LA COLLINA DEL VOMERO
di Luigi Rezzuti
La magia del panorama, le grandi ville, le variopinte palazzine residenziali nell’elegante stile tardo Liberty, la vivacità dei parchi, le vetrine dei prestigiosi negozi e il suo giornale, “Il Vomerese”, edito dal 2005, fanno oggi del Vomero uno dei quartieri più chic e ambìti di Napoli.
Già dal principio della sua più massiccia urbanizzazione e saldatura con la città, esso fu concepito come un quartiere residenziale, destinato alle classi nobiliari e anche a quelle regali, a seguito dell’acquisizione di una villa da parte di Ferdinando I di Borbone, l’attuale Floridiana.
In realtà la tendenza, da parte dell’aristocrazia cittadina, a costruirsi una seconda casa al Vomero risale a molto tempo prima del 1656. La collina venne utilizzata come rifugio da parte della nobiltà e del clero.
Ma, prima di allora, la collina del Vomero, con i suoi piccoli villaggi e casali, costituiva una periferia agricola, per la maggior parte disabitata e lontana dalla città di Napoli.
Dal Vomero scendevano a valle torrenti d’acqua. Esso era attraversato dalla Via Neapolim Puteolis per colles, che lo collegava, appunto, alle città di Neapolis e di Puteoli.
Il tratto di questa via, che attraversava la collina, era detto via Antiniana e corrisponde, probabilmente, all’attuale. via S. Gennaro ad Antignano, che vide verificarsi il primo miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro.
In origine il Vomero era chiamato Colle del Paturcium. Il toponimo che tutti adoperiamo oggi è, invece, attestato alla fine del Cinquecento, tuttavia riferito non all’intera collina ma ad un antico casale di essa, e trae origine dalla sua antica vocazione agricola e al gioco del “vomere”.
Un passatempo contadino, praticato durante i giorni festivi, che sanciva come vincitore chi, con il vomere (la lama) dell’aratro avesse tracciato un solco quanto più possibile diritto.
Un curioso intrattenimento per il quale accorreva ad assistere un gran numero di persone dalla città.
Inoltre la fertile attività, legata ai suoi campi, e la gran messe di verdure coltivate gli valsero per secoli il nome di Collina dei broccoli.
Ancora oggi è possibile udire dai napoletani l’appellativo scherzoso “Pere ’e vruoccole” (fascio di broccoli) con il quale si usava apostrofare i vomeresi.
(Luglio 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Addio al mio Maestro, Aldo Masullo
Si è spenta una voce critica nella nostra città
Chi mi conosce o ha avuto modo di leggermi, qualche volta, sulle colonne di questo nostro periodico, sa quanto mi sia difficile parlare di una persona cara che ci lascia. Oggi più che mai. In tanti hanno parlato di Aldo Masullo sulle colonne della stampa quotidiana e da tutti sono state espresse parole di grande stima ed ammirazione, oltre che di vivo e sentito cordoglio, e sarebbero sufficienti a dare una sia pur pallida idea di quello che ha rappresentato nella vita culturale e politica della nostra città. Ad esse rinvio i nostri lettori. Mi piacerebbe, inoltre, ricordare quella bella intervista rilasciata, anni fa, ad Antonio Gnoli per le pagine culturali de la Repubblica. Il titolo è quanto mai attuale in questo momento: La filosofia mi ha insegnato che nessuno di noi si salverà da solo. Una frase che è il punto nodale e di approdo di quella Etica attiva della salvezza, a cui si appellava come uomo e che è l’essenza stessa della sua vita e del suo insegnamento. Ed è il ricordo del Maestro che io qui vorrei rivivere insieme ai miei lettori.
Tu sei lo mio maestro e il mio autore… e qui mi fermo per non essere tacciata di immodestia. È stato da più parti ricordato che Egli ha formato intere generazioni. Ed è così, ma quello che non tutti forse sanno è come egli ci abbia formato: con la forza di una dialettica serrata e al tempo stesso ricca di passione civile, con un linguaggio sempre rigoroso e non privo, talvolta, di una sottile ironia, che era, in definitiva, il suo modo di guardare al mondo e alla vita, di insegnarci a provare la vita, dove in quel provare, al quale egli ci conduceva, erano impliciti tutti i sacrifici, le battaglie, le scommesse della vita. E noi, suoi allievi, oltre che alle lezioni, accorrevamo ad affollare in tanti i suoi seminari, momenti indimenticabili nei quali non ci stancavamo mai di ascoltarlo, sposando sempre, e non per pura concessione, le sue idee, condividendo le sue argomentazioni, sempre stringate e frutto di indiscutibile coerenza. Ai suoi seminari, noi allievi non eravamo più gli studenti chiassosi e magari un pò distratti, come accadeva per le altre lezioni, ma ci sentivamo ragazzini timidi ed impacciati, che pendevano dalle Sue labbra. Poi, ascoltandolo giorno dopo giorno, accadeva la metamorfosi e ci ritrovavamo d’improvviso maturi ed adulti, ma soprattutto liberi, in anni in cui Egli era “Il Rosso” per il colore dei capelli e delle idee. Avvertivamo un vento nuovo di libertà e di dinamismo in un ambente universitario forse ancora un po’ chiuso, pur se di grande prestigio, in cui imperavano il diktat tomista di Petruzzellis, la ferrea disciplina di Arnaldi, il rigore di Pontieri o di Cortese! Con Lui, che era stato allievo appassionato del grande avvocato penalista, Alfredo De Marsico, (nei suoi studi di giurisprudenza, per la seconda laurea, conseguita nel 1947), imparammo cosa significasse portare avanti una tesi ed essere convincenti, grazie al fascino di una parola rigorosa, ma suadente al tempo stesso. Imparammo anche a lanciare e ad accogliere sfide. Io lo imparai sulla mia pelle, quando mi recai da Lui per chiedergli la tesi e, dopo che avevamo studiato Fichte e l’Idealismo, Sartre e l’Esistenzialismo, Husserl e la Fenomenologia, mi vidi assegnata una tesi su Antonio Labriola, di cui, in quegli anni, non si sapeva assolutamente nulla, salvo che era stato colui che aveva introdotto, attraverso l’allievo Benedetto Croce, il marxismo in Italia. Accettai la sfida, questa, ma non l’altra, quando, nel puntualizzare il titolo della tesi, sapendo del mio legame affettivo con Donato Pica, l’uomo, che poi sarebbe diventato mio marito, e che era anch’egli suo allievo, mi chiese, istrionico e sornione come sempre: “Ha intenzione di sposarsi, dopo la laurea? Non lo faccia subito, così di corsa. Non volti le spalle alla cultura accademica”. Era già dura la prima sfida, per accettare la seconda. Mi sposai, mi dedicai all’insegnamento, ai figli, alla famiglia e, dopo svariati anni, mi volsi ai tanti interessi e alle tante altre sfide che la vita mi diede l’opportunità di cogliere. E ci ritrovammo di nuovo in diversi contesti culturali. Fu mio ospite come relatore, in eventi organizzati dal Centro culturale Cosmopolis, che intanto avevo fondato, ed ebbe per me parole di grande stima quando, con una bellissima relazione, presentò un mio romanzo presso la libreria Guida di Via Merliani.
È stato ancora mio ospite presso alcuni salotti culturali, come quello della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa. E qui, nell’introdurlo per la sua conferenza su “Mezzogiorno d’Europa” gli riservai la sorpresa di declamare una mia poesia, scritta per Lui tempo addietro, nella quale credo di avergli dimostrato tutto il mio affetto, la sincera stima e l’ammirazione che ho sempre nutrito per questo mio Maestro. Un grande ingegno, un grandissimo comunicatore, un’eccellenza napoletana, anche se nativo di Avellino. E ben a ragione il nostro sindaco, Luigi De Magistris, lo aveva insignito della cittadinanza onoraria, riconoscendogli “lo straordinario contributo offerto alla crescita culturale e sociale del capoluogo partenopeo”. Nel manifestare, oggi, il suo vivo cordoglio alla notizia della scomparsa di Aldo Masullo, egli non esita a definirlo “Uno dei più grandi filosofi del secondo Novecento, di altissimo profilo etico, di profondo rigore intellettuale, ricordiamo le sue lucide analisi politiche fino ai giorni scorsi. Un faro per tanti, un solidissimo punto di riferimento della cultura partenopea”.
Quest’anno, poi, ha voluto dedicargli l’apertura del Maggio dei Monumenti, in precedenza già dedicato a Giordano Bruno, quel filosofo da Masullo tanto amato per aver testimoniato la forza del libero pensiero, che non si piega alla violenza del potere. Per tale ricorrenza, il sindaco dichiara: “Facciamo uno sforzo di buona volontà perché la sua potente lezione morale, la sua eredità intellettuale e la sua straordinaria testimonianza di passione civile restino più a lungo possibile con noi”.
Mai monito ci è parso più in linea con l’insegnamento del nostro Maestro.
Qui di seguito la mia poesia, declamata per Lui al salotto della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa.
Per il Prof. Aldo Masullo
Egregio Professore,
ripenso, in certe ore,
ai "fasti" del passato,
mai più dimenticato,
quando, giovane ancora,
nell'euforia dell'ora,
timida e trasognata
- ancor non immolata
sull'ara familiare -
venivo ad ascoltare
il suo filosofare.
L'ingegno vigoroso
e la parola bella,
lo stile rigoroso,
la limpida favella
ci rendevano attenti
ad ogni Sua opinione,
sollevando le menti
da qualche aberrazione
di facile lettura,
fatta con poca cura.
Ricordo... Quelle ore,
mio caro Professore,
ci rendevano paghi
e sol di studio vaghi.
Oh! Le ricordo, sì,
perchè, con gran passione,
tra Marx e Platone
dividevo i miei dì.
E li divido ancora,
ma non è certo facile
nell'equilibrio fragile
che m'impegna ad ogni ora,
sfruttando senza posa
la mente e la parola,
tra lo stress di casa
e la "routine" di scuola.
Si chiederà chi sono
e dei versi il perchè.
Rispondo: sono un dono
da serbare per Sè,
segno di simpatia
per chi seppe "iniziarmi"
alla Filosofia
e tanta gioia darmi
negli studi di allora,
frutto di nostalgia
per chi ricorda ancora
la propria giovinezza
e i sogni nel cassetto,
che urtan con l'assetto
dato alla propria vita.
La vedo incuriosita.
L'ultimo nodo sciolgo
e col pensier La volgo
all'autor trattato
nella mia tesi e a volte
un tantino ignorato
anche da menti colte.
Antonio Labriola
Anno Sessantadue.
Si perde la parola.
Ben più che trentadue
gli anni da ricordare
e da ricostruire.
Un nome devo fare?
Lo devo proprio dire?
Sì, son davvero molti
i nomi, gli anni, i volti...
Una Sua allieva sono,
che qui vuol farLe dono,
con devozione e stima
di versi in magra rima,
seguendo il proprio estro
nel volgersi al Maestro
che all'Università
ci avvinse col Suo dire
e seppe in Sè riunire
Cultura e Umanità.
MARISA PUMPO PICA
Napoli, 10 maggio 1997
(Maggio 2020)
Raccontami una storia
di Mariacarla Rubinacci
C’era una volta Virus, un re crudele della dinastia Covid 19, che regnava a Corona, un Paese molto lontano. Con la sua tirannia imponeva ai suoi sudditi vari divieti, mortificandolinei loro animi e anche nei loro corpi.
Era proibito baciarsi, considerando il gesto provocatorio di pesanti sanzioni, lo stesso era per gli abbracci, I rapporti dovevano avvenire alla distanza di un metro almeno, per salutarsi bastava alzare la mano agitandola, oppure toccarsi con il gomito o con il piede. Virus non amava assolutamente le espansioni e le amicizie. Viveva da solo, vagava per le stanze del palazzo, compiaciuto della sua crudeltà. Aveva vietato di riunirsi in gruppi per parlare, commentare, socializzare, tutto si poteva fare solo per via telematica, con telefoni, computer, smartphone. Nel paese non voleva che si aprissero teatri, cinema, bar per prendere un caffè. Imponeva che tutto il paese fosse considerato Zona Rossa, zona interdetta a chiunque, aveva persino messo dei presìdi di poliziotti per far controllare che i suoi editti crudeli venissero rispettati.
Ma la cosa più grave era che non c’erano scuole, né alunni, né maestri che potessero stare vicini, le lezioni si svolgevano solo on line, con skipe-conferenze.
Proibiva anche di uscire per fare passeggiate, i sudditi potevano solo andare a fare la spesa ai Super Mercati, sempre, però, a debita distanza, portare il cagnolino fuori per i suoi bisogni, muniti comunque di un pass che dimostrasse dove stessero andando. Virus amava una cosa sola: si affacciava alle finestre del suo castello e gioiva nell’osservare le strade deserte per sentirle silenziose e cupe.
Aveva anche imposto di portare sul viso una mascherina, perché non si doveva né starnutire né tossire. Se qualcuno avesse avuto questi sintomi, subito era costretto a recarsi nei luoghi predisposti, dove personale chiuso in scafandri bianchi, occhiali protettori e guanti, lo prendeva in consegna e lo chiudeva in camere piene di tubi e apparecchiature che registravano il suo stato fisico. Ne usciva, solo se guarito.
“Mamma, che storia triste mi hai raccontato. Meno male che un Paese così non esiste, io amo la mia maestra e i miei compagni, è bello andare a scuola, fare le partite a calcetto. Domani sono invitato alla festa di compleanno di Luigi, il mio compagno di banco, ci divertiremo e mangeremo tante cose buone. Pensa se vivevo nel regno di Virus!”
“Tranquillo, tesoro, è solo una storia inventata, dormi tranquillo, sogna cose belle.”
La mamma rimboccò le coperte a suo figlio, lo baciò sulla fronte stringendogli caramente la manina, chiuse lentamente la porta della cameretta mentre dal salotto la voce della giornalista, del TG che era in onda, stava dicendo: “Contagiati 9.140……”
(Marzo 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Festival di Sanremo 2020
Due parole. Due... sul Festival di Sanremo, ma ce ne vorrebbero tante per un evento come questo, che unisce, spacca e divide e che, indubbiamente, non si può ignorare. Da anni, ormai, specchio dei tempi e degli umori di un Paese, ne riflette ansie, timori e turbamenti, nella varietà dei suoni, delle voci e degli interventi.
Non può passare inosservato. Ogni volta, commenti, giudizi, riflessioni e polemiche... Le parole si sprecano, per discuterne il senso e la portata, per evidenziare quanto ci sia di nuovo o di superato nelle canzoni, nella musica… e in tutto il resto.
Esaltato, osannato, da taluni. Da altri criticato. Aggettivato sempre in funzione delle più diverse definizioni, quest’anno sembra prestarsi in modo particolare a due aggettivi più calzanti di ogni altro: infinito ed estremo, per l’eccessiva dilatazione dei tempi e dei contenuti, che talvolta sembravano debordare, pur con punte altissime di audience. Qualcuno, però, ha ritenuto che queste curve di ascolto, per quanto significative, non andassero lette in senso assoluto, ma fossero considerate perfettamente compatibili con un Festival protrattosi tanto a lungo che, per questo, si offriva all’ascolto di più fasce di età e in più diversi momenti di ciascuna serata. In tanti lo hanno seguito, è vero, ma fra un tramezzino ed un panino, tra la cena, il sonno ed il risveglio, per vederne, infine, la conclusione quasi all’alba…
Il Festival, come sempre molto atteso, in questo settantesimo anno, ha fatto da spartiacque tra un passato ed un presente, aprendo nuove strade. E le ha aperte non tanto sul futuro delle canzoni e della musica, quanto per le modalità nel proporlo al pubblico attraverso una conduzione variegata e multipla, anche questa ritenuta un po’ eccessiva, con due co-conduttori, Amadeus e Fiorello, con un ospite fisso, Tiziano Ferro, che ha cantato fitto e ad oltranza, per tutte le cinque serate, e con tante donne, belle, colte, eleganti, raffinate ed impegnate.
Il Festival delle donne, e subito è scoppiato il caso e si è aperto il fuoco contro Amadeus, tra le mille polemiche che, come sempre, lo hanno preceduto.
Che faranno queste donne? Saranno un simbolo della donna immagine? Saliranno sul palco dell’Ariston in funzione della kermesse, per fare, appunto, spettacolo? Per far salire gli ascolti?
Donne alla corte del Re Sole, qualcuno avrà pensato. E invece, no. Chi aveva ipotizzato che la presenza di tante donne sul palco potesse prospettarsi come l’esaltazione della bellezza e non delle capacità femminili, ha dovuto ricredersi. Provenienti da mondi diversi, hanno mostrato, tutte, forza, coraggio e grinta, con i loro interventi. Alcuni monologhi sono stati di sicuro spessore ed hanno rappresentato un momento importante dell’Evento. Qualcuno particolarmente apprezzabile e di intensa commozione, qualche altro, pur con punte significative, nel calcare un pò la mano, è scivolato, forse, nella consueta retorica della donna che, dichiaratamente, vuole e deve difendersi, a tutti i costi, dalla violenza o dalla tracotanza del maschio.
“Cosa ha fatto questo Festival?” Ha chiesto Fiorello, dal palco, fingendo sbalordimento. E la risposta era implicita: “Di tutto e di più”, con tanti ospiti, stranieri ed italiani, che hanno recitato, ballato, e cantato, anch’essi, di tutto, fino all’ultima serata quando, in un momento piuttosto movimentato, è intervenuto il bravissimo tenore Vittorio Grigolo, che ha deliziato il pubblico con una bella pagina di musica classica.
Non più e non solo, dunque, Festival della canzone italiana, con qualche piccolo sacrificio dei cantanti protagonisti, in gara, quanto piuttosto Evento, Spettacolo, Kermesse, da condividere con il mondo, come, in più riprese, ha sottolineato Amadeus.
E qui veniamo a lui. Conduttore e direttore artistico del Festival, ha voluto dividere con il grande amico e versatile showman, Rosario Fiorello, le responsabilità, la gioia e il successo dello spettacolo. In nome di una vecchia e vera amicizia, che dura da trentacinque anni, aveva promesso: “Se un giorno dovessi realizzare il sogno di condurre il Festival di Sanremo, tu dovrai essere con me su quel palco. E, da sincero amico dal cuore generoso, gli ha dato tutto lo spazio possibile, facendo spesso un passo indietro e fingendo, sornione, di adattarsi, alle sorprese dell’amico e alle sue mascherate improvvisate (si fa per dire). Le gag di Fiorello, alcune volutamente forzate, altre simpatiche e non prive di riferimenti ironici, come è nello stile di questo mattatore, che piace a tutti e fa audience, hanno allietato le serate.
E l’Amadeus, amabile, simpatico, compassato conduttore de “I soliti ignoti”, senza rinunziare al suo stile consueto, ha diviso con il fraterno amico momenti seri e scherzosi di un Festival, che riserva sempre mille sorprese e colpi di scena. Tra questi, il Bugexit, come è stato definito sui social, in maliziosa analogia con la Brexit londinese, ovvero il “gran rifiuto” di Bugo di salire sul palco per condividere con Morgan, nella penultima serata, l’interpretazione della canzone “Sincero”. Di qui la susseguente squalifica per entrambi e una lunga coda di polemiche e strombazzamenti vari tra gli improvvisati difensori dell’uno o dell’altro.
Anche in questo un’Italia divisa ed astiosa!
Due parole, due, si era detto in apertura e non abbiamo ancora parlato dei cantanti protagonisti né delle canzoni in gara. Ma ventiquattro canzoni dei big e dodici delle nuove proposte non possono certo trovare spazio, tutte, in questo che voleva essere un breve commento sul Festival. Ci limiteremo, dunque, a qualche flash, a partire dalla figura più discussa, Achille Lauro, di cui tanto si è parlato, prima, durante e dopo Sanremo. E se questo era il massimo obiettivo del cantante, bisogna riconoscere che è riuscito pienamente nel suo intento. Si è voluto vedere di tutto dentro la sua canzone e di tutto si è visto dietro la sua nudità, sed de gustibus non est disputandum... Forse, però, poco dei versi della canzone “Me ne frego” è rimasto nelle orecchie. Almeno nelle nostre.
Ben altre canzoni ci hanno conquistato, attirando la nostra attenzione. e ben altre performance.
Molto bella, dolce e profondamente sentita ci è parsa la canzone di Tosca “Ho amato tutto” che, non a caso, ha meritato il Premio dell’orchestra dell’Ariston. E gli orchestrali, senza dubbio, di musica, se ne intendono!…
Di buon livello anche la performance del giovane Alberto Urso, con la sua calda voce e quel bel canto tutto italiano, espresso nella romantica canzone “Il sole ad est.”
Questo giovane ventiduenne, autentico nella sua semplicità, dal contegno serio e dignitoso, è stato accompagnato, invece, dalle critiche ingenerose di alcuni rappresentanti della stampa.
Apprezzabili, a nostro avviso, anche le interpretazioni di Giordana Angi, nella canzone “Come mia madre”, molto dolce e coinvolgente, di Irene Grandi, “Finalmente io”, dal tono moderno e frizzante, non privo di una vena di gioconda sensualità e quelle di altri ancora, come Michele Zarrillo, “Nell’estasi e nel fango, “Raphael Gualazzi, “Carioca” e lo stesso Diodato, risultato il vincitore del Festival con la canzone “Fai rumore”.
Bravi anche, tra le nuove proposte, i giovanissimi Tecla e Leo Gassman. Quest’ultimo si è aggiudicato la vittoria nella gara finale.
Cantanti, questi, che, come altri, a differenza del “Re nudo”, non hanno avuto bisogno di denudarsi per dimostrare qualcosa. Innamorati delle canzoni, che hanno interpretato, in esse hanno denudato la loro anima.
Ci diranno che siamo nostalgici del vecchio Sanremo e non è così perché anche il vecchio Sanremo ha avuto personaggi un po’ eccentrici e fuori dalle righe, come Adriano Celentano, Vasco Rossi, Renato Zero e tanti altri, che hanno, però, firmato grandi successi.
Ci diranno, ancora, che, con le preferenze da noi indicate, ci riveliamo superati e mostriamo di non sapere cosa significhi essere “contemporaneo”, termine oggi molto in voga, che spesso sentiamo ripetere e che nasconde tutto e niente
Ebbene, sì, forse non sappiamo riconoscere né apprezzare il contemporaneo se essere contemporaneo può significare, incitare alla violenza, all’odio o, magari, anche al razzismo. Ci riferiamo, ovviamente, ad altre realtà e ad altri contesti, nei quali ciò accade, ma non è da escludere che simili atteggiamenti possano serpeggiare, talvolta, anche nel mondo della canzone e, più in generale, dello spettacolo.
E, dunque, siamo ben contenti di sentirci superati e non vicini ad estremismi molto pericolosi, che perfino in un Festival potrebbero, un giorno, annidarsi.
Lo ammettiamo, ci piacciono le belle canzoni e anche il pubblico, in molte occasioni ha mostrato di gradirle perchè cantare l’Amore non fa mai male…
(Febbraio 2020)
Alighiero Noschese. Un artista dimenticato
di Luigi Rezzuti
Alighiero Noschese è nato a Napoli, in via Palizzi, al Vomero, il 25 novembre del 1932 ed è morto il 3 dicembre del 1979, all’età di 47 anni.
Riposa, per sua volontà, nel cimitero di San Giorgio a Cremano.
La città di Roma gli ha dedicato una strada, come ha fatto il Comune di San Giorgio a Cremano, sia a lui che a Troisi.
La proposta di intitolargli una strada a Napoli fu indirizzata a Palazzo San Giacomo, in occasione dell’anniversario della morte dell’artista.
Dopo questa richiesta la commissione toponomastica, nel corso di una riunione, approvò la proposta di intitolare una strada ad Alighiero Noschese, da individuare preferibilmente nella zona collinare della città.
Da allora, sono trascorsi molti anni e, nonostante l’individuazione della strada, cui era connessa l’installazione della lapide con l’intitolazione, non si è saputo più nulla.
Noschese ha frequentato il liceo Pontano e, dopo essersi diplomato, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza, ove fu allievo, tra gli altri, di Giovanni Leone, il quale, venuto a conoscenza del fatto che quel giovane studente eseguiva magistralmente la sua imitazione, gli chiese di ascoltarla.
Si narra che Noschese avesse sostenuto due esami orali, filosofia del diritto e diritto ecclesiastico, parlando con la voce di Amedeo Nazzari, al primo esame, e con quella di Totò, al secondo.
Dopo aver tentato, senza fortuna, la carriera di giornalista, fu assunto nel giornale radio della Rai.
Negli anni Cinquanta entrò a far parte della Compagnia di Prosa della Rai, alternando l’attività di attore a quella di imitatore.
Garinei e Giovannini gli affidarono alcuni spettacoli come “Caccia al tesoro”, “Scanzonatissima”.
In questi due spettacoli Noschese sperimentò, per la prima volta, l’imitazione di personaggi politici e, paradossalmente, parve non destare irritazione tra i politici imitati, quali Ugo la Malfa, Giovanni Leone e Giulio Andreotti, anzi essi sembravano rallegrarsi per l’effetto di maggior visibilità che si andava creando intorno a loro, grazie a Noschese.
Le cronache raccontano che la madre di Giulio Andreotti avesse visto alla televisione un’imitazione del figlio da parte di Alighiero Noschese così ben riuscita da non accorgersi della finzione, tanto da telefonare al figlio per rimproverarlo: “Ma come ti è venuto in mente di andare a cantare in televisione?”.
La consacrazione avvenne nel 1969 con la partecipazione al varietà televisivo del sabato sera “Doppia Coppia”.
Da quel momento, a detta dello stesso Noschese, pare che molti personaggi della TV, come Mario Pastore, Ruggiero Orlando, Tito Stagno, Ugo Zatterin e della politica gli abbiano espressamente chiesto di essere imitati, sia per acquistare maggior visibilità sia per non essere considerati come personaggi di secondo piano.
L’ultimo programma televisivo cui partecipò “Ma che sera”, condotto da Raffaella Carrà nel 1978, avrebbe dovuto segnare il suo rientro dopo quattro anni di silenzio.
La mattina del 3 dicembre 1979, a 47 anni, Noschese si tolse la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia, nella cappella del giardino della clinica romana Villa Stuart, dove era ricoverato.
Secondo una versione, Noschese, per scherzo, avrebbe simulato al telefono la voce del neurologo che lo aveva in cura, chiamando l’internista, per chiedergli i risultati degli esami clinici e così avrebbe appreso dal sanitario di essere affetto da un cancro inguaribile, che lo destinava a morte imminente.
Alighiero Noschese riposa nel cimitero di San Giorgio a Cremano, in una cappella polverosa, transennata, con l’intonaco pericolante ed invasa da calcinacci.
“Lo’hanno dimenticato. Che peccato! - si rammarica il fioraio di fronte al cimitero – La gente viene a visitarlo, ci chiede dove è la tomba. Eccola: c’è una lucina accesa e un geranio appassito”.
(Gennaio 2021)