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Porta Reale

Porta Reale, una porta girovaga

 

di Antonio La Gala

 

In via Toledo, sulla facciata di palazzo De Rosa, ad angolo con via Cisterna dell’Olio, sono apposte due lapidi. Una di esse ci ricorda che da quelle parti esisteva una porta d’ingresso alla città inserita nella cinta difensiva muraria realizzata nel Cinquecento da don Pedro, appunto, de Toledo.

Era una porta sobria, non decorata, ma recante sul fornice lo stemma di Carlo V, un’aquila a due teste, simbolo che ritroviamo sulla facciata di Castel Capuano e sull’ingresso del castello di sant’Elmo.

L’ubicazione vicino a palazzo De Rosa era l’ultima posizione di una porta che nei secoli “è andata camminando” per Napoli, assecondando l’allungamento del decumano inferiore verso est.

Infatti la sua antenata più antica era la greco-romana Porta Cumana, che si trovava dalle parti di S. Domenico Maggiore, ed era il “capolinea” della strada che collegava Neapolis con Pozzuoli, con l’area flegrea e Cuma. 

Nella seconda metà del Duecento gli Angioini, nel sistemare la zona dell’allora costruenda santa Chiara, di fatto determinarono un allungamento del decumano inferiore (via Capitelli), e una crescita d’importanza della strada, che si è andata poi arricchendo di conventi, fra cui primeggia quello di S. Chiara, e di palazzi di potenti personaggi. 

In conseguenza di questa variazione la Porta Cumana fu spostata in un punto non meglio precisato fra l’attuale piazza del Gesù Nuovo e palazzo Maddaloni, cambiandole il nome in Porta Reale.

In età vicereale, nel 1537, a seguito della costruzione di via Toledo, la porta fu spostata ancora, dove troviamo la lapide, con il nome di Porta Reale Nuova. Poiché stava nelle vicinanze (come ci ricorda la toponomastica), delle cisterne per la conservazione dell’olio, veniva anche chiamata Porta dell’Olio. Stava però anche vicino alla chiesa dello Spirito Santo, e perciò era detta pure Porta dello Spirito Santo.

Con l’intensificarsi del traffico la porta cominciò ad essere di grave intralcio “troppo angusta e presso che deforme; e soprattutto incapace del continuo passaggio delle carrozze, de’ carri e delle some, il che dava origine a scandalosi disordini derivanti dalla strettezza dell’uscita e dalla sfrenata licenza della plebe”.

Nel 1775 fu abbattuta. Dopo quaranta giorni ininterrotti di intenso lavoro (bisognava far fuori anche le costruzioni che le erano cresciute attorno), la via Toledo fu riaperta il 29 maggio in occasione di una corsa di cavalli.

La statua di San Gaetano che la sormontava fu spostata sulla vicina e più nuova Portalba, dove oggi continuiamo a vederla.

L’immagine che accompagna questo articolo mostra la Porta Reale vista da Micco Spadaro nel 1656.

(Giugno 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti) 

Giulio Pacella

Parlanno ‘e poesia

Giulio Pacella

 

di Romano Rizzo

 

Spesso mi sono chiesto perché la figura di un grande poeta come Giulio Pacella si affaccia ancora oggi alla mia mente. Talvolta a me pare quasi di vederlo ancora mentre, con pazienza, attende che venga il suo turno per declamare una delle sue tante belle poesie, sempre impregnate di umanità e così ricche di contenuto.

Un giorno, all’improvviso, ho finalmente compreso che, forse, mi sentivo ancora in debito con lui, per non avergli mai esternato in privato, così come avevo fatto con altri amici, la stima e l’ammirazione che provavo da tempo nei suoi confronti. Probabilmente non lo avevo mai fatto perché la sua figura, sempre seria e distaccata, mi incuteva spesso un po’ di soggezione o tutto era dipeso soltanto dalla mia innata timidezza.

Ho immaginato che anche lui fosse un po’ timido o che quantomeno non apprezzasse per nulla le consorterie. Ricordo solo che, a volte, incontrando degli amici, confidenzialmente lanciava degli strali contro quelli che amavano frequentare dei salotti.

Era un uomo tutto di un pezzo, un po’ all’antica ed io ero, all’epoca, un giocherellone che amava molto verseggiare su temi che raccogliessero il favore dei convenuti di cui godevo i facili consensi.

