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La chiesa della Cesarea

La chiesa della Cesarea

 

di Antonio La Gala

 

“La Cesareaè il primo tratto di via Salvator Rosa che sale verso il Vomero dopo piazza Mazzini (il personaggio del monumento che s’incontra nella piazza non è Mazzini ma Matteo Renato Imbriani), tratto comunemente così chiamato in ricordo di un potente notabile del Seicento della zona, Annibale Cesareo, che nel 1602 fondò la Chiesa di Santa Maria della Pazienza, detta comunemente Chiesa della Cesarea,che troviamo poco dopo la piazza, salendo, sulla sinistra, facente parte di un complesso che comprendeva anche un ospedale.

Lungo la Cesarea, nello spazio di poche centinaia di metri, nel Seicento, oltre detta chiesa, si addensarono altre fabbriche religiose, fra cui evidenziamo la Chiesa della Trinità alla Cesarea e il Convento di San Francesco di Sales.  

La Chiesa di Santa Maria della Pazienza è così denominata per la presenza nell’area presbiterale di una tavola ad olio di ignoto manierista, che ritrae per l’appunto la Madonna della Pazienza. 

Fu fondata da quell’Annibale Cesareo che a cavallo fra Cinque e Seicento a Napoli andava fondando chiese un pò dappertutto. Il Cesareo la finanziò nel 1601, dopo aver abbandonato il finanziamento del convento e chiesa di Santa Maria della Libera, per disaccordi con i religiosi di quel convento.

Per la chiesa della Cesarea, oltre a una forte somma, il Cesareo mise a disposizione un suolo di sua proprietà, posto tra l’allora nuova strada dell’Infrascata (oggi via Salvator Rosa), e un’antica mulattiera, per realizzare un Istituto per la cura spirituale delle anime (la chiesa) e per quella del corpo di infermi (l’annesso ospedale).

La posa della prima pietra di chiesa e ospedale avvenne nel 1602, con lavori inizialmente affidati a Domenico Fontana, che però poco dopo (nel 1607), morì.

La costruzione del tempio terminò attorno al 1636 ed esiste documentazione di numerosi e significativi interventi successivi, protrattisi anche nel Settecento, secolo a cui risalgono molte delle tele di argomento sacro che si trovano all’interno del tempio.

Inizialmente, per interessamento del potente Cesareo, il complesso chiesa-ospedale

godette di una larga autonomia rispetto alle autorità clericali e civili della città, fino a che, in occasione degli espropri del primo Ottocento, l’ospedale fu annesso al Reale Albergo dei Poveri, e la chiesa, nel 1876, entrò anch’essa sotto la giurisdizione dell’Arcivescovo di Napoli, ed eretta a parrocchia nel 1933.

Il Cesareo fondò questa chiesa con l’intesa di trovarvi una importante sepoltura, cosa che non aveva ottenuto dai domenicani di Santa Maria della Libera.

E in effetti qui ha trovato sepoltura in un bel monumento scolpito dal noto scultore Michelangelo Naccherino, visibile in vicinanza dell’altare maggiore, a sinistra.    

 

All’esterno la chiesa presenta un’impronta tardorinascimentale, chiusa da un frontone triangolare e affiancata da un campanile e con una incavatura posta sopra il portale dove c’è una statua della Vergine con Bambino, datata 1638.

L’interno è a navata unica con cappelle laterali molto profonde, e vi sono esposte, diffuse in vari punti della chiesa, numerose tele di soggetti sacri, opere di buoni artisti, fra cui Giovani Battista Lama, il maggior autore presente nel tempio, e Lorenzo De Caro.

Questa chiesa ha ospitato anche Padre Pio. Infatti il santo frequentò questa chiesa, celebrando anche Messa, dal 5 settembre al 6 ottobre 1917, quando era assegnato come militare alla decima Compagnia di Sanità, allora accasermata nell’ex convento di San Francesco di Sales.

Dai brevi cenni qui esposti emerge che la Cesarea è un luogo che, passandovi, meriterebbe maggiore attenzione per le sue testimonianze storiche e artistiche, attenzione che, è comune esperienza, invece viene necessariamente rivolta a superare le costanti difficili situazioni del traffico veicolare. 

