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Era una mattina di “primavera”   di Mariacarla Rubinacci    La Terra quando arriva la stagione del risveglio dopo il letargo invernale, mi fa toc toc...
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«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».20

Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri

 

di Sergio Zazzera

 

E' dei giorni scorsi l’epicedio di Barbara Balzerani – la “compagna Luna” –, scritto e diffuso via web da Donatella Di Cesare, del quale riporto qui di seguito il testo: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna». Energiche proteste si sono levate da una consistente quota della società civile, rappresentatativa delle più diverse appartenenze, la quale non ha dimenticato le responsabilità della defunta nel sequestro e nell’uccisione di Aldo Moro e in numerosi altri omicidi perpetrati dalle b.r. (sono di rigore le minuscole): addirittura, la rettrice dell’Università “La Sapienza”, dove la Di Cesare insegna, ha sottoposto il caso all’attenzione dei competenti organi dell’ateneo. A fronte di tutto ciò, l’interessata ha tentato di mettere una toppa peggiore dello strappo, sostenendo di aver inteso esprimere soltanto la sua «vicinanza generazionale» alla Balzerani. Ma qui, oltre a richiamare il brocardo giuridico (la cui valenza, però, travalica i confini del diritto), secondo il quale protestatio contra factum non valet, mi permetto di ricordare, ancora una volta, la natura convenzionale del linguaggio, affermata dai tempi di Democrito fino almeno a quelli di Ernst Cassirer. Dunque, affido a ciascun lettore la lettura delle parole della professoressa Di Cesare – filosofa e, perciò, sicuramente conoscitrice del pensiero dei filosofi appena menzionati – e la loro interpretazione, parametrandola a quella “autentica” fornita dalla stessa.

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A proposito di linguaggio: che cosa pensano i lettori di espressioni lessicali oggi sempre più diffuse, del tipo: “quello che è” e “piuttosto che” (in luogo di “oppure”)? Da parte mia, la prima mi sembra un pleonasmo, meritevole del risparmio di fiato. Quanto alla seconda, mi si risveglia la nostalgia del mio triennio milanese di mezzo secolo fa: nel dialetto meneghino, infatti, l’interrogativo retorico “o no?” diventa “piuttost che no?”, che, però, una volta italianizzato, trasforma un’alternativa in una comparazione di tipo valoriale.

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L’annunciata competizione elettorale USA fra Trump e Biden si presenta, ai miei occhi, come sospesa tra il mitologico e il wagneriano: come, cioè, il Götterdämmerung, il “crepuscolo degli dei”.

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E, sempre a proposito di USA, il lancio dall’aereo di generi alimentari alla popolazione affamata di Gaza ha tutto l’aspetto dell’attualizzazione di quella distribuzione, via terra (a tempi diversi, modi diversi), di polvere di uova e di piselli, di cioccolata e di sigarette alla popolazione napoletana, anch’essa affamata, da parte dei militari statunitensi, giunti nel capoluogo dopo lo sbarco a Salerno. Per intenderci: due maniere, apparentemente diverse, ma sostanzialmente uguali, di “lavarsi la faccia” (o, magari, la coscienza).

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Scriveva Giuseppe Prezzolini, nella sua Storia tascabile della letteratura italiana (1976): «la Chiesa cattolica… è la sola monarchia che sia durata dalle origini a oggi in Italia». Ebbene, dopo quasi mezzo secolo, qualcosa mi sembra che sia cambiata, almeno nei fatti, dal momento che la monarchia, soprattutto se assoluta, assicura sempre al suo vertice una posizione d’intangibilità. Viceversa, oggi una quota consistente di ecclesiastici non si fa mancare le occasioni di critica dell’operato del “monarca assoluto”, ovvero del papa. Ma, forse, questo è il segno del fatto che il verticismo assicura sempre una buona libertà di azione, quanto più in basso si scende nella piramide.

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Passando, ora, al mondo dell’arte, cominciamo dalla Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, insediatasi nuovamente in piazza Municipio. A me essa sembra il simbolo del mondo politico dei giorni nostri, nel quale il lancio degli stracci è diventato lo sport preferito.

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Due mostre, in corso a Napoli in questo momento, hanno attirato la mia attenzione, vale a dire, quella della Flagellazione di Cristo del Caravaggio, al Museo diocesano, e quella della Testa di Tito, alle Gallerie d’Italia. La prima di tali opere proviene dal Museo di Capodimonte, l’altra dal MANN; e sono proprio tali provenienze a rendermi più che perplesso, circa l’utilità delle due esposizioni. Finché, infatti, un’opera d’arte viene temporaneamente trasferita in una città diversa, l’utilità dell’operazione è da ravvisarsi nella possibilità, offerta a chi non può recarsi nella sede in cui essa dimora stabilmente, di poterla ugualmente ammirare. Viceversa, non riesco a immaginare altro senso dell’operazione compiuta nell’ambito della stessa città, se non quello di dirottare il pubblico (e gl’incassi) da una struttura museale all’altra.

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Dulcis (ma non lo direi troppo) in fundo: la relazione positiva, emersa di recente, tra lo street artist napoletano Jorit e Vladimir Putin. Vero è che la qualità artistica è un valore che va apprezzato in sé, senza alcuna connessione con possibili ideologie (per tutti, valga la qualità dell’architettura del ventennio fascista); è innegabile, però, che il caso di specie è idoneo a risvegliare nelle menti il ricordo di figure, come Muzio Attendolo Sforza, Braccio da Montone e Giovanni delle Bande Nere. Intelligenti pauca.