Giulio, no, era un vero poeta e, in quanto tale, era un po’ geloso delle sue creature dalle quali si separava a fatica vincendo un certo imbarazzo.

Invidiavo a lui il fatto che potesse godere dello incondizionato appoggio dei suoi (la delicata e sensibilissima Ida e il suo impagabile rampollo Giovanni), mentre io ero costretto a remare da solo e…controcorrente! Giulio è sempre stato un autentico grande poeta che rifuggiva da tutto ciò che sapeva di folklore e da sdilinquiti rigurgiti romantici, ma rivestiva di scintillante poesia tutto quello che aveva osservato e amava raccontare.

In tutte le sue composizioni non vi è mai una sia pur pallida traccia di imitazione dei classici, ma, al contrario, c’è chiaramente espressa la volontà di fare qualcosa di nuovo, di dare una veste più moderna ed attuale alla poesia.

Della nostra poesia di cui è stato maestro e innovatore, dovrebbe essere considerato colui che ha dato una veste moderna ed un carattere di “verismo” alle nostre liriche.

Con grande amabilità, inoltre, ci ha regalato spesso in chiusura delle sue gradevolissime composizioni un piacevolissimo assaggio di bonomia, saggezza, napoletanità e di quella ironia che traspariva a volte dal suo eterno sorriso, bonario e sarcastico insieme. Con le sue poesie ha trattato i temi più vari e, quando ha indugiato a descrivere la bellezza di alcuni paesaggi, ha rivelato il suo grande amore per la pittura. La sua poesia è caratterizzata sempre da un felicissimo connubio tra la freschezza del contenuto e la pregevolezza della forma che si avvale di una grande espressività ed è capace di conquistare l’animo del lettore rendendolo partecipe di quell’immenso piacere che può dare solamente qualche grande composizione.

A mio parere, tutta la sua opera andrebbe con cura valutata dalla critica specializzata e collocata, quindi, tra quelle che hanno dato lustro al nostro linguaggio ed al modo di essere di noi napoletani.

E’ stato non solo un grande poeta ma anche un grande innovatore che ha tracciato una nuova strada alla nostra poesia rendendola più vicina al mondo di oggi ma senza perdere la puntigliosa precisione ed accuratezza dei grandi classici.

 

*   *   *

Realtà e poesia

 

Si vuò cuntà cchiù stelle int’’a nuttata

o vuò sentì ll’addore d’erba ‘e mare,

si pienze a na figliola nnammurata

nun t’abbaglià cu ‘a luce d’’e llampare,

.

nun sta’ a sentere ‘o rimmo dint’a ll’onne,

nun te ncantà cu ‘a voce ‘e na sirena

pecchè sti ccose belle nun so’ suonne

o ‘nvenzione ‘e puete ‘e bona vena

.

ca, si sta grazia ‘e Dio nun fosse niente,

si fosse surtanto smania e poesia,

ll’acqua ‘e surgente se farrìa vullente,

.

‘a luna a ll’intrasatta s’addurmesse

e, senza ll’illusione e ‘a fantasia,

‘o calore d’’o sole nun scarfasse !!

 

*   *   *

 

’A musica è cagnata!

 

Me piace ‘e tratteggià cchiù de na cosa

si piglio ‘a penna ‘mmano pe sbarià ;

me piace ‘e ve cuntà na nuvità

e..nun ‘e parlà sempe ‘e terra ‘nfosa !

.

Me piace ‘e cuntà ‘e fatte d’ogne ghiuorno,

‘e Napule ca se ngegna n’ata vesta,

n’appicceco, na femmena, na festa

o ‘e cunfessà na pena senza scuorno.

.

Nun c’è pueta ncopp’a chesta terra

ca nun ha suspirato sott’â luna

pure si ne pateva famme e guerra!

.

Ma mo è ‘o mumento pe cagnà mutivo,

scurdammoce d’’o mare e de na bruna

pecchè spisso…se canta...pe currivo !!

 

*   *   *

 

‘O ppane

 

 

So’ gocce d’oro chist’acene ‘e grano,

prete prezziose ammullate ‘e sudore

e, quanno d’’o ppane sente ‘addore

è allero ‘o parulano nzieme ô luciano!

.

Addunucchiate, si ‘e spiche so’ cchiene,

vasano ‘a terra ca ll’ha generate;

buriose e ttèseche stanno chell’ate,

chelli vacante pecchè nun so’ prène!

.

