L’Arte per la pubblicità di un santo
di Antonio La Gala
Fra i figli del secondo re angioino di Napoli, Carlo II, c’era Ludovico, che non divenne re perché morì presto, ma che fece in tempo a diventare santo.
Un santo in una stirpe, quella angioina, i cui re e loro parenti - come scrive Pietro Colletta - “nei penetrali della reggia nascondevano enormi delitti”, sicuramente era una formidabile carta mediatica da giocare a fini politici.
Anche perché - è sempre Colletta che ce lo ricorda - gli Angioini, “nefandi nei penetrali della reggia, erano sulla scena del trono riverenti alla Chiesa, ergevano ed arricchivano templi e monasteri, davano dominio ai papi, concedevano privilegi agli ecclesiastici”.
Anche allora, come oggi fra i “penetrali” del potere (di ogni potere, di ogni genere e forma) e la “scena” mediatica di ineccepibile moralità, qualche incoerenza c’era. Nulla di nuovo sotto il sole.
Torniamo agli Angioini.
Ludovico era animato da sincero e ardente fervore religioso e seguì la vocazione: divenne frate e, per di più, sebbene di stirpe regale, dell’ordine più pauperistico, quello francescano.
Subito fu ordinato diacono, poi sacerdote, nella chiesa di san Lorenzo Maggiore, e infine, controvoglia (noblesse oblige), fu nominato vescovo di Tolosa dal papa Bonifacio VIII, quello di dantesca memoria.
Ludovico morì a soli 23 anni, nel 1287, forse anche a causa dei severissimi stenti, sacrifici e mortificazioni corporali a cui si autosottoponeva.
Con procedure veloci (i buoni rapporti fra papi e re “devoti” accorciano i tempi “burocratici”), fu canonizzato nel 1317.
Re Roberto non si fece scappare l’occasione di sfruttare mediaticamente l’occasione di avere un fratello santo, per celebrare il casato, la corona, ecc.
Per essere efficace il “messaggio” mediatico doveva essere ben visibile, forte, ben studiato in che cosa comunicare e come comunicarla.
Roberto pensò di affidare il messaggio propagandistico a un grande dipinto in una grande chiesa del regime angioino. Allora non c’era la televisione: i messaggi visivi li comunicavano le pareti delle chiese.
Commissionò una grande pala d’altare raffigurante san Ludovico di Tolosa da collocare nella chiesa di san Lorenzo. Il dipinto risultò composto da una tavola principale e da una predella articolata in cinque riquadri in cui venivano raccontate storie della vita del santo.
In una grande chiesa posta al centro di una città, che allora si percorreva a piedi in pochi minuti e in un’epoca in cui si entrava e usciva dalle chiese, tale megadipinto non sarebbe rimasto inosservato.
La visibilità era assicurata.
Per avere forza il dipinto-messaggio doveva avere anche un autoredi richiamo, un pittore di alto livello, un grande pennello per una grande opera, un’opera “d’autore”, “firmata”, e firmata da una painting star.
Sul mercato artistico del momento brillava la star senese Simone Martini, che proprio in quegli anni aveva accresciuto la sua quotazione con la Maestà nel palazzo pubblico di Siena.
Come avverrà secoli dopo per le star del calcio, l’ingaggio fu alto: cinquanta once d’oro e il titolo di Cavaliere, titolo che allora era un alto segno di prestigio e di degnità.
Assicurata la visibilità e l’autorevolezza del messaggio, occorreva ora studiare bene che cosa comunicare e come comunicarlo con efficacia.
Doveva costituire un “segnale” che comunicasse visivamente, assieme, alti valori religiosi e la magnificenza della casata.
Per ottenere questo risultato, però, bisognava “forzare” un po’ la cosiddetta “verità storica”.
Ludovico che aveva scelto una vita di stenti e sacrifici, e forse per questo era morto, e indossava vesti “sordide e dilacerate”, doveva essere raffigurato in tutt’altra maniera.
E infatti, nel dipinto del cavalier Simone Martini, il santo appare con aspetto non macerato, ma sereno, distaccato, regale; indossa un ampio e morbido saio e un sontuoso piviale con una larga bordura in oro, chiuso da un gran fermaglio circolare in vetro smalto ed è seduto su una specie di sedia dorata e decorata, coperta da una lussuosa stoffa, poggiata su una base lignea finemente intarsiata alla certosina.
Inoltre compare in un apparato iconografico che rappresenta la santità con autorevolezza ed eleganza. Due angeli lo incoronano con una raffinatissima corona, una via di mezzo fra la corona per re e quella per santi.