(Agosto 2020)

PIAZZALE TECCHIO

Miti napoletani di oggi.80

PIAZZALE TECCHIO

 

di Sergio Zazzera

 

Dopo via Cimarosa, tocca ora a piazzale Tecchio la sorte della pretesa (mitica, naturalmente) d’immutabilità della toponomastica. La proposta del sindaco di Napoli (una volta tanto!) di reintitolare il piazzale a Giorgio Ascarelli ha incontrato l’opposizione di un vasto movimento di opinione, che va da un comitato di residenti di Fuorigrotta fino all’autorevole Società napoletana di storia patria; opposizione motivata, in via principale, col disagio che ne deriverebbe agli abitanti, perfino all’atto della ricezione della corrispondenza (sic). Poi, la soluzione individuata sarebbe quella di battezzare piazza Ascarelli lo spazio antistante lo stadio, lasciando la denominazione di piazzale Tecchio a tutta la parte residua; soluzione, questa, che mi sembra assolutamente insoddisfacente e mi spiego.

Giorgio Ascarelli (nella foto), giovane imprenditore napoletano di etnia (per favore, non dite “razza”) ebraica, morto ad appena 36 anni, è stato il fondatore della s.s.c. Napoli (sì, quella che quest’anno ha vinto la Coppa Italia); a lui fu intitolato lo stadio che sorgeva a Ponticelli e che le limitate dimensioni, durante il secolo scorso, fecero dismettere, così che il ricordo di lui rimane affidato, se non altro, soltanto alla sua tomba, nel Cimitero israelitico. A sua volta, Vincenzo Tecchio, avvocato e parlamentare della famigerata “era fascista”, è stato il fondatore della Mostra d’Oltremare, che apre i cancelli proprio sul piazzale che, perciò, fu a lui dedicato. Due figure, dunque, che si collocano, rispettivamente, dalla parte dei perseguitati e da quella dei persecutori.

Ciò non avrebbe potuto giustificare, però, a mio avviso, la pretesa né della conservazione del toponimo, né della sua sostituzione: da una parte, infatti, la storia esige che sia conservata la memoria sia del “bene”, che del “male” (semplifico, giusto per richiamare le due categorie proprie del manicheismo); dall’altra, non è giusto che la memoria del fondatore della squadra – che gioca i suoi incontri proprio su quel piazzale – cada nel dimenticatoio o, alla peggio, si radichi altrove. In entrambi i casi, infatti, daremmo vita a un mito.

La soluzione che avrei proposto io sarebbe la seguente. È un dato di fatto che il piazzale Tecchio contende a piazza Garibaldi e a piazza Municipio il primato dell’ampiezza a Napoli, estendendosi dalla stazione F.S. di Fuorigrotta fino allo Stadio San Paolo. Ed è un altro dato di fatto che esso ospita, da una parte, la “creatura” di Tecchio e, dall’altra, l’attuale “casa” della “creatura” di Ascarelli. Per di più, l’irregolarità della sua forma è tale che, tracciando un ideale segmento di retta dallo spigolo meridionale della stazione fino all’edificio del C.N.R. contiguo allo stadio, si viene a individuare uno spazio, antistante alla Mostra d’Oltremare, che potrebbe continuare a essere intitolato a Tecchio, mentre tutto il residuo potrebbe essere ribattezzato piazza Giorgio Ascarelli. Se si riflette, anzi, sulla prima di tali aree insistono soltanto i cancelli della Mostra e l’albergo/ex-Palazzo dei congressi, con il che non si determinerebbe neppure il ventilato disorientamento degli abitanti e dei portalettere, poiché non sarebbe necessario modificare la numerazione civica. Sono sicuro che, per tal modo, si darebbe maggiore evidenza a un esponente di punta della categoria dei perseguitati dal regime, piuttosto che a un amico dei loro persecutori.

(Luglio 2020)

Credenze napoletane (1)

Credenze napoletane (1)

Riti e superstizioni

 

di Alfredo Imperatore

 

Se c’è una credenza che accomuna tutte le persone, nei vari angoli della terra, essa è la superstizione che spesso, in molti popoli, anticamente, ma anche al giorno d’oggi, coesiste con riti pseudo-religiosi. Infatti, nei momenti di maggiore difficoltà della vita, le persone si dimostrano non solo più rispettose e osservanti dei canoni religiosi, ma, nel contempo, diventano più attente ad evitare iettatori (oggi si preferisce dire “persone che portano sfiga”) e influssi malefici vari.