Ténnero è’o ppane pe chi s’’o ffatica,

pàsteno ‘o ggrano spaccannese ‘e mmane,

pure cu ‘a pioggia ca spisso è nemica.

.

Nun c’è ricchezza ca le po’ sta’ a pparo,

nun c’è na cosa cchiù sana d’’o ppane

ca, mmiez’ô bbene...è ‘o bene cchiù caro!

 

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

L’incendio tedesco

L’incendio tedesco dell’Archivio di Stato di Napoli nel 1943

 

di Antonio La Gala

 

Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 i Tedeschi di stanza a Napoli cominciarono a trattare subito la città come una città occupata nemica, distruggendo, saccheggiando, terrorizzando la popolazione inerme con brutalità spietata, secondo il loro celebre copione in materia.

I Tedeschi sapevano che davanti all’avanzata anglo-americana avrebbero dovuto lasciare la città, ma decisero di fargliela trovare distrutta, dopo averla razziata di tutte le risorse, materiali ed umane, alcune da trasferire in Germania. Aiutati e guidati da fascisti locali, ricomparsi dopo essere cautamente scomparsi il 25 luglio, distrussero le attrezzature industriali di S. Giovanni a Teduccio e Bagnoli, quelle portuali e ferroviarie, cabine elettriche, acquedotto, gasometro, banche, edifici pubblici, alberghi; saccheggiarono depositi, rimesse, asportando tutto ciò che potesse essere loro utile.

A dimostrazione della barbarie che li animava, i nazisti non si limitavano a distruggere per finalità belliche, ma anche a titolo di pura gratuità.

Fra le innumerevoli gratuite nefandezze ce ne fu una che colpì gravemente il patrimonio culturale di Napoli e lasciò sgomento il mondo degli studiosi: l’incendio dell’Archivio di Stato.

Nei mesi precedenti, nel marzo 1943, per l’esplosione di una nave nel porto, alcuni spezzoni incendiari avevano sfondato il tetto dell’Archivio di Stato, ospitato dal 1835 nell’ex convento dei Santi Severino e Sossio, bruciando alcuni atti del debito pubblico borbonico. Dopo questo episodio i responsabili dell’Archivio ritennero opportuno trasferire il prezioso contenuto dell’Archivio in un luogo lontano dalla città, che si presumeva non preso di mira dal nemico, scegliendo la Villa Montesano in prossimità di San Paolo Belsito.

Così 866 casse, molte balle, pacchi e pacchetti, presero la via di questa nuova sede, per esservi conservati “al sicuro”.

Ma la scelta non fu felice.

Infatti il 30 settembre i Tedeschi, nel quadro di una rappresaglia verso i contadini del posto, responsabili della morte di un loro commilitone nel difendere derrate e bestiame dalle razzie tedesche, si presentarono armi in pugno a Villa Montesano e, vincendo con estrema facilità la resistenza e le suppliche dell’esiguo personale di custodia, dettero fuoco ai documenti dell’Archivio. La loro barbarie ridusse in cenere, in pochi minuti, secoli di storia.

Tra gli intellettuali addolorati per questa perdita, Benedetto Croce e Fausto Nicolini non riuscivano a farsene una ragione..

Fra le collezioni più importanti incendiate c’erano i circa 500 volumi della Cancelleria angioina, sopravvissuti alle distruzioni fatte dai napoletani stessi nel corso delle frequenti sommosse popolari dei secoli precedenti.

I documenti angioini erano indispensabili per la conoscenza degli atti di governo e amministrativi di quella dinastia, dal 1265 al 1442, e, per estensione, per la conoscenza della storia europea di quel periodo.

Andarono distrutti anche atti della Cancelleria del periodo Aragonese e parte della corrispondenza intercorsa fra uomini di Stato, dal Cinquecento al Settecento.

I documenti angioini, per fortuna, erano stati oggetto di studio fin dal Cinquecento e quindi erano stati trascritti per intero oppure riassunti in numerosi studi, sparpagliati in tutta Europa, consultando i quali è stato possibile, negli anni successivi all’incendio del 1943, ricostruirne in parte il contenuto, grazie soprattutto alle iniziative del Sovrintendente dell’Archivio di Stato dell’epoca, Riccardo Filangieri.

A partire dal 1949 fu così possibile pubblicare progressivamente in volumi il materiale recuperato dei registri della cancelleria angioina, riparando in parte al danno prodotto dal barbaro atto del barbaro occupante del 1943.