Ovviamente, essendo lui il beneficiario del messaggio, il re Roberto. Il committente, doveva comparire nel quadro. Per un riguardo alla santità, vi appare di dimensioni ridotte rispetto al fratello santo, inginocchiato, ma comunque nell’atto di ricevere da Ludovico, mediante un’altra elegante corona, una “santa” investitura.
L’incorniciatura della pala di legno dorato porta gigli araldici a rilievo; in tutta la tavola i decori sono raffinatissimi, tutti elementi che trasmettono ancora di più il messaggio di potere, dignità, eleganza del committente.
In origine la pala era ornata di vere pietre preziose incastonate nelle corone, nella mitra, negli anelli, ecc.
Il giudizio “spirituale” sulla strumentalizzazione mediatica del santo in famiglia è difficile, perché è vero che Roberto fece “ritoccare” a fini propagandistici la verità storica sul sacrificio che con coerenza Ludovico aveva fatto della propria vita per seguire un ideale religioso, ma non va dimenticato che lo stesso Roberto negli ultimi anni della sua vita fu colto da una crisi mistica che lo portò a prendere i voti dei Francescani Spirituali che vivevano nel convento di santa Chiara, in assoluta povertà.
Tuttavia, crisi mistica di Roberto a parte, si può però giustamente ritenere che un santo in mezzo agli Angioini che non disdegnavano di assassinarsi fra di loro, è un po’ fuori posto.
La pala d’altare qui descritta comunque è una delle opere più rappresentative del Trecento italiano in cui Simone Martini raggiunge alti livelli di purezza, nonostante l’indulgenza a certe piacevolezze ornamentali.
(Giugno 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)
Non mi piace il rococò
di Antonio La Gala
Un autore del Settecento, Pietro Napoli-Signorelli, commentando l’arte della sua epoca biasimava l’architettura napoletana della prima metà del suo secolo.
Sosteneva che prima di Carlo III Borbone avevano operato “ingegnosi e dotti architetti”, tuttavia però si erano “alzati” molti edifici “che ci danno più motivo di compatire che di ammirare”, perché “l’ambizione di ornare suggeriva agli architetti cartocci, fregi, torcimenti di colonne, centinature, frondi, frutti, fasce e cose simili, che feriscono il gusto e offendono la vista di chi è avvezzo ai prodigi naturali della bella semplicità”.
Poi se la prendeva con i singoli artisti.
Lodava Domenico Antonio Vaccaro come scultore e pittore, ma lo stroncava come architetto, per aver voluto “seguire un ordine irregolare, per solo amore di novità, lontano dall’architettura greca, etrusca e romana, e [seguire] ornati bizzarri incartocciati e caricati dagli stucchi”.
Biasimava Ferdinando Sanfelice, reo “d’inventar senza legge, che eccedette, supponendo maggior gloria nell’inventar senza [seguire] l’esempio dei Palladii e dei Sansovini”.
In effetti la produzione artistica napoletana nella prima metà del Settecento era un’evoluzione del Barocco, e viene indicata anche come barocchetto o tardo barocco. Pur conservando la fantasiosità decorativa del Barocco, ne perse la solennità, la monumentalità, per acquistare delicatezza e raffinatezza. Il passaggio architettonico dal Seicento al Settecento vide l’affermarsi incontrastato, nella committenza privata, di Ferdinando Sanfelice (1675-1748) e Domenico Antonio Vaccaro (1681-1750), che assieme ad altri protagonisti minori, svilupparono una sintesi di architettura e pittura.
Poi, prosegue Pietro Signorelli, per fortuna venne Carlo III che “nel mettere in movimento gli ingegni napoletani e svegliarli, adoperando l’arte dell’emulazione, invitò da Roma il Carnevari, il Fuga e Luigi Vanvitelli, per innalzar fra noi edifici sontuosi e ricondusse per tal mezzo la nostra architettura alla verità e alla semplicità onde si era allontanata”. In effetti negli anni influenzati da Carlo III, Luigi Vanvitelli e Ferdinando Fuga dominarono il campo della committenza pubblica.
L’immagine che accompagna questo articolo mostra l’interno della chiesa di S. Chiara, nata nel Trecento in forme gotiche, come appariva nel primo Novecento, con le sovrapposizioni barocche, prima di essere riportato allo stile originario dopo i restauri conseguenti ai bombardamenti del 1943.
(Maggio 2023)
Sebastiano Conca, pittore smagliante e decorativo
di Antonio La Gala
Una strada molto nota, che incontriamo nella fascia di collegamento fra i quartieri Vomero e Arenella, è intitolata al pittore Sebastiano Conca. Conosciamolo più da vicino.
Sebastiano Conca, maggiore di dieci fratelli, nacque a Gaeta attorno al 1680 e studiò a Napoli, dove fu allievo del Solimena, con cui collaborò per alcuni affreschi nell'abbazia di Montecassino.
