nella propria attività.

Vero, verissimo.

Ma qualcuno si domanda perché anche i maggiori costruttori del Vomero belle èpoque si presentavano candidati alle elezioni comunali, erano amicissimi dei sindaci e sotto le  elezioni fondavano e finanziavano "Comitati per il bene del Vomero" con tanto di giornale, assieme a qualche leggendario vicesindaco del Vomero?

Una obiezione che i laudatori del tempo passato potrebbero fare è che, comunque, allora si costruivano palazzi signorili, strade larghe, belle ville, e nel dopoguerra invece si sono costruite via Ruta, via Falcomatà e i vicoli del Vomero Alto.

Ciò è incontestabile. Ma perché ciò è avvenuto?

Molti potrebbero rispondere "perché prima le cose erano più serie". Cioè ipotizzano maggiore virtù dei costruttori e degli amministratori. A prescindere dalle Commissioni d'inchiesta nazionali che le amministrazioni napoletane propiziavano anche allora, io avanzo una spiegazione diversa.

Chi erano gli acquirenti delle prime case del Vomero? Delle case  di piazza Vanvitelli, di via Scarlatti, di via Palizzi? Della nascente via Aniello Falcone?

Benestanti dell'epoca.

Chi erano gli acquirenti delle case del Vomero del secondo dopoguerra?

Impiegati che hanno formato cooperative e sottoscritto mutui, indebitandosi a vita.

I costruttori di fine Ottocento, quelli delle case di Piazza Vanvitelli avrebbero venduto ai benestanti belle époque case economiche di sessanta metri quadri, realizzati in strade modello via Falvo o via Capaldo?

I vituperati costruttori del dopoguerra avrebbero venduto agli insegnanti con il mutuo trentennale, alloggi spaziosi tipo quelli del centro Vomero, di via Morghen, panoramici, o le villette di via Palizzi?

Cambiato il mercato, è cambiato il prodotto.

Tutto quanto qui esposto vuole essere solo un invito a non ripetere a pappagallo i luoghi comuni dello "scempio", ma riflettere sul fatto che prima di pontificare assiomaticamente che i tempi andati erano migliori dei nostri, dovremmo prima cercare di conoscerli e analizzarne le logiche. Per scoprire che sono le stesse.

(Febbraio 2023)

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