(Maggio 2023)

TEATRO SAN CARLO

Miti napoletani di oggi.96

IL TEATRO SAN CARLO

 

di Sergio Zazzera

 


So già che più di qualcuno si starà domandando come possa costituire un mito il teatro lirico più antico – e tuttora uno tra i più prestigiosi – del mondo. Chiarisco subito, perciò, che il mito non è costituito dal teatro in sé, bensì da un coacervo di situazioni, sostanzialmente concomitanti, che in questi ultimi tempi si stanno manifestando intorno a esso.

a) Il passaggio dalla gestione Purchia alla gestione Lissner aveva lasciato sperare in una risalita qualitativa dell’istituzione. Poi, però, la pandemia appena conclusasi ne aveva fatto sospendere le attività, riprese in tempi recentissimi, ma nel teatro Politeama e con l’esecuzione delle opere liriche in forma di concerto, poiché, nel frattempo, nel San Carlo era in corso un’operazione di maquillage. Quesito: passi lo spostamento di sede, ma perché non rappresentare le opere in forma scenica?

b) Un decreto legge ad personam invia in quiescenza il soprintendente Lissner, per evidenti motivi politici, proprio quando, cessata la pandemia, egli avrebbe potuto dimostrare di poter realizzare anche a Napoli ciò che aveva realizzato a Parigi (leggi: messa in scena delle opere nel teatro a lui affidato). Quesito: è mai possibile che il nazionalismo (se non anche altro) debba prevalere sulla qualità?

c) La Regione Campania, che da più di un po’ di tempo va dirottando i fondi destinati alla musica c.d. “seria” dal napoletano teatro San Carlo al salernitano teatro Verdi (guarda un po’…), vota contro il bilancio del lirico napoletano (guarda un altro po’…), che, tuttavia, è salvo, grazie al voto favorevole di tutti gli altri componenti del consiglio di amministrazione. Quesito: possibile che sulla qualità debba prevalere, addirittura, anche un regionalismo campanilistico?

Conclusione, ovvero il mito: mentre il Governo compie un passo indietro, rispetto, addirittura, alle XII Tavole che, già alla metà del V secolo a. C., ammonivano: Privilegia ne inroganto, la Regione, dal canto suo, o sottovaluta una istituzione, o ne sopravvaluta un’altra; e – ciò ch’è peggio – l’uno e l’altra pensano che chi è dotato di cervello (correttamente funzionante, s’intende) possa apprezzare in maniera positiva le loro rispettive iniziative.

(Maggio 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)

Alonge

Il poeta del giorno

 

di Romano Rizzo

 

Antonino Alonge (Palermo, 20 Settembre 1871 - Milano, 13 Agosto 1958)

Poeta e giornalista, visse fin da bambino a Napoli ed anche quando dovette trasferirsi portò questa città sempre nel cuore.

Collaborò al don Marzio, al Mattino, al Giornale di Sicilia, a l’Ora, alla Gazzetta dell’Emilia e al Corriere della Sera.

Pubblicò, nel 1888, a soli 17 anni, Cusarelle, cui seguirono Pennellate napoletane, nel 1934, e Aria di Napoli, con la prefazione di Benedetto Croce, nel 1952.

I suoi versi ricevettero le “ambitissime lodi” di Ferdinando Russo e Roberto Bracco.

Di seguito, un breve saggio della sua produzione.

 

‘A sciuliarella

::::::::::::::::::::

 Quanno i’ passo mmiez’â ggente

comme fosse nu stunato

che nun vede e che nun sente

chi sa quante hanno penzato

che so’ n’ommo scumbinato,

anze peggio, n’ommo ‘e niente.

.

Ma nisciuno ha ‘nduvinato

ca è tristezza sulamente;

so’ ‘e ricorde d’’o ppassato

che avvelenano ‘o ppresente

e s’affollano ‘int’â mente

nu penziero appriesso a n’ato…

.

Tutt’’e ccose malamente

che aggio visto e aggio pruvato,

tutte ‘e ‘nfamità d’’a ggente,

tutte ‘e guaje che aggio passato !

I’..so’ n’ommo amariggiato

e nun già distratto ‘e mente..

 

Si’, però nun dico niente ;

che aggi’’a ddì? me so’ seccato!

cerco ‘e fà ll’indifferente,

ma nun è che so’ cagnato :

è ‘o vveleno d’’o passato,

è ‘a tristezza d’’o presente..!!

(Aprile 2023)

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