SEGNALIBRO
a cura di Marisa Pumpo Pica
Storie che si biforcano – Wojtek Edizioni
di Dario De Marco
Siamo ben lieti di occuparci, dopo molti anni, di Dario De Marco, che è stato un giovane collaboratore di questo nostro giornale e del quale, tra l’altro, su queste stesse colonne, nel 2011, abbiamo recensito il primo romanzo Non siamo mai abbastanza (Edizione 66THAND2ND).
Da allora ne ha fatta di strada, il nostro giovane Dario! Ha collaborato e collabora a diverse testate, continuando, nel contempo, a coltivare e ad amare la scrittura.
Non vive più a Napoli, ma a Torino, dove ha nesso su famiglia e si è confermato, come nelle premesse di quei lontani anni di collaborazione con noi, un giornalista di ottimo livello, serio, riservato e poco propenso a parlare molto di sé, come dimostrano le stringate note biografiche che accompagnano questo suo ultimo libro, che segue i precedenti, quello da noi indicato innanzi e l’altro, da lui definito la non fiction Mia figlia spiegata a mia figlia (Edizione LiberAria).
Storie che si biforcano è un libro che incuriosisce ed intriga anche per il particolarissimo modo di presentare al lettore i racconti: 21 coppie di racconti paralleli, in un gioco di incastri e di specchi. Una struttura singolare, finora mai tentata, a quel che ci risulta, molto simile ad un labirinto, nel quale, tuttavia, il lettore attento riesce facilmente a districarsi, grazie alle suggestive chiarificazioni dell’autore, che avverte: nei primi racconti cambia solo il finale, negli ultimi quasi tutto.
Non ci perderemo nei dettagli in quanto, se una sana curiositas spinge sempre alla lettura e al sapere, qui, in questo libro, più che in altri, la curiositas la fa da padrona, fin dai primi racconti. E non sarà determinata soltanto dalla genialità ed originalità dell’intricata struttura, ma anche da un contesto appassionato, fantastico e molto diversificato, con risvolti e finali che sorprenderanno il lettore.
Come si legge in una fra le tante recensioni, con cui il libro è stato accolto, fra ampi consensi di pubblico e di critica, dobbiamo riconoscere con Marco Ciriello (Herzog ilmattino.it) che Dario De Marco gioca, si diverte, diverte e stupisce con questa sua scatola di costruzioni, che rappresenta un piccolo miracolo dell’editoria artigianale, un granello di sabbia che blocca per un attimo la grande ruota dell’inutile.
La geometria ci insegna che le rette parallele sono quelle destinate a non incontrarsi mai, ma qui, in questo piccolo libro, semplice e complesso al tempo stesso, semplice nella linearità del linguaggio e della prosa, ma complesso nella profondità dell’ingranaggio della sua struttura, apprendiamo che può anche accadere il contrario, ovvero che racconti paralleli possano dar luogo a strade che si biforcano, apprendiamo che racconti paralleli possano convergere e divergere, al tempo stesso. Qui, in questo piccolo libro e attraverso questa sua innovativa forbice strutturale, può anche verificarsi quello di cui si è spesso discusso dietro le pagine di un libro: quanto siano distanti o ravvicinate vita e letteratura, l’una, reale e concreta, l’altra, mondo del fantastico e del possibile. E, al tempo stesso, può anche riscontrarsi come il mondo reale sia anche mondo del possibile, quanto quello della letteratura e della vita narrata.
Che in questa struttura labirintica ci sia genialità, non è nemmeno il caso di sottolinearlo, ma quello che non ci appare scontato e sarebbe interessante scoprire è quanta intenzionalità vi abbia posto l’autore o quanto, invece, ciò sia accaduto come per caso, sponte sua. Per esperienza diretta possiamo solo dire che, quando cominciamo a scrivere, spesso ignoriamo, agli inizi della nostra narrazione, percorso e meta, talchè il raccontare sembra farsi da sé. Le storie, i protagonisti, i fatti narrati prendono il sopravvento e portano per mano l’autore che, quasi inconsapevole, cede agli inganni e alle lusinghe del narrare. Qualcosa del genere può essere accaduto anche a Dario De Marco con i suoi racconti con finale a scelta multipla, come qualcuno ha sottolineato in un’altra interessante recensione (Alessio Forgione, Corriere del Mezzogiorno).