A ventisei anni si trasferì a Roma, col fratello Giovanni, che fu il suo assistente, e dove lavorò quasi fino alla settantina. A Roma, combinando in forme eleganti il suo stile esuberante di scuola napoletana con quello più delicato della scuola romana, incontrò molto favore e la sua attività gli procurò importanti amicizie nell’ambiente cardinalizio e anche presso i papi, ottenendo ambite onorificenze, fra cui il titolo di “cavaliere” con cui viene ricordato in molte biografie.
Fra le opere romane ricordiamo gli affreschi del soffitto di Santa Cecilia in Trastevere. Lavorò poi a Torino, presso la corte sabauda e nell'oratorio di San Filippo e nella chiesa di Santa Teresa. Dopo aver seminato di pale d’altare l’Italia Centrale, Conca ritornò a Napoli definitivamente nel 1751, dove riprese a dipingere secondo i modi del barocco locale egemonizzato da Luca Giordano, prima nella chiesa di San Pietro Martire al Rettifilo e in alcuni affreschi nella Chiesa di Santa Chiara, andati distrutti nel bombardamento del 1943, oggi conoscibili solo attraverso fotografie.
Ha lasciato opere anche nel Gesù Nuovo e in alcune chiese della penisola sorrentina.
La sua pittura, guidata da grande abilità tecnica, da conoscenza della prospettiva e della scenografia, movimentata e smagliante, si esprime in affreschi e tele abbaglianti e illusionistici, una cifra stilistica che potremo definire decorativa. Morì a Napoli nel 1776, quasi centenario.
(Marzo 2023 - Gli articoli vengono riprodotti quali ci sono pervenuti)
Il pittore Carlo Striccoli
di Antonio La Gala
Un esponente di rilievo della pittura napoletana del Novecento è Carlo Striccoli.
Nacque ad Altamura, in Puglia, nel 1897, e venne a Napoli alla vigilia degli anni Venti, per studiare all'Accademia delle Belle Arti di Napoli. Qui raccolse la lezione di Paolo Vetri, Vincenzo Volpe, ma soprattutto di Michele Cammarano.
Dopo una prima adesione agli indirizzi accademici rivolti alla pittura di genere, al ritratto e al soggetto sacro, Striccoli si orientò verso uno stile personale, interessandosi ai movimenti che tentavano, in maniera un pò anarcoide, esperienze artistiche innovative antiaccademiche, fra polemiche, scomuniche reciproche, disconoscimenti, aggregazioni e disaggregazioni di gruppi e gruppetti.
In un primo momento si unì al gruppo di giovani artisti che per sperimentare nuove ricerche seguivano la libera scuola di pittura dell'anziano Giuseppe Boschetto, in un atelier di via Santa Brigida. Nel 1928 lo troviamo assieme ad altri nove pittori, sistemati alla bohèmienne all'ultimo piano di un palazzo di via Rossarol, a formare il gruppo indicato come "Quartiere Latino".
Sottile, bruno, con capelli nerissimi, in questo gruppo sbalordiva per la bravura di suonatore di violino, esperienza che allora lo affascinava al pari della pittura.
Nel 1924 iniziò un'intensa attività espositiva, che arrivò a circa cento mostre.
L'anno successivo, terminata l'Accademia, s'iscrisse al Partito Nazionale Fascista, sfruttandone tutte le occasioni espositive.
Dopo la XIX Biennale (1934) dal Quartiere Latino di via Rossaroll, Striccoli trasferì il suo studio in Villa Haas al Vomero, in quel periodo affollata di artisti.
Nel 1940 ottenne dal Governo l'incarico pubblico di dipingere la Torre del Partito Fascista all'interno dell'allora costruenda Mostra d'Oltremare, poi andata distrutta.
Nel dopoguerra il mecenatismo di Stato del periodo precedente cedette l'iniziativa alla committenza privata attraverso grandi e piccole gallerie d'arte. Negli anni Cinquanta Striccoli maturò un nuovo linguaggio vicino all'espressionismo europeo, raccogliendo ampi consensi, pur se fra polemiche ed iniziando un periodo di iperattività, secondo due filoni di produzione: uno di produzione quasi seriale destinato ai circuiti delle gallerie e del commercio d'arte, in cui non sempre si riscontra alta qualità, e l'altro della produzione di più alto livello qualitativo, destinato ad esposizioni nazionali ed internazionali.
Insofferente verso la vita di società e di forme di esibizionismo, Striccoli, chiuso nello scantinato di Villa Haas, lontano da amici e parenti, riusciva a produrre anche tre o quattro quadri al giorno.
Negli anni Sessanta Striccoli venne superato dalla pittura informale che caratterizzava l'Arte di quel decennio. La sua produzione si spostò verso la produzione per le gallerie. Importante fu la personale che la Galleria Mediterranea gli dedicò nel 1965, con l'esposizione di 30 quadri dipinti prima del 1960. Nella seconda metà degli anni Sessanta emigrò ad Arezzo, dove morì nel 1980, dopo aver disegnato acquerelli in cui la maniera stanca e perciò sbrigativa di dipingere gli farà raggiungere doti di essenzialità ed immediatezza accentuate dalla momocromia.
In sintesi possiamo definire la ricerca pittorica dello Striccoli un tentativo di diluire nelle sue pennellate graffianti la tradizione luministica locale nell'esigenza di forme più attuali, senza però esasperazioni stilistiche, mediante un faticoso confluire nell'alveo dell'espressionismo europeo, dopo aver assecondato le mode ideologiche del regime fascista e senza poi riuscire a tener testa, negli anni Sessanta, alla generazione della stagione informale.
Morì ad Arezzo nel 1980.
L'immagine che accompagna questo articolo, che fa parte di una collezione privata, s'intitola "contadino pugliese".
(Febbraio 2023)
Saverio Altamura, armi, donne e pennello.
di Antonio La Gala
Saverio Altamura nacque a Foggia nel 1826. Venne a Napoli per studiare medicina, ma abbandonò questi studi per interessarsi invece di pittura e di politica. Si iscrisse all’Istituto di Belle Arti di Napoli, vincendo assieme a Morelli un pensionato artistico a Roma.
Subito dopo cominciò il suo periodo avventuroso di rivoluzionario. Dal 1848 al 1866 prese parte, ripetutamente, alle lotte risorgimentali, fra cui quelle garibaldine del 1860.
Nel 1848 lo vediamo a Napoli, sulle barricate di Piazza Carità. Trovatosi dalla parte perdente, si rifugiò a Roma, dove anche lì fece il rivoluzionario, simpatizzando con gli avversari del Papa. Fu arrestato; dopo l’arresto riparò a Firenze, dove trascorse un lungo esilio fino al 1867, inseguito da una condanna a morte in contumacia. In questo periodo andò anche a Parigi, in Francia, Inghilterra e Germania.
Caduti i Borbone tornò a Napoli e iniziò una fase di attività politica. Grazie all'amicizia con Garibaldi, divenne consigliere comunale. Poi nella Firenze temporaneamente capitale d’Italia, ricoprì incarichi governativi nel governo di Ricasoli.
Come pittore, Altamura mosse i primi passi assieme a Domenico Morelli, suo coetaneo e condiscepolo ai tempi degli studi presso l’Istituto delle Belle Arti di Napoli, affiancandone poi l’azione di riforma antiaccademica e collocandosi fra i maggiori esponenti del romanticismo pittorico. Tuttavia, pur solidarizzando con Morelli, la sua concezione estetica rivolse maggiore attenzione ai contenuti ideologici piuttosto che alle esigenze formali. Scrisse di se stesso: “E’ stato sempre mio costume, nel concepimento di un quadro, prendere le mosse da un’idea, piuttosto che da una nota pittorica”.
In effetti la sua pittura oscillò fra un indirizzo storico-romantico e uno verista, con una forte inclinazione, soprattutto nei tardi anni napoletani, verso l'arte religiosa. Nel periodo fiorentino (1850-67) contribuì alla formazione del linguaggio dei Macchaioli. La sua produzione del periodo toscano risulta irreperibile.
Bell'uomo, con barba e capelli alla nazareno, collezionava amanti e conservava un ricordino per ognuna di esse (ninnoli, fazzoletti, spille). Sposò una sua allieva greca che lui credeva maschio, perché così gli si era presentata, fino a quando volle ritrarre un nudo del "giovinetto". La moglie lo lasciò perché lo ritenne responsabile della morte di una loro figlia per tisi. Altamura non si scoraggiò e passò a un'amica della moglie, pittrice.
La vecchiaia gli portò problemi di demenza: d'inverno camminava per Toledo vestito d'estate. Morì per infreddatura, nel 1897.
Altamura ci ha lasciato un’autobiografia intitolata “Vita ed Arte”, in cui racconta la sua stagione risorgimentale e artistica.
A Napoli sue opere si possono ammirare nella Cappella del Palazzo Reale, nella galleria dell’Ottocento a Capodimonte, a S. Martino e in numerose chiese. Altre sue opere si trovano nell’Istituto delle Belle Arti di Firenze, nella galleria Colonna di Roma, nella pinacoteca di Foggia, oltre che in collezioni private.
(Dicembre 2022)