La superstizione, d’altronde, entra con forza nella “commedia umana” che il medico, più d’ogni altra persona, è chiamato ad affrontare nella sua quotidiana attività, in quanto molti pazienti hanno la fissazione di ritenere che i propri malanni dipendano da circostanze esterne.

Invero, la superstizione consiste proprio nell’attribuire a persone, animali, cose ed eventi naturali delle proprietà assolutamente immaginarie, che possano addirittura influire sul corso degli accadimenti. A questo atteggiamento, che potremmo definire psico-patologico, non sfuggono, ovviamente, i napoletani e i i meridionali in genere, che anzi, come si addice al loro carattere, rispondono ancor più alle sollecitazioni psico-fisiche.

Esiste una corposa sapienza su come difendersi dal malocchio e dalle malìe in genere, che va dalle cantilene ai gesti più o meno scomposti, tra cui primeggiano le corna. Fin dai tempi degli antichi Romani, le matrone avevano l’abitudine di portare un anello-amuleto all’indice e al mignolo di una mano, per cui, estendendo queste dita e piegando le altre tre, si riproducevano, fin da allora, le corna, che avrebbero avuto effetto benefico per chi le faceva, e malefico per coloro ai quali erano dirette. Nihil novi sub sole.

Un altro gesto scaramantico, molto diffuso, è rappresentato dallo sfregare (grattare) i testicoli. Il testicolo, dal lat. testiculum, diminutivo di testis, per i nostri antichi avi, significava sia testicolo che testimone e, in campo sessuale, era considerato testimone della virilità. Che i testicoli fungessero da testimoni è attestato anche dall’usanza di antiche popolazioni, come ad es. gli Israeliti, i quali, quando giuravano, ponevano una mano sui genitali, quasi fossero un simbolo del loro onore.

Le streghe in napoletano si chiamano janare, la cui etimologia è controversa: per alcuni il lemma proverrebbe dal nome della divinità pagana Diana; per altri, e forse più verosimilmente, dal latino ianua = porta, perché esse sarebbero una specie di Befane che entrano nelle case passando al di sotto della porta, con l’unica differenza che, invece di portare doni, portano disgrazie.

Esiste in natura un’erba sempreviva, chiamata semprevivum tectorum, che cresce sui tetti delle case e, col tempo, smuove le tegole, procurando danni; in napoletano è detta: ogna de janara (unghia di janara).

Ma chi erano le streghe? Nella credenza popolare erano delle creature di sesso femminile, con aspetto di vecchie, brutte e ripugnanti, dotate di poteri magici e malefici.

Già il diritto romano contemplava il reato di stregoneria, che era punito con la condanna a morte. Poi, anche il cristianesimo, specie con sant’Agostino, che elaborò una fortunata dottrina, secondo la quale la riuscita delle operazioni magiche era dovuta all’aiuto dei dèmoni, perseguitò alcune di quelle presunte streghe, che altro non erano che povere donne, anziane e malandate.

Verso la metà del sec. XII, si fece strada l’idea che le streghe si riunissero in diversi luoghi per compiere i loro magici riti, chiamati “sabba”. Sarebbero stati dei convegni settimanali che, nella credenza medievale, le streghe avrebbero svolto di sabato per mettere a punto le loro stregonerie. In Italia, queste riunioni si sarebbero tenute presso il Passo del Tonale e il Noce di Benevento. È probabile che, da questa credenza, sia scaturito il nome del famoso e prelibato liquore “Strega”, prodotto a Benevento.

Agli inizi del XIII secolo, con l’istituzione del tribunale dell’Inquisizione, la “caccia alle streghe” fu legalizzata e si ebbero i primi processi e le prime condanne al rogo, che era la forma di supplizio cui erano assoggettati gli eretici.

Col tempo, l’attività dei tribunali, sia ecclesiastici che laici, si andò intensificando con l’accrescersi della persuasione che fossero assolutamente reali i poteri malefici delle streghe, ottenuti tramite un patto col diavolo.

