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Vezzi di artisti

Vezzi di artisti

 

di Antonio La Gala

 

 

Qui non intendiamo demitizzare figure di artisti; vogliamo soltanto presentare piccole curiosità che ci mostrano il lato umano, quotidiano, di alcuni fra i pittori che hanno operato a Napoli prevalentemente fra il secondo Ottocento e l’inizio del Novecento.

    Giacinto Gigante, sebbene insofferente dell'accademismo, fin dagli inizi della sua attività, poco dopo i vent'anni s’iscrisse all’Istituto di Belle Arti, pare perché gli alunni interni di quell’Istituto beneficiassero dell'esonero dalla coscrizione militare.

    Saverio Altamuraera un bell'uomo, con barba e capelli alla nazareno. Collezionava amanti e, per ogni amante “conosciuta”, conservava un ricordino (come ninnoli, fazzoletti, spille). Sposò una sua allieva greca che lui credeva maschio (perché così gli si era presentata), fino a quando volle ritrarre un nudo del "giovinetto". Quando questa moglie lo lasciò perché lo ritenne responsabile della morte di una loro figlia per tisi, il pittore, con disinvoltura passò ad un'amica della moglie, anch’essa pittrice. La vecchiaia gli regalò un inizio di demenza: d'inverno camminava per Toledo vestito d'estate: morì per un’ infreddatura.

    Edoardo  Dalbonoper cogliere effetti di luce particolari convocava i modelli sull'altura di San Potito, all'alba, provocando curiosità, ma anche allarme, come quando fra i modelli c'era un incappucciato, cosa che dette l’idea di una celebrazione di stregonerie.

Superstiziosissimo, credeva anche nella reincarnazione delle anime. Un giorno mentre camminava con Salvatore Di Giacomo, si avvicinò loro un cane randagio, magro e spelacchiato. Dalbono andò subito a comprargli un pezzo di carne, perché convinto che in quel cane stesse l’anima di suo fratello.

Nella chiesa di Piedigrotta si trova una sua grande tela, che dipinse come voto, per la guarigione della moglie, la cui malattia lo aveva turbato moltissimo. Trasandato nel vestire, usava una vecchia palandrana ed una mezza tuba abbassata fino alle orecchie. Ad un importante funerale si presentò con un ombrello appeso al braccio con un nastro. Nei ricordi di suoi colleghi ricorre il disagio olfattivo nello stare nella sua casa allietata da falangi di gatti.

    L'Istituto di Belle Arti, pur essendo frequentato da artisti di eletta sensibilità, non sempre era una comunità di anime generose, di silenziose estasi artistiche, di pensieri e comportamenti nobilmente distanti dal comune sentire, ma, come in ogni altra qualsiasi aggregazione umana, agli slanci nobili, si alternavano invidie, egoismi, desideri di prevalenza.

     Non pochi artisti trovavano lo spazio per entrarvi solo grazie ad una "presentazione" fatta da un amico di famiglia, un compaesano, già divenuto artista importante. Chi lo spazietto nell'Istituto se lo era ritagliato, raramente accoglieva a braccia aperte nuovi aspiranti e nuovi venuti.

     Di alcuni artisti arrivati “istituzionalmente” in alto, si tramandano episodi discutibili. Il giovane abruzzese Francesco Paolo Michetti per entrare in Accademia fu raccomandato al direttore Smargiassi da un incisore corregionale. Racconta Ugo Ojetti: "Lo Smargiassi, elegante, solenne, vestito all'inglese, li ricevé con sussiego. Allo sponsor che disse "questo è un giovanetto che viene da Chieti per diventare pittore', rispose: 'Comme, tu vo' fà ’o pittore? Fa piuttosto ’o solachianiello". Michetti così rievocherà l'episodio: "Quella fu la prima parola che udii dall'arte ufficiale”

     Né mancavano episodi squallidi. Poco dopo il suo arrivo a Napoli, Attilio Pratella si vide sparire in un'aula della scuola la cartella che aveva portato con sé da Bologna, in cui custodiva numerosi studi pittorici.

     Fra i ricordi meno artistici dell'Istituto in quel periodo alcuni conservavano quello del traffico di pezzi di cadaveri umani fra le sale di disegno di anatomia e le sale di anatomia del vicino ospedale di S. Aniello.

     Anche presso i nostri eroi l'Arte non si alimentava solo di estasi ma anche di vermicelli alle vongole. Come le cronache ci fanno sapere, il rapporto fra artisti e buona tavola era ben solido. Ristoranti famosi e agresti trattorie offrivano, al riguardo, buone opportunità. In occasione di inaugurazioni di mostre era consuetudine vedere, in qualche vicino ristorante o trattoria, lunghe tavolate di decine di personaggi, fra pittori, scultori, poeti, critici d'arte, vecchi e giovani. 

     Gli incontri dei gruppi artistici in questo o quel caffè, su cui si sono spesi i migliori scrittori e giornalisti per mitizzarli, forse andrebbero soggetti a revisionismo. Talvolta questi mitici convegni artistici lasciavano qualche impressione meno epica nei comuni occasionali spettatori, inconsapevoli di vivere momenti magici di storiche adunanze.

Infatti qualche artista era noto per il suo parlare, diciamo così, "colorito"; altri per l'attento interesse (si presume artistico) alle curve femminili di passaggio; altri ancora si concedevano al pubblico in toilettes particolarmente trasandate (taluni addirittura per la poca pulizia), al di là delle "licenze" di abbigliamento più o meno stravaganti che gli artisti amano concedersi. Alcune artistiche folte chiome candide che, nella pubblicistica nostalgico-agiografica, vengono ricordate quasi come aureole messe lì a santificare i personaggi, si accompagnavano in qualche caso ad abbondanti forfore.

     Quando, nell'aprile del 1950, passò sotto le finestre del pittore Gaetano Ricchizzi il corteo funebre dello scultore Filippo Cifariello, morto suicida, il Ricchizzi si affacciò sghignazzando verso le persone che seguivano il feretro, perché - a suo dire - questi avevano tramato fino a poco prima contro lo scultore, ed ora, nel corteo, fingevano dolore.

     Vezzi, e talvolta vizi, di artisti, di questo o quel periodo, li perdoniamo tutti, perché li ringraziamo per quello che ci hanno lasciato come artisti.

(Maggio 2020)

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