(Marzo 2024)

«RIUNIRE CIÒ CH’È SPARSO».19

Considerazioni su avvenimenti e comportamenti dei giorni nostri

 

di Sergio Zazzera

 

Un capitolo dei Simboli della Scienza sacra di René Guénon è intitolato «Riunire ciò ch’è sparso», il che è ciò che tentai di fare, alcuni anni fa, sul periodico Il Brigante, provando a mettere insieme alcune considerazioni che facevo su avvenimenti di quel tempo, con la speranza di non avere messo troppa carne a cuocere. L’iniziativa s’interruppe giusto dieci anni fa; peraltro, essa aveva incontrato il gradimento di Marisa Pumpo Pica, che egregiamente dirige questa testata, il che m’induce a riprenderla in questa sede, conservando la numerazione consecutiva, rispetto a quella della serie precedente.

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L’indagine circa le responsabilità della “questione israelo-palestinese”, eufemismo che designa la realtà della guerra tra gli arabi di Hamas e gl’israeliani di Netanyahu, è più complessa – ma, forse, anche più semplice – di quanto non possa apparire; dunque, proviamo a compierla anche noi.

Yahweh, la divinità dell’ebraismo, è “il Dio degli eserciti”: soltanto il cattolicesimo postconciliare ha adottato la foglia di fico, che lo ha reso “il Signore Dio dell’universo”. A sua volta, il Jihād (sissignore, il sostantivo è di genere maschile) dell’Islām è vocabolo polisemico, tra i cui significati c’è quello di “guerra santa”, vale a dire, combattuta – sul modello di quella di Maometto per la conquista della Mecca (629-630) – contro gl’infedeli, tra i quali non v’è dubbio che, nell’ottica islamica, vanno annoverati anche gli ebrei.

Ciò posto, l’aggressione attuata da Hamas – organizzazione terroristica, che non può essere identificata con l’intero popolo palestinese – ai danni d’Israele ha costituito, sicuramente, una forma di Jihād, sferrata sotto l’egida di Allāh, divinità islamica, alla quale lo Stato aggredito non poteva reagire, che con le modalità ben note, attraverso l’intervento del proprio esercito, che Jahvè ha preso sotto la propria egida. A questo punto, non soltanto ogni considerazione circa la sproporzione tra offesa e difesa diventa vana, né è superfluo sottolineare il danno che Hamas ha causato al popolo palestinese, ma, addirittura, nell’iniziativa di Hamas medesimo dev’essere ravvisata quella che i penalisti definiscono “colpa con previsione”, se non finanche quello che sempre i penalisti definiscono “dolo eventuale”.

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Il Governo attualmente in carica aveva esordito, ponendo al bando l’uso dei vocaboli stranieri, in luogo di quelli della lingua italiana. Riterrei utile, perciò, che il professor Giuseppe Valditara, ministro dell’istruzione (oltre che “del merito”!) spiegasse perché il nuovo corso di studi superiori, da lui annunciato e finora non ancora istituito, dovrebbe chiamarsi “Liceo del made in Italy”.

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Ci sono cafoni in tutti gli ambienti, anche in quelli apparentemente più “elevati”; perfino nel mondo della politica (ma di che cosa vogliamo meravigliarci?). e tra una consistente parte di tutti costoro è invalso l’uso di rivolgersi ai giornalisti, che li intervistano, dandogli del tu.

Signori (si fa per dire)! il giornalista è un professionista, ma, prima ancora, un uomo e, soprattutto come tale, merita rispetto. Torna appropriato, qui, il ricordo del mio Maestro, al tempo della mia collaborazione con lui, il quale stringeva la mano al bidello, prima che a noi, e una volta ci spiegò, con la sua nota saggezza: «Se faccio così, poi lui mi rispetta».

Quanto, poi, al “tu”, sono completamente fuori strada coloro che affermano che anche gl’inglesi danno dello you perfino al re. È vero; solamente, però, che lo you equivale al nostro “voi”, mentre in Albione si è perso l’uso del thou, seconda persona singolare del pronome personale: si ricordi, fra l’altro, il racconto di Edgar Allan Poe, Thou art the man (= Tu sei l’uomo - 1844). Dunque, in realtà, in Inghilterra i padri danno del voi finanche ai figli.

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Come si sarebbe dovuta attendere ogni persona avvezza a guardare oltre il proprio naso (che, come dice mio figlio, non è neppure quello di Cyrano de Bergerac), giunti alla scadenza del secondo mandato, fissato dalla legge come limite massimo di eleggibilità, presidenti di Regione e sindaci, affezionati alla loro poltrona, premono – e protestano –, perché sia consentito loro di aspirare al terzo. Ciò mi ricorda le modalità della transizione delle città italiane, tra Medioevo e Rinascimento, dall’esperienza dei Comuni a quella delle Signorie, nelle quali fu stabilizzata e divenne ereditaria la premiership (sì, se l’inglese lo usa il ministro, voglio usarlo anch’io) dei Capitani, fin allora eletti dal popolo dei primi. Dunque, honi soit (come sopra: comincio a prenderci gusto) che pensa che la storia non si ripeta.

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Le premesse per il gemellaggio tra il Vomero e Appenzell, città della groviera, si stanno consolidando, tra voragini già aperte e altre ventilate (se non altro) dai geologi. Mi piacerebbe sapere che cosa ne penserebbe Georges Ivanovič Gurdjieff, il filosofo armeno, maestro di René Guénon, che ho citato in apertura dell’articolo, dal momento che fra i cardini del suo pensiero c’è la formula “come sopra così sotto”, sia pure riferita all’intero Universo.