Dario De Marco sceglie per i suoi racconti finali paralleli, ribaltati, in assoluta libertà, senza vincoli di spazio e di tempo. È quella assoluta libertà che rivendica sempre ogni autore, nella costruzione fantastica della narrazione. E qui, in questo caso, in queste Storie che si biforcano, il finale, aperto, parallelo, ribaltato o a scelta multipla, assume un significato rilevante. È la più netta espressione, non solo di questa assoluta libertà dell’autore, ma anche di quel legame autore-lettore, che rende davvero particolare e stimolante la lettura. Un finale aperto, che può essere quello indicato dall’autore, ma anche un altro, possibile o immaginabile da parte di chi legge.
La magìa della lettura sta nel fatto che ogni lettore, piuttosto che trovarsi dinanzi a storie del tutto definite e delimitate, si aspetta comunque uno spazio di libertà. Si aspetta, insomma di trovarsi sempre dinanzi ad una pagina ancora da riempire.
Dietro questo piccolo libro c’è, dunque, una struttura singolare che vuol far parlare di sé, della sua complessità e c’è un autore che si fa anche spettatore, autore di storie definite e concluse e spettatore di storie da definire e concludere, grazie alla lettura, un autore, in poche parole, che si fa spettatore di quelle possibilità cui la pagina rimanda e che il lettore potrebbe voler cogliere e far sue.
(Luglio 2021)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Dietro il velo delle parole…
Senso e abbandono
“Le parole sono pietre. Sono proiettili”, ebbea dire una volta il grande scrittore siciliano, Andrea Camilleri. Con questa espressione, così netta e precisa, voleva ricordarci di usarle con cura e, soprattutto, con ragionevolezza
Non diversamente, e con altrettanta saggezza, le nostre mamme, quando dovevamo affrontare situazioni importanti, solevano ripeterci: “Parla poco, mi raccomando, e conta fino a dieci prima di aprire bocca.” E se noi, con un misto di apprensione, timore e sorpresa, chiedevamo perche mai avremmo dovuto misurare così tanto le parole, la risposta era sempre la stessa, puntuale e lapidaria: “Pare brutto…”
E siamo cresciuti così, frenando, in molte circostanze, moti immediati di insofferenza, di rabbia o di aggressività, scambiati, spesso, dagli altri, come paura, timidezza o riservatezza. Lo ricordavamo ad alcuni amici, qualche giorno fa, ed insieme abbiamo finito col concludere che ogni generazione ha la sua cifra, che ne rappresenta il segno distintivo e la rende singolare, rispetto ad altre. La cifra della nostra generazione è stata quella del pare brutto, che ha pesato non poco sulla formazione ed evoluzione umana e culturale di ognuno di noi. Tacere ed obbedire. Non era mai il nostro momento per parlare.
Questa premessa, che evoca tempi lontani, ma sottolinea anche valori e significati fondamentali, anticipa il nostro assunto: le parole hanno un senso, velato o nascosto, ma anche esplicito e fin troppo evidente. Tutto sta nel capire contesti sociali, incastri linguistici, accostamenti fra le parti del discorso, come sostantivi, aggettivi, verbi, preposizioni. Su queste ultime, in particolare, vogliamo soffermarci perché, nell’articolato e variegato collocarsi delle parole fra loro, esse assumono un ruolo importante e finiscono col caratterizzare sentimenti, situazioni e stagioni della vita. Nel bene e nel male.
Non si riflette forse mai abbastanza, non tanto sul significato delle espressioni che usiamo, quanto piuttosto sulle variabili in esse contenute, nella varietà degli accostamenti.
Le parole sono proiettili, comediceva Camilleri. È vero. Talvolta, e in talune situazioni, sono esplosive, ma noi vorremmo aggiungere che sono anche fluttuanti, come agili ballerine, che danzano in vario modo a seconda degli accompagnatori. E, come il corpo di una danzatrice muta e si adatta alle varie posizioni, assumendo direzioni diverse, così muta il senso di un discorso e le parole si piegano a diversi significati e prospettive.