Per l’individuazione delle streghe si adoperava una tecnica estremamente facile: bastava identificarne una, sottoporla ad atroci torture affinché rivelasse i nomi delle sue consimili, e lei, pur di farla finita, dichiarava due o tre nomi di conoscenti, parenti, amiche o nemiche che fossero. Queste, a loro volta, venivano arrestate, torturate perchè confessassero e rivelassero altri nomi di pseudo-streghe, e così via, per poi essere mandate, comunque, al rogo. In tal modo, diverse migliaia di persone furono crudelmente immolate sull’altare della crassa imbecillità.

A tal proposito, mi sovviene ciò che lessi nel libro <Kruscev ricorda> circa le “purghe staliniane”, iniziate nel 1934 con il pretesto dell’uccisione di Sergei Mironovic Kirov. Nel libro, Kruscev riferisce che, verso chiunque fosse caduto in sospetto, Beria era solito dire: “Sentite, lasciatemelo per una notte e gli farò confessare di essere il re d’Inghilterra.”

 (Nel prossimo numero: «’A bella ’mbriana e ’o munaciello»)

(Giugno 2020)

L’abbandono dei Vergini

L’abbandono dei Vergini

 

di Antonio La Gala

 

I quartieri napoletani compresi fra via Foria e le alture di Capodimonte sono nati come borghi abusivi fuori le mura della città, quando, soprattutto in epoca vicereale, l’abnorme crescita della popolazione si riversò fuori la città murata, nonostante che le numerose, severe e reiterate “prammatiche” spagnole, lo vietassero.

Quest’area era già stata zona di espansione della città, a partire dall’epoca greco-romana, ma nel ruolo di necropoli esterna alla città, come testimoniano le catacombe e le sepolture che vi sono sorte (le catacombe di San Gennaro, di San Gaudioso alla Sanità, di San Severo, le Fontanelle, ecc.).

In epoca vicereale, lungo i percorsi che in quest’area (la valle dei Vergini e contigua valle della Sanità), congiungevano la città murata ai luoghi di sepoltura, iniziarono a insediarsi abitazioni abusive, alcuni complessi conventuali e, successivamente, specialmente nel Settecento, residenze aristocratiche.

Sono gli insediamenti che oggi troviamo lungo il percorso che da Porta San Gennaro, scavalcata via Foria, dopo essersi diramato in due brevi strade, si riunifica e sfocia nel largo dei Vergini, dopo il quale, il percorso si dirama ancora in due vie: via Arena alla Sanità e via Cristallini.

In questo articolo osserviamo più da vicino ciò che troviamo attorno a questo “largo”, cioè il cosiddetto “borgo dei Vergini”.

L’antichità di presenze nel borgo è testimoniata dal rinvenimento, nell’area fra via dei Vergini, vico Tretta, i Cristallini e Santa Maria Antesecula, ad una decina di metri di profondità, di ipogei funerari di età ellenistica, sotto forma di camere scavate nel tufo, talvolta con pareti decorate da bassorilievi o affreschi.

In effetti in quell’area, prima della nascita del borgo, si erano sviluppati vasti nuclei cimiteriali di tombe gentilizie, allineate lungo i percorsi di collegamento con la parte della città interna alle mura, tombe spesso scavate nelle pareti tufacee scoscese in cui  questi percorsi correvano, cioè avevano l’ingresso  al livello del terreno di allora.

Nei secoli successivi, l’accumularsi di detriti trasportati dalle numerose e disastrose alluvioni (le cosiddette “lavedei Vergini”), è andato coprendo il fondo dei percorsi e le tombe che vi si aprivano, affondandone l’ingresso, trasformandole in tombe ipogee. Alcune di esse sono state scoperte, recentemente, per caso, durante qualche scavo sotto alcuni fabbricati; altre sono rimaste inesplorate (e lo rimarranno per sempre), sotto altri fabbricati.

La denominazione del luogo, “I Vergini”, deriva dal fatto che fra i nuclei sepolcrali di età classica, vi era nell’area detta poi dei Vergini, quello della fratria degli Eunostidi, adoratori di Eunosto, nume del misogenismo, i quali pare facessero voto di castità, dando così la denominazione al luogo, tant’è che la denominazione declina Vergini al maschile: “I Vergini”.

In età cristiana il sorgere di catacombe e connesse basiliche, conferirono all’area un carattere sacrale, che favorì il sorgere di complessi conventuali e assistenziali, motivo per cui, nello spazio di poche decine di metri, nel borgo dei Vergini troviamo ben quattro chiese: la chiesa di Santa Maria della Misericordia o Misericordiella ai Vergini, già esistente nel Cinquecento; la quasi contigua chiesa di Santa Maria Succurre Miseris, sorta nel Trecento; la chiesa di Santa Maria dei Vergini, le cui origini risalgono al 1326, e la vicina chiesa della Missione dei Padri di San Vincenzo dei Paoli dove incontriamo Luigi Vanvitelli, qui chiamato ad ampliare, dal 1756 al 1764, il complesso esistente, sistemando fabbriche già costruite da altri nei decenni precedenti.

Nel primo Settecento, nella fioritura dell’ultima fase del barocco, il rococò, Ferdinando Sanfelice, il più grande architetto napoletano di quello stile, fra il 1723 e 1726 impreziosì il borgo dei Vergini con due delle sue più riuscite creazioni: il palazzo dello Spagnuolo, in via dei Vergini e palazzo Sanfelice, in via Arena della Sanità. 

Tenendo conto di quanto fin qui esposto, possiamo ben dire che il borgo dei Vergini, con le sue memorie di età classica, i suoi conventi, le sue chiese, i suoi palazzi aristocratici, costituisce un luogo particolarmente ricco di storia; racchiude un patrimonio storico, artistico, culturale, il quale meriterebbe ben altra visibilità, promozione e conservazione di quelle che la città gli ha sempre riservate e che gli riserva tuttora. Cioè nessuna, ma abbandono e offese collettive quotidiane.

Non per ripetere uno dei luoghi comuni che riguardano non laudativamente la nostra città (che gli ipercampanilisti esorcizzano come malevoli pregiudizi), si potrebbe ben dire: “se questo patrimonio stesse a un’altra parte…”.

La figura che accompagna questo articolo mostra la facciata di Santa Maria dei Vergini.

(Luglio 2020)

 

 

Via Cimarosa

Miti napoletani di oggi.79

VIA CIMAROSA

 

di Sergio Zazzera


 

Con Aldo Masullo, spentosi il 24 aprile scorso, se n’è andato un altro tassello del mosaico culturale napoletano contemporaneo: lo avevo incontrato l’ultima volta, verso la fine del 2019, nella sede dell’Accademia Pontaniana, e ne avevo apprezzato la lucidità, ancora alla sua età, a dispetto delle – pur comprensibili – condizioni fisiche.

L’idea d’intitolargli lo spazio antistante alle scale di via Cimarosa, dove egli amava soffermarsi durante le sue passeggiate, ha determinato la nascita di una sorta di “partito di opposizione”, che motiva la propria avversione col fatto che l’articolazione unitaria di via Cimarosa – da via F. P. Michetti a via Aniello Falcone – ne risulterebbe interrotta, dando luogo anche a una forma di “crisi d’identità” nei residenti del posto, abituati a dire di abitare in via Cimarosa.

Invito, perciò, il gentile (e paziente!) lettore a fare con me quattro passi attraverso la città, in cerca d’illustri precedenti.

Parto proprio dal Vomero, con via Bernini, che, lungo il suo percorso da via Cimarosa (proprio) a piazza Fanzago incontra piazza Vanvitelli, la più ampia del quartiere.

Poi mi trasferisco altrove: corso Umberto, che da piazza Garibaldi a piazza Bovio attraversa piazza Nicola Amore, e corso Garibaldi, che da via Marina a piazza Carlo III s’imbatte in ben quattro di esse: piazza Guglielmo Pepe, piazza Garibaldi, piazza Principe Umberto e piazza Volturno.

Mi si dirà che in tutti questi casi la numerazione civica delle piazze è autonoma, rispetto a quella della strada, mentre nel caso di via Cimarosa essa rimarrebbe immutata, pur con la variazione della toponomastica. E, allora, vi invito a venire con me in piazza Quattro Giornate, che era un tratto di via Gemito e che, pur dopo aver cambiato denominazione, ha conservato la numerazione di palazzi e botteghe.

Ora, posso capire anche che il buon Masullo possa essersi reso antipatico a taluni (magari, suoi ex-allievi, bocciati, sicuramente perché impreparati), ma celare tale antipatia dietro le motivazioni di cui sopra è falso linguaggio, cioè mito.

(Giugno 2020)

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