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Il napoletano non sarà una lingua (non è vero che tale lo abbia definito l’UNESCO) e potrebbe non essere neanche un dialetto – in un mio recente volumetto l’ho definito “parlata” –, però è innegabile che esso abbia un suo corpus di regole grammaticali e sintattiche, al pari della lingua italiana; e, quanto a quest’ultima, la violazione di quelle regole da parte degli studenti ha sempre subìto le impietose sottolineature rosse e blu da parte dei professori. Viceversa, la violazione delle regole del napoletano da parte di Geolier, cantante (?!) esibitosi al recente festival di Sanremo, ha incontrato l’assoluzione per opera finanche di qualificati docenti: unica voce di spessore, levatasi a protestare, è stata quella di Maurizio De Giovanni, presidente (ora dimissionario) del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano della Regione Campania.

Ricordo che, alcuni anni fa, Aldo Oliveri tentò di accreditare un sistema di “lessigrafia” del napoletano, molto simile al modo in cui è scritta la canzone sanremese di Geolier, ma fu contestato da un folto manipolo di studiosi – tra i quali, modestamente, anche il sottoscritto –, intervenuti alla presentazione; e ricordo, in particolare, la violenta filippica del compianto Raffaele De Novellis.

Bene, non mi sarebbe dispiaciuto che altrettanto fosse accaduto oggi; ma, viceversa – De Giovanni a parte –, nessuno si è fatto sentire; io stesso lo sto facendo soltanto ora, che mi se n’è presentata l’opportunità.

Bene, sono stufo di dover leggere frasi, che sembrano scritte in polacco (quattro o cinque consonanti di seguito, senza una sola vocale) e, viceversa, vorrebbero esserlo in napoletano: non bastavano i manifesti pubblicitari e quelli funebri, ora ci si mette anche la canzone.

Bene, dal Nord d’Italia hanno protestato contro Geolier, non per il modo di scrivere (suo e degli altri ben sei autori!) il testo della canzone in sé, ma per contestare la presenza di Napoli e della sua “parlata” al festival. Allora, mettiamola così: voglio prenderla come una ipotesi di eterogenesi dei fini.

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È pacifico che, da Democrito, almeno fino a Ernst Cassirer, al linguaggio è stato sempre riconosciuto carattere convenzionale, vale a dire, che la sua comprensione non necessita dell’intervento d’intermediari, fatta salva l’ipotesi di dialogo tra soggetti allofoni. È altrettanto pacifico che quello dell’arte sia un linguaggio, per di più, universale, vale a dire, che la necessità d’intermediazione rimane esclusa in ogni caso.

Da tutto ciò discende la considerazione che l’affannarsi dei cosiddetti “critici d’arte”, per spiegare il significato di certe opere di autori contemporanei, solitamente con l’impiego di circonlocuzioni ancor meno comprensibili di quelle opere, è da considerare del tutto superfluo. Con il corollario che quelle non sono opere d’arte. E sia chiaro che non lo dico io, bensì Jean Clair, accademico di Francia; e scusate se è poco.

(Febbraio 2024)

Chiesa della Madonna Assunta in via San Giacomo dei Capri 

 

di Antonio La Gala

 


Nel 1962 le suore Passioniste che erano allocate nelle stanzette di un conventino vicino alla cappella ottocentesca della Madonna del Carmine di via San Giacomo dei Capri 20, trasmigrarono in un nuovo complesso religioso, composto da vari edifici (il ritiro delle suore, un centro scolastico, una chiesa), che troviamo nella stessa via San Giacomo dei Capri, più in alto, con ingresso attraverso una rampa, al civico 78.

Contestualmente, nel 1962, fu aperta al culto l’annessa Chiesa dedicata alla Madonna Assunta. Il passaggio dal conventino al nuovo complesso e il trasferimento della sacra Pisside è così raccontato da un testimone dell’epoca: “Caldo pomeriggio di autunno 1962. Una processione Eucaristica attraversa lentamente la stretta e ripida stradina di allora una folla di cittadini genuflessi e un gran numero di padri Passionisti e di Sacerdoti locali che accompagnavano le suore, ricoperte con un lungo velo nero, che pregando e cantando, scortano il sacerdote che stringeva al petto, sotto il rituale baldacchino, la sacra pisside con le Ostie consacrate per il trasferimento del ‘Gran Bene’ dal vecchio al nuovo monastero”.

Le suore Passionistefanno parte dell’Istituto della Religione della S. Croce e Passione di Gesù Cristo, fondato da San Paolo della Croce che nel 1771 aprì a Tarquinia il primo monastero di Claustrali Passioniste (il ramo femminile) della Congregazione.

La Chiesa della Madonna Assunta in cielo è a navata unica, coperta da una volta a botte, e ha un’abside semicircolare. Dell’arredo sacro interno segnaliamo un statua di San Paolo della Croce, fondatore dei Passionisti, un quadro dell’Assunta (che dà il nome alla chiesa), sull’altare maggiore, copia dell’Assunta di Tiziano; sugli altari laterali sono raffigurati Santi e Sante Passionisti. Il simbolo dei Passionisti raffigurato sul pavimento della chiesa lo notiamo anche all’ingresso del complesso.

Le suore di questo convento furono protagoniste nel marzo del 2015 di un divertente episodio in occasione della visita di Papa Francesco a Napoli, raccontato da Antonio Rungi  in un articolo de “Il Mattino” del 24 marzo 2015, intitolato “Le Monache passioniste che hanno abbracciato Papa Francesco”: “Le immagini in diretta Tv, le interviste e questa sera anche il Tg1 della Rai hanno portato le monache passioniste del Convento di San Giacomo dei Capri in Napoli al centro e all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, per il gesto spontaneo di affetto e rispetto che hanno fatto nei confronti di Papa Francesco, nella sua visita a Napoli, il 21 marzo scorso. Scena vissuta nel Duomo di Napoli, all’inizio dell’incontro del Papa con i sacerdoti e i religiosi, lì convenuti. È la madre  Giuliana, […] a raccontarlo.

(Febbraio 2024)

Chiesa di Santa Maria della Rotonda

 

di Antonio La Gala

 


La chiesa di Santa Maria della Rotonda si trova al Vomero, nel collegamento fra via Saverio Altamura e via San Giacomo dei Capri, in via Undici Fiori del Melarancio.

Come la chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini, anch’essa ha ereditato il titolo e qualche arredo da una chiesa abbattuta, di origine antichissima, del centro della città.

Infatti si trattava di una chiesa costruita attorno al 350 d.C. su un tempio pagano recuperato dai fedeli cristiani,presumibilmente di forma circolare, denominata “Ecclesia Sanctae Mariae ad Rotunda”, proprio per la sua forma. Alle origini era una delle sette diaconie della nascente chiesa napoletana.

Tracce del tempio pagano emersero nel corso della sistemazione della zona alta di via Mezzocannone operata dalla Società del Risanamento, demolendo l’estremità orientale del palazzo Casacalenda, tra il largo San Domenico Maggiore e via Mezzocannone. Sotto questa estremità dell’edificio vennero  alla luce due vecchie colonne scanalate su basi quadrangolari delimitanti un vano d’ingresso dove sorgeva - fino al suo abbattimento avvenuto nel 1770 per la costruzione del palazzo Casacalenda - la citata Ecclesia Sanctae Mariae ad Rotunda

Dopo l’abbattimento del 1770, la cura parrocchiale di Santa Maria della Rotonda peregrinò per varie chiese, finché non le fu assegnata nel 1808, come sede stabile, la chiesa di san Francesco delle Monache sita in via Santa Chiara, erroneamente a lungo chiamata di Santa Maria della Rotonda. Questa chiesa fu sostanzialmente distrutta nel bombardamento aereo del 4 agosto del 1943, assieme alla vicina chiesa di Santa Chiara. Oggi alcune sue reliquie si trovano distribuite fra vari musei cittadini.

La posa della prima pietra di una nuova chiesa da costruirsi al Vomero con lo stesso titolo di quella scomparsa finora raccontata, fu posata dal cardinale Marcello Mimmi il 25 aprile 1954; i lavori di costruzione cominciarono nel 1958 e si sono svolti fino al 1961. Il tempio fu aperto al culto già come sede parrocchiale il 16 agosto 1961.

Il tempio fu progettato da Ferdinando Chiaromonte, che si ispirò al tempio originario abbattuto nel 1770, conferendogli, come cifra caratteristica, una forma circolare, richiamata, all’interno da un matroneo che circonda l’aula liturgica.

Nella torre campanaria del campanile alto 40 metri, funzionano tre campane di diversa grandezza, dedicate a San Gennaro, a San Michele e alla Madonna di Pompei.

Fra gli arredi va evidenziata una statua ad altezza naturale della Madonna con Gesù Bambino, posta nel 1980, anch’essa proveniente da una chiesa demolita del vecchio centro storico.

Nel terreno su cui nel 1958 cominciò la costruzione della chiesa non c’era il collegamento fra via Castellino e via Altamura, ma il terreno si estendeva dalla chiesa fino ai palazzi che la fronteggiavano. Dopo che vi sorse la chiesa, il Comune recuperò la striscia di terreno utile per realizzare il collegamento Castellino-Altamura, poi denominato via Undici Fiori del Melarancio, una denominazione che ricorda un triste episodio avvenuto il 26 aprile 1983, quando undici ragazzi vomeresi ("i Fiori"), alunni della vicina scuola media D’Ovidio, che si trovavano su un autobus in gita scolastica, rimasero uccisi in un incidente stradale avvenuto nella galleria del Melarancio, vicino Firenze. La lapide apposta sulla recinzione della chiesa ricorda l'episodio e i nomi dei ragazzi.

Ricordiamo i primi parroci che si sono avvicendati nella guida della parrocchia. Primo parroco Antonio Assante; da ottobre 1968 Don Franco Mercurio; dal 1978 Mons. Enrico Cirillo; da ottobre 1988 Salvatore Fratellanza.

(Gennaio 2024)

Parrocchia di Nostra Signora del Sacro Cuore

 

di Antonio La Gala

 

 

A metà di via Simone Martini, in una breve traversa cieca, in via Scala, fra i palazzi del “Parco Mele”, troviamo la parrocchia di Nostra Signora del Sacro Cuore, realizzata su un suolo donato nel 1955 alla diocesi, assieme ai soldi per realizzarla, dalla signorina Anna Maria Mele, proprietaria di una grande area nella zona.

La costruzione del tempio iniziò nel 1957, fu ultimata alla fine del 1961 e la chiesa fu aperta al culto all’inizio dell’anno successivo. È stata ristrutturata nel 2001. Le anime curate dalla parrocchia sono circa 25.000. Il primo parroco fu Antimo Sodano, a cui subentrò don Filippo Strofaldi dal 1985 al 1993, quando gli successe Michele Schiano.


La chiesa è a pianta rettangolare, presenta una navata centrale affiancata da sei arcate laterali per ognuno dei due lati. All’interno, le strutture semplici in cemento armato, la sobrietà decorativa dell’arredo sacro, le pareti disadorne e la particolarità cromatica della fioca illuminazione che viene dalle finestre, creano una raccolta atmosfera suggestiva. L’abside semicircolare è dominata dalla statua della Vergine tra due angeli. Negli altarini laterali vi sono alcune tele che raffigurano San Gennaro, il Sacro Cuore di Gesù, la Madonna di Pompei, Santa Rita, Sant’Antonio e San Ciro.

Le immagini che accompagnano questo articolo raffigurano l’interno e l’esterno della chiesa visti nel 2021.

(Dicembre 2023)

Chiesa della Madonna del Buon Consiglio di via Girolamo Santacroce

 

di Antonio La Gala

 

La Chiesa parrocchiale della Madonna del Buon Consiglio sorge nella curva che si trova pressoché a metà di via Girolamo Santacroce, inserita, da un lato, fra disordinate salite che portano a labirinti di condominii e il Parco Viviani dall’altro lato.

Fu edificata dai Padri Agostiniani a partire dal 1952, e aperta al culto nel 1954, l’anno della proclamazione dell’anno Mariano.

Il culto della Madonna del Buon Consiglio a Napoli è piuttosto diffuso, come dimostra che questo titolo compare in sette parrocchie della Diocesi. Un’altra chiesa in collina con questo titolo la troviamo a Piazza Canneto. È un culto che risale a secoli fa, e parte da un dipinto che raffigurava la Vergine, che per vie miracolose dall’Albania giunse in Italia, dove gli Agostiniani ne diffusero il culto.

Le origini della chiesa si allacciano all’acquisto fatto nel 1882-83 dall’Ordine Agostiniano della villetta del duca di Sassinoro sperduta nel verde della campagna, a cui si accedeva da una scalinata, rimasta uguale fino ai giorni nostri, chiamata “gradini Sassinoro” o anche “via Cupa vecchia a Sassinoro”, che inizia da corso Vittorio Emanuele e sbuca fra alcuni condominii che danno su via Girolamo Santacroce.

In un solo anno i Padri Agostiniani ingrandirono la villa, allora chiamata “Villa Neno Driscoll”, posero un’edicola sacra all’ingresso dedicata alla Vergine, ne fecero una casa religiosa che dedicarono alla Madonna del Buon Consiglio, sede di noviziato, e costruirono una chiesetta, anch’essa dedicata alla Madonna del Buon Consiglio.

Nel 1936 un agostiniano così descriveva il convento di salita Sassinoro: “Da questo convento si domina tutta la città. Mare, cielo, terra, tutto immerso nella splendida luce, e un’aria purissima, olezzante di profumi che ristora e ricrea. In mezzo ad un campo coltivato ad agrumi sorge la nostra chiesa [non quella attuale n.d.r.], d’intorno tralci di vite pendono a foggia di festoni dagli alberi”.

Negli anni Trenta del Novecento, quando nacque via Girolamo Santacroce e attorno a questa strada si sviluppò urbanisticamente la zona, cominciò ad essere richiesta l’edificazione di una chiesa; quando poi si sviluppò l’ulteriore crescita del dopoguerra, l’apertura di un nuovo tempio divenne improrogabile. Furono gli Agostiniani ad aprirla nel loro territorio, quella di cui qui stiamo parlando, vendendo nel contempo, nel 1950, parte del restante territorio a un’impresa edilizia che l’utilizzò per realizzare condominii.

A ridosso della vecchia casa dei marchesi di Sassinoro, l’ex villa Driscoll, costruirono l’attuale Chiesa della Madonna del Buon Consiglio, aperta al culto a Pasqua 1954, e divenuta parrocchia nel 1955.

La chiesa è un edificio “d’autore”, essendo stata progettata da Ferdinando Chiaromonte nel 1952, mentre stava sorgendo il confinante parco residenziale di via Santacroce 19 progettato dallo stesso Chiaromonte.

L’esterno, rivestito di travertino, presenta forme elementari, prive di decorazioni. L’interno custodiva sull’altare un’immagine della Madonna del Buon Consiglio dipinta nel Settecento, venerata nel convento agostiniano di San Carlo alle Mortelle. Quando nel 1866 il convento fu soppresso, il padre Vicario dell’Ordine la portò con sé. Custodita per 20 anni, fu poi esposta alla venerazione nel 1885 nella chiesetta costruita ai gradini Sassinoro. Nel 2004 l’immagine fu rubata dalla nuova chiesa, sostituita da una copia.

La cappella del fonte battesimale è ornata da un Crocefisso dell’Ottocento. Numerose le statue devozionali dell’arredo sacro interno, fra cui quella di Sant’Agostino.

(Novembre 2023)

I Gesuiti a Napoli

 

di Antonio La Gala

 

I Gesuiti dopo il 1767 ebbero una vita difficile in Europa, dopo che molti stati europei iniziarono a sopprimere il loro Ordine.

A Napoli a espellere la Compagnia di Gesù ci pensò Bernardo Tanucci, a novembre 1767, dopo analogo provvedimento adottato da Spagna e Portogallo. Uno dei motivi principali della soppressione di Tanucci era l’incameramento dell’enorme potere economico raggiunto dai Gesuiti da quando, a metà Cinquecento, erano venuti a Napoli.

Riammessi nel 1804, ne furono nuovamente espulsi nel 1806 dal governo francese. Rientrati dopo la caduta di Napoleone, furono di nuovo dispersi dalla venuta di Garibaldi, per rientrare definitivamente nel 1900.

Uno dei compiti principali dell’Ordine era l’istruzione delle classi dirigenti.

A tale scopo a Napoli nel 1552 fondarono il Collegio Napoletano, che offriva un servizio scolastico gratuito di buon livello. Due anni dopo il Collegio si stabilì nei locali dell’ex Palazzo Carafa in via Paladino, assumendo la denominazione e la funzione di Collegio Massimo, cioè scuola di rango universitario. Nella risistemazione degli edifici in quell’area, con abbattimenti e ricostruzioni, sorse il vasto complesso attorno al Cortile del Salvatore che ancora oggi, dopo secoli, conserva l’antica funzione d’istruzione nell’ambito dell’Università Federico II.

A Napoli, alla fondazione del Collegio Massimo seguì la fondazione della Casa Professa, del Noviziato e di quattro Collegi.

Le Case Professe erano comunità di Gesuiti che avevano come missione l’apostolato sacerdotale (predicazione, confessioni, ecc.).

Quella napoletana nacque nel 1579 con sede provvisoria in via San Biagio dei Librai; nel 1584 si trasferì nel Palazzo Sanseverino, che i Gesuiti acquistarono e trasformarono nella Chiesa del Gesù Nuovo. Attualmente una parte dell’antica Casa Professa ospita una scuola (la Pimental Fonseca) e il resto è utilizzato dai Gesuiti per le loro attività, fra cui la biblioteca.

Il Noviziato era un seminario per gli aspiranti Gesuiti istituito nel 1587 nei locali oggi occupati dalla scuola militare Nunziatella.

I Collegi aperti a Napoli nel Seicento (dopo il Collegio Massimo del Cinquecento), furono quattro.

Uno dei quattro Collegi, il Collegio dei Nobili, fondato da un marchese nel 1626 per la formazione di giovani aristocratici, che ne affidò la direzione fin dall’inizio ai Gesuiti, che lo gestirono fino al 1767. Aveva sede in via Nilo, oggi parte degli edifici universitari di via Mezzocannone.

L’immagine che accompagna questo articolo presenta il “Cortile del Salvatore”.

(Ottobre 2023)

Porta Reale, una porta girovaga

 

di Antonio La Gala

 

In via Toledo, sulla facciata di palazzo De Rosa, ad angolo con via Cisterna dell’Olio, sono apposte due lapidi. Una di esse ci ricorda che da quelle parti esisteva una porta d’ingresso alla città inserita nella cinta difensiva muraria realizzata nel Cinquecento da don Pedro, appunto, de Toledo.

Era una porta sobria, non decorata, ma recante sul fornice lo stemma di Carlo V, un’aquila a due teste, simbolo che ritroviamo sulla facciata di Castel Capuano e sull’ingresso del castello di sant’Elmo.

L’ubicazione vicino a palazzo De Rosa era l’ultima posizione di una porta che nei secoli “è andata camminando” per Napoli, assecondando l’allungamento del decumano inferiore verso est.

Infatti la sua antenata più antica era la greco-romana Porta Cumana, che si trovava dalle parti di S. Domenico Maggiore, ed era il “capolinea” della strada che collegava Neapolis con Pozzuoli, con l’area flegrea e Cuma. 

Nella seconda metà del Duecento gli Angioini, nel sistemare la zona dell’allora costruenda santa Chiara, di fatto determinarono un allungamento del decumano inferiore (via Capitelli), e una crescita d’importanza della strada, che si è andata poi arricchendo di conventi, fra cui primeggia quello di S. Chiara, e di palazzi di potenti personaggi. 

In conseguenza di questa variazione la Porta Cumana fu spostata in un punto non meglio precisato fra l’attuale piazza del Gesù Nuovo e palazzo Maddaloni, cambiandole il nome in Porta Reale.

In età vicereale, nel 1537, a seguito della costruzione di via Toledo, la porta fu spostata ancora, dove troviamo la lapide, con il nome di Porta Reale Nuova. Poiché stava nelle vicinanze (come ci ricorda la toponomastica), delle cisterne per la conservazione dell’olio, veniva anche chiamata Porta dell’Olio. Stava però anche vicino alla chiesa dello Spirito Santo, e perciò era detta pure Porta dello Spirito Santo.

Con l’intensificarsi del traffico la porta cominciò ad essere di grave intralcio “troppo angusta e presso che deforme; e soprattutto incapace del continuo passaggio delle carrozze, de’ carri e delle some, il che dava origine a scandalosi disordini derivanti dalla strettezza dell’uscita e dalla sfrenata licenza della plebe”.

Nel 1775 fu abbattuta. Dopo quaranta giorni ininterrotti di intenso lavoro (bisognava far fuori anche le costruzioni che le erano cresciute attorno), la via Toledo fu riaperta il 29 maggio in occasione di una corsa di cavalli.

La statua di San Gaetano che la sormontava fu spostata sulla vicina e più nuova Portalba, dove oggi continuiamo a vederla.

L’immagine che accompagna questo articolo mostra la Porta Reale vista da Micco Spadaro nel 1656.

(Giugno 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti) 

Parlanno ‘e poesia

Giulio Pacella

 

di Romano Rizzo

 

Spesso mi sono chiesto perché la figura di un grande poeta come Giulio Pacella si affaccia ancora oggi alla mia mente. Talvolta a me pare quasi di vederlo ancora mentre, con pazienza, attende che venga il suo turno per declamare una delle sue tante belle poesie, sempre impregnate di umanità e così ricche di contenuto.

Un giorno, all’improvviso, ho finalmente compreso che, forse, mi sentivo ancora in debito con lui, per non avergli mai esternato in privato, così come avevo fatto con altri amici, la stima e l’ammirazione che provavo da tempo nei suoi confronti. Probabilmente non lo avevo mai fatto perché la sua figura, sempre seria e distaccata, mi incuteva spesso un po’ di soggezione o tutto era dipeso soltanto dalla mia innata timidezza.

Ho immaginato che anche lui fosse un po’ timido o che quantomeno non apprezzasse per nulla le consorterie. Ricordo solo che, a volte, incontrando degli amici, confidenzialmente lanciava degli strali contro quelli che amavano frequentare dei salotti.

Era un uomo tutto di un pezzo, un po’ all’antica ed io ero, all’epoca, un giocherellone che amava molto verseggiare su temi che raccogliessero il favore dei convenuti di cui godevo i facili consensi.

Giulio, no, era un vero poeta e, in quanto tale, era un po’ geloso delle sue creature dalle quali si separava a fatica vincendo un certo imbarazzo.

Invidiavo a lui il fatto che potesse godere dello incondizionato appoggio dei suoi (la delicata e sensibilissima Ida e il suo impagabile rampollo Giovanni), mentre io ero costretto a remare da solo e…controcorrente! Giulio è sempre stato un autentico grande poeta che rifuggiva da tutto ciò che sapeva di folklore e da sdilinquiti rigurgiti romantici, ma rivestiva di scintillante poesia tutto quello che aveva osservato e amava raccontare.

In tutte le sue composizioni non vi è mai una sia pur pallida traccia di imitazione dei classici, ma, al contrario, c’è chiaramente espressa la volontà di fare qualcosa di nuovo, di dare una veste più moderna ed attuale alla poesia.

Della nostra poesia di cui è stato maestro e innovatore, dovrebbe essere considerato colui che ha dato una veste moderna ed un carattere di “verismo” alle nostre liriche.

Con grande amabilità, inoltre, ci ha regalato spesso in chiusura delle sue gradevolissime composizioni un piacevolissimo assaggio di bonomia, saggezza, napoletanità e di quella ironia che traspariva a volte dal suo eterno sorriso, bonario e sarcastico insieme. Con le sue poesie ha trattato i temi più vari e, quando ha indugiato a descrivere la bellezza di alcuni paesaggi, ha rivelato il suo grande amore per la pittura. La sua poesia è caratterizzata sempre da un felicissimo connubio tra la freschezza del contenuto e la pregevolezza della forma che si avvale di una grande espressività ed è capace di conquistare l’animo del lettore rendendolo partecipe di quell’immenso piacere che può dare solamente qualche grande composizione.

A mio parere, tutta la sua opera andrebbe con cura valutata dalla critica specializzata e collocata, quindi, tra quelle che hanno dato lustro al nostro linguaggio ed al modo di essere di noi napoletani.

E’ stato non solo un grande poeta ma anche un grande innovatore che ha tracciato una nuova strada alla nostra poesia rendendola più vicina al mondo di oggi ma senza perdere la puntigliosa precisione ed accuratezza dei grandi classici.

 

*   *   *

Realtà e poesia

 

Si vuò cuntà cchiù stelle int’’a nuttata

o vuò sentì ll’addore d’erba ‘e mare,

si pienze a na figliola nnammurata

nun t’abbaglià cu ‘a luce d’’e llampare,

.

nun sta’ a sentere ‘o rimmo dint’a ll’onne,

nun te ncantà cu ‘a voce ‘e na sirena

pecchè sti ccose belle nun so’ suonne

o ‘nvenzione ‘e puete ‘e bona vena

.

ca, si sta grazia ‘e Dio nun fosse niente,

si fosse surtanto smania e poesia,

ll’acqua ‘e surgente se farrìa vullente,

.

‘a luna a ll’intrasatta s’addurmesse

e, senza ll’illusione e ‘a fantasia,

‘o calore d’’o sole nun scarfasse !!

 

*   *   *

 

’A musica è cagnata!

 

Me piace ‘e tratteggià cchiù de na cosa

si piglio ‘a penna ‘mmano pe sbarià ;

me piace ‘e ve cuntà na nuvità

e..nun ‘e parlà sempe ‘e terra ‘nfosa !

.

Me piace ‘e cuntà ‘e fatte d’ogne ghiuorno,

‘e Napule ca se ngegna n’ata vesta,

n’appicceco, na femmena, na festa

o ‘e cunfessà na pena senza scuorno.

.

Nun c’è pueta ncopp’a chesta terra

ca nun ha suspirato sott’â luna

pure si ne pateva famme e guerra!

.

Ma mo è ‘o mumento pe cagnà mutivo,

scurdammoce d’’o mare e de na bruna

pecchè spisso…se canta...pe currivo !!

 

*   *   *

 

‘O ppane

 

 

So’ gocce d’oro chist’acene ‘e grano,

prete prezziose ammullate ‘e sudore

e, quanno d’’o ppane sente ‘addore

è allero ‘o parulano nzieme ô luciano!

.

Addunucchiate, si ‘e spiche so’ cchiene,

vasano ‘a terra ca ll’ha generate;

buriose e ttèseche stanno chell’ate,

chelli vacante pecchè nun so’ prène!

.

Ténnero è’o ppane pe chi s’’o ffatica,

pàsteno ‘o ggrano spaccannese ‘e mmane,

pure cu ‘a pioggia ca spisso è nemica.

.

Nun c’è ricchezza ca le po’ sta’ a pparo,

nun c’è na cosa cchiù sana d’’o ppane

ca, mmiez’ô bbene...è ‘o bene cchiù caro!

 

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

Miti napoletani di oggi.96

IL TEATRO SAN CARLO

 

di Sergio Zazzera

 


So già che più di qualcuno si starà domandando come possa costituire un mito il teatro lirico più antico – e tuttora uno tra i più prestigiosi – del mondo. Chiarisco subito, perciò, che il mito non è costituito dal teatro in sé, bensì da un coacervo di situazioni, sostanzialmente concomitanti, che in questi ultimi tempi si stanno manifestando intorno a esso.

a) Il passaggio dalla gestione Purchia alla gestione Lissner aveva lasciato sperare in una risalita qualitativa dell’istituzione. Poi, però, la pandemia appena conclusasi ne aveva fatto sospendere le attività, riprese in tempi recentissimi, ma nel teatro Politeama e con l’esecuzione delle opere liriche in forma di concerto, poiché, nel frattempo, nel San Carlo era in corso un’operazione di maquillage. Quesito: passi lo spostamento di sede, ma perché non rappresentare le opere in forma scenica?

b) Un decreto legge ad personam invia in quiescenza il soprintendente Lissner, per evidenti motivi politici, proprio quando, cessata la pandemia, egli avrebbe potuto dimostrare di poter realizzare anche a Napoli ciò che aveva realizzato a Parigi (leggi: messa in scena delle opere nel teatro a lui affidato). Quesito: è mai possibile che il nazionalismo (se non anche altro) debba prevalere sulla qualità?

c) La Regione Campania, che da più di un po’ di tempo va dirottando i fondi destinati alla musica c.d. “seria” dal napoletano teatro San Carlo al salernitano teatro Verdi (guarda un po’…), vota contro il bilancio del lirico napoletano (guarda un altro po’…), che, tuttavia, è salvo, grazie al voto favorevole di tutti gli altri componenti del consiglio di amministrazione. Quesito: possibile che sulla qualità debba prevalere, addirittura, anche un regionalismo campanilistico?

Conclusione, ovvero il mito: mentre il Governo compie un passo indietro, rispetto, addirittura, alle XII Tavole che, già alla metà del V secolo a. C., ammonivano: Privilegia ne inroganto, la Regione, dal canto suo, o sottovaluta una istituzione, o ne sopravvaluta un’altra; e – ciò ch’è peggio – l’uno e l’altra pensano che chi è dotato di cervello (correttamente funzionante, s’intende) possa apprezzare in maniera positiva le loro rispettive iniziative.

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

L’incendio tedesco dell’Archivio di Stato di Napoli nel 1943

 

di Antonio La Gala

 

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 i Tedeschi di stanza a Napoli cominciarono a trattare subito la città come una città occupata nemica, distruggendo, saccheggiando, terrorizzando la popolazione inerme con brutalità spietata, secondo il loro celebre copione in materia.

I Tedeschi sapevano che davanti all’avanzata anglo-americana avrebbero dovuto lasciare la città, ma decisero di fargliela trovare distrutta, dopo averla razziata di tutte le risorse, materiali ed umane, alcune da trasferire in Germania. Aiutati e guidati da fascisti locali, ricomparsi dopo essere cautamente scomparsi il 25 luglio, distrussero le attrezzature industriali di S. Giovanni a Teduccio e Bagnoli, quelle portuali e ferroviarie, cabine elettriche, acquedotto, gasometro, banche, edifici pubblici, alberghi; saccheggiarono depositi, rimesse, asportando tutto ciò che potesse essere loro utile.

A dimostrazione della barbarie che li animava, i nazisti non si limitavano a distruggere per finalità belliche, ma anche a titolo di pura gratuità.

Fra le innumerevoli gratuite nefandezze ce ne fu una che colpì gravemente il patrimonio culturale di Napoli e lasciò sgomento il mondo degli studiosi: l’incendio dell’Archivio di Stato.

Nei mesi precedenti, nel marzo 1943, per l’esplosione di una nave nel porto, alcuni spezzoni incendiari avevano sfondato il tetto dell’Archivio di Stato, ospitato dal 1835 nell’ex convento dei Santi Severino e Sossio, bruciando alcuni atti del debito pubblico borbonico. Dopo questo episodio i responsabili dell’Archivio ritennero opportuno trasferire il prezioso contenuto dell’Archivio in un luogo lontano dalla città, che si presumeva non preso di mira dal nemico, scegliendo la Villa Montesano in prossimità di San Paolo Belsito.

Così 866 casse, molte balle, pacchi e pacchetti, presero la via di questa nuova sede, per esservi conservati “al sicuro”.

Ma la scelta non fu felice.

Infatti il 30 settembre i Tedeschi, nel quadro di una rappresaglia verso i contadini del posto, responsabili della morte di un loro commilitone nel difendere derrate e bestiame dalle razzie tedesche, si presentarono armi in pugno a Villa Montesano e, vincendo con estrema facilità la resistenza e le suppliche dell’esiguo personale di custodia, dettero fuoco ai documenti dell’Archivio. La loro barbarie ridusse in cenere, in pochi minuti, secoli di storia.

Tra gli intellettuali addolorati per questa perdita, Benedetto Croce e Fausto Nicolini non riuscivano a farsene una ragione..

Fra le collezioni più importanti incendiate c’erano i circa 500 volumi della Cancelleria angioina, sopravvissuti alle distruzioni fatte dai napoletani stessi nel corso delle frequenti sommosse popolari dei secoli precedenti.

I documenti angioini erano indispensabili per la conoscenza degli atti di governo e amministrativi di quella dinastia, dal 1265 al 1442, e, per estensione, per la conoscenza della storia europea di quel periodo.

Andarono distrutti anche atti della Cancelleria del periodo Aragonese e parte della corrispondenza intercorsa fra uomini di Stato, dal Cinquecento al Settecento.

I documenti angioini, per fortuna, erano stati oggetto di studio fin dal Cinquecento e quindi erano stati trascritti per intero oppure riassunti in numerosi studi, sparpagliati in tutta Europa, consultando i quali è stato possibile, negli anni successivi all’incendio del 1943, ricostruirne in parte il contenuto, grazie soprattutto alle iniziative del Sovrintendente dell’Archivio di Stato dell’epoca, Riccardo Filangieri.

A partire dal 1949 fu così possibile pubblicare progressivamente in volumi il materiale recuperato dei registri della cancelleria angioina, riparando in parte al danno prodotto dal barbaro atto del barbaro occupante del 1943.

(Maggio 2023)

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