Vi siete mai chiesto quanto siano importanti, in una lingua, le preposizioni, semplici o articolate? Poste accanto a dei sostantivi, conferiscono ad essi un particolare significato, a seconda della loro collocazione.
A mo’ di esempio, facciamo riferimento a due parole: abbandono e senso. Accostandole a preposizioni articolate diverse, avremo tre espressioni con un significato che sta a rappresentare situazioni molto differenti fra loro:
l’abbandono ai sensi;
l’abbandono dei sensi;
il senso dell’abbandono.
Come il lettore potrà notare, le stesse parole, senso e abbandono, danno luogo a situazioni, esperienze, sensazioni e sentimenti diversi, spesso agli antipodi fra loro e, in linea di massima, riconducibili, come innanzi si sosteneva, a stagioni diverse della vita.
L’abbandono ai sensi. La frase dà subito l’idea dell’adolescenza e della giovinezza, di quella età spumeggiante della vita, in cui tutto sembra possibile e l’essere umano, come puledro a briglia sciolta, corre ansante, ma deciso, verso il proprio futuro. Si appropria della vita, sua, e talvolta anche di quella altrui. Va alla conquista del mondo, che impara a conoscere, inizialmente, solo grazie alle sue prime sensazioni. Tutto sembra concesso. Ai sensi, più che alla ragione.
Agli albori dell’esistenza siamo “bestioni tutto senso”, prima di abbandonarci alla fantasia e di essere, poi, in grado di “riflettere con mente pura” (Vico docet!). Questo, in linea di massima, come si diceva, in quanto non è detto che l’uomo non possa rimanere un eterno fanciullo e concedersi, da adulto e in età senile, (anche in quella!) l’abbandono ai sensi.
Ma gli appartiene sicuramente, in questa età, l’abbandono dei sensi e, ancor di più, il senso dell’abbandono.
Lo sperimenta pian piano, questo abbandono dei sensi, il venir meno della vista, dell’udito, della memoria, di quel bagaglio, insomma, di forza e di baldanza che lo rendeva orgoglioso di procedere trionfante lungo i sentieri del mondo.
Di qui è facile che possa sentirsi imprigionato nella tristezza e nel rimpianto per il tempo che sfuma e per la vita, che sembra sfuggirgli di mano.
È il senso dell’abbandono, un’esperienza dolorosa che, negli ultimi anni, a seguito dell’imperversare della pandemia da Covid 19, con il suo corollario di paura, ansia e depressione, rappresenta sempre più frequentemente lo stato d’animo dell’anziano.
Anche qui, però, non si può generalizzare perché spesso incontriamo, nei parchi cittadini o nelle palestre e nelle piscine più attrezzate, persone in età avanzata che praticano gioiosamente e gagliardamente ogni sport, tanto da fare invidia a giovani immusoniti ed impigriti, dinanzi allo smartphone. È da aggiungere, al riguardo, che le varie forme di alterazione del tono dell’umore, fra cui ansia e depressione, non conoscono differenza di età, sesso o stato sociale. Si segnalano oggi con sempre maggiore intensità, più frequentemente come il “male oscuro” della società del benessere e del consumismo. Abbiamo tutto eppure tutto sembra mancarci.
Colpisce il fatto che questo senso dell’abbandono sia presente spesso in ogni fascia di età. C’è, addirittura, chi il senso della solitudine se lo porta dentro, vivo nel cuore, fin dall’adolescenza. Lo avverte come una condizione dell’animo, sensazione, predisposizione o atteggiamento, che può accompagnare a lungo un essere umano, a prescindere dagli agi, dalla vita che conduce e da quanti gli vivono intorno e che possono essere anche tanti, senza che per questo riescano a riempire il vuoto e ad impedire che il loro caro avverta il senso dell’abbandono.
Quanta strada possono farci fare, col pensiero, quelle che sembrano le parti del discorso più trascurabili e insignificanti: le preposizioni, semplici ed articolate!
È la magìa delle piccole cose.
(Maggio 2021)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Io ti salverò
Ricordate quel celebre film del 1945, Io ti salverò, diretto dal regista Alfred Hitchcock? Titolo originale Spellbound: incantato, ammaliato, termine significativo per indicare il fascino dell’innamoramento. La pellicola, interpretata con altrettanto fascino e bravura da Ingrid Bergman e Gregory Peck, giunta in Italia nel 1947 ed accolta con vivo consenso di pubblico e di critica, rimane uno dei capolavori della filmografia mondiale.
A parte il valore che riveste per il suo sottofondo onirico e psicologico, questo film rappresenta anche uno di quei rari momenti, in cui tre personalità eccellenti del tempo si unirono a lavorare attraverso tre forme d’arte dal respiro più popolare, rappresentate da Musica, Cinema e Pittura. Insieme, diedero vita a qualcosa che poi passò alla storia. Miklos Rozsa, Alfred Hitchcock e Salvador Dalì, tre personalità dal carattere forte, che, come opportunamente è stato detto, “riuscirono a limare il proprio orgoglio individuale in nome dell’arte.”
Non è certo così che sono andate le cose, nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano nel quale, pur professando ciascuno, a gran voce, di volere soltanto il bene della nostra comunità, non si è riusciti a superare una crisi, senza dubbio inopportuna, non fosse altro perché sopraggiunta nel pieno di una pandemia.
Un accostamento, il nostro, solo per contrasto tra il film e la realtà.
Io ti salverò era una romantica storia d’amore dal fascino irripetibile. Noi siamo, invece, dinanzi ad un estremo tentativo di salvataggio di un’Italia alla deriva, dove non c’è più la politica, scomparsa dietro la nebbia di incontri a tavolino, sotterfugi, compromessi, rivalità fra partiti ed uomini, odi personali ed implacabili, trattative, segrete e palesi, su ministeri e ministri. Scenari assurdi ed inimmaginabili per chi si trova nel pieno di una pandemia sempre più agguerrita e cruenta. Un’offesa ai tanti morti, a quelle tombe sui camion militari, in attesa di sistemazione, che non potremo facilmente dimenticare.
Con queste immagini negli occhi, come si può pensare, e noi capire, una crisi al buio, avviata da chi, con sapiente arzigogolare, professa di volere il bene del Paese? Da chi, proditoriamente, asserisce che non c’è nulla di personale contro il Presidente del Consiglio, ma che è importante discutere di “nodi problematici” e, mentre spara nell’accampamento amico, si riserva la mossafinale: tirar fuori l’asso dalla manica, il Draghi dalla manica, in comunanza d’intenti con la silente opposizione…
In questa sede, per quel che può contare, ci preme altresì riconoscere al Premier uscente, Giuseppe Conte, l’impegno umano, politico e personale con cui ha guidato il Paese nella battaglia contro un nemico ignoto, una pandemia, che ci ha colpito con particolare irruenza e virulenza. Degna di plauso è stata anche la sua temporanea uscita di scena, nella quale ha mostrato un grande senso dello Stato e la capacità di una scelta responsabile.
Nessuna irriverenza, nel nostro titolo, nei confronti del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che altro non avrebbe potuto fare, in questa congiuntura, dinanzi ad un Parlamento litigioso, maldestro e poco consapevole di quanto diversa debba essere una politica, pronta a spendersi per il Bene del Paese.
E nessuna mancanza di riguardo o di fiducia neanche nei confronti di Mario Draghi, Presidente del Consiglio incaricato che, a breve, dovrà sciogliere la riserva e formare il nuovo governo. Non c’è dubbio che lo attende un compito molto gravoso.
Come si appuntano sull’albero di Natale i bigliettini dei propri sogni, così gli Italiani, in questi giorni di attesa, sognano di “appuntare” sul nuovo Premier tutte le loro speranze. E non a torto, in quanto Mario Draghi non ha solo un bagaglio enorme di conoscenze in materia bancaria ed economica, ma è anche un politico sagace ed accorto. Qui, però, non sono in discussione le innegabili capacità di un uomo che ha salvato l’euro e l’Europa e potrà essere sicuramente in grado di salvare l’Italia in questo momento così difficile. Il problema non è Mario Draghi, uomo affermato e di prestigio, con un carisma ed una carriera accademica altamente qualificata, caratterizzata da un forte impegno e da meritati riconoscimenti in Europa e nel mondo.
Verso di lui ben a ragione, dunque, si nutrono grandi speranze di rinascita e, tuttavia, noi non possiamo nascondere a noi stessi la sfida ardua che egli si trova, oggi, ad affrontare e che ha accettato con grande senso di responsabilità ed impegno personale e professionale.
Quando i nemici ci combattono a viso aperto, la vittoria può essere difficile, pur se non impossibile. Ma, nell’apparente clima di redenzione, nell’attuale scenario della catarsi che era il naturale epilogo della tragedia greca, riuscirà Draghi a soffocare e sventare sotterfugi, manovre, giochi di corridoio e sortite varie dei numerosi parlamentari, poco avvertiti della complessità e del senso aulico della parola politica?
Sarà disposto a tollerare, senza fastidio, il linguaggio di una patriota, ieri troppo spesso fiorito di contumelie e gonfio di risentimento nei confronti dei parlamentari di opposto schieramento, di una patriota che oggi si dichiara pronta ad approvare “provvedimenti consoni al bene del paese” e lo fa - miracolo dei miracoli - con accenti temporaneamente e dolcemente modificati, mentre resta in corner, in maestoso isolamento, in attesa di sviluppi ed eventi significativi per i suoi programmi?
Riuscirà a cogliere le nascoste qualità di un leader di partito che, tra Metamorfosi di ovidiana memoria, Giuramento di Pontida e citazioni di Giovanni Paolo II, svicolando improvvisamente da inaspettati corridoi umanitari, sembra accennare, senza peraltro proporsi come ministro, alla possibile creazione di un ministero per i disabili, che gli “stanno molto a cuore”, ora, più di quanto non lo siano stati i migranti in balìa delle onde? Oggi europeista dichiarato, quanto ieri sovranista convinto.
Mario Draghi, un Italiano, ancorato organicamente e strategicamente all’Europa, saprà muoversi, altrettanto bene come in Europa ed in America, in questo piccolo mondo di un’Italietta smarrita, alla ricerca di una sua passata e gloriosa identità culturale?
Potrà finalmente attuare una svolta significativa per porla sulla strada della conquista del rispetto di sé e della consapevolezza della sua dignità?
Noi di certo lo vogliamo e non possiamo che augurarcelo ed augurarglielo. Di cuore.
(Febbraio 2021)
E’ morto Diego Armando Maradona
a cura di Luigi Rezzuti
È morto Diego Armando Maradona, leggenda assoluta del calcio mondiale. La notizia è rimbalzata dall’Argentina. Il “pibe de oro” aveva 60 anni.
Una lunghissima carriera da professionista. Ha militato nell’Argentinos Juniores, nel Boca Junior, nel Barcellona, nel Napoli, nel Siviglia.
Ha partecipato a quattro mondiali (dal 1982 al 1994) trionfando, da protagonista assoluto, alla Coppa del Mondo del Messico ’86.
Ha regalato a Napoli una Coppa Italia nel 1986, due scudetti nel 1987, 1989, una Coppa Uefa nel 1989.
Diego Armando Maradona è morto nello stesso giorno (a quattro anni di distanza) di colui che considerava come un “secondo padre”, Fidel Castro.
Con il leader cubano aveva un rapporto stretto, nel quale l’ammirazione era reciproca in uno strano intreccio tra passione politica e amore per lo sport.
Il presidente dell’Argentina, Alberto Fernandez, ha decretato tre giorni di lutto nazionale.
Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha proclamato il lutto cittadino per la morte dell’uomo più amato dalla città.
“E’ triste perdere amici in questo modo” ha commentato Pelè, che da sempre contende con Maradona la palma del calciatore più forte di tutti i tempi. “Sicuramente un giorno giocheremo insieme, lassù in cielo”.
(Novembre 2020)
Tanto per sdrammatizzare
Si De Luca fa 'a chiusura
di Irene Pumpo
Chistu guappo Presidente
ha deciso, dint’ a niente,
mo n’atu distanziamento
pe’ sta brutta pandemia,
ca ce manna - mamma mia! -
certamente… ȃ pazzaria…
E comme se paparea!
Primma allucca, po’ sbarea
o minaccia e se ’ntallea…
Si De Luca fa ’a chiusura,
io, bluccata d’’a paura,
torno… monaca ’e clausura
e accumencio d’’a matina,
pronta: ’e guante, ’a mascherina…
E, luntano d’ammuina,
chiù nun ghiesco e cchiù nun traso,
senza caccià manco ’o naso
for’ ’a porta, resto ȃ casa…
***
Si De Luca fa ’a chiusura,
pe’ nuie viecchie è na jattura!
Chi ce penza? Chi ce cura?
Si nisciuno ce avvicina,
chi ce accatta ’a mmericina
e ce fa ’a spesa ȃ matina?
Io nun è ca po’ me lagno,
ma a curà chi m’accumpagna?
E ’a munnezza, po’, m’ ’a magno?
Pare n’esagerazione:
io sto ghienno int’’o pallone
pe’ pute’ piglia’ ’a penzione.
Nun voglio essere arrogante,
ma ’e prubbleme songo tante…
Comme ’a pavo na badante?
“Pecchè me guardate stuorto,
Preside’? Nun aggio tuorto!
M’ ’o mannate ’o carro ’e muorto?”
Napoli, 5 novembre 2020
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Le “Lettere al Direttore”
Un recente articolo dell’amico Sergio Zazzera ha come tema “Lettere al Direttore”, un altro di quei miti, che compaiono periodicamente nelle Rubriche, in questo nostro giornale. Si tratta di miti che egli, come sempre, individua, sornione, senza rancore per alcuno, ma con raffinata eleganza e che noi leggiamo e condividiamo, con divertita complicità.
In apertura scrive: “Una rubrica di “Lettere al direttore” è presente in ogni quotidiano e/o periodico che si rispetti, non soltanto a Napoli; qui, però, essa assume un carattere mitico, che mi sembra assente altrove”.
Nel suo conciso ma articolato ragionare, il nocciolo della questione è tutto lì, nel rilevare, fra le righe, quanto poco siano attendibili ed utili tali Lettere, stando alle firme dei lettori e ai contenuti dagli stessi espressi.
E, infatti, sottolinea: “In buona sostanza, ci si trova di fronte a un rito, con la sua connotazione d’inutilità, che l’antropologia gli attribuisce; e si sa come la reiterazione del rito sia produttiva del mito”.
Di certo, caro Sergio, siamo stati tutti cultori di questo mito…
Ognuno di noi le ha sempre lette. Siamo andati a cercarle, talvolta anche prima degli stessi articoli, con grande curiosità ed aspettative, nella illusoria ricerca di verità innegabili ed inoppugnabili. Ma queste verità non le abbiamo mai scoperte tra le colonne delle succitate Lettere. Anzi esse ci sono apparse spesso stucchevoli e false e, ancor più, negli ultimi tempi, quando sono venuti a mancare quei nostri vecchi e grandi direttori di testate, che avevano fatto la gavetta, come suol dirsi, e ben conoscevano il loro mestiere.
Sì, lo riconosciamo, le abbiamo trovate stucchevoli e false.
Abiti su misura, confezionati dal direttore stesso, senza neanche il ricorso ad una buona sartoria…
Specchio delle proteste e delle segnalazioni dei lettori?
No. Specchio dei tempi. Specchio dei desideri, degli obiettivi, delle iniziative del Direttore.
Teatro aperto ai suoi amici, per ospitarli e tesserne le lodi nelle risposte.
Arena per i nemici, da attaccare e mettere al tappeto.
Queste, col tempo, sono diventate le Lettere al Direttore.
Un rito e un mito, come tu ben argomenti.
Peccato, però, che non rilevi come la rubrica Lettere al Direttore “presente in ogni quotidiano e/o periodico che si rispetti” non figuri su questo nostro giornale.E non figura perché Il Vomerese il rispetto dei lettori ha cercato di meritarlo sempre con la chiarezza e la trasparenza, avendo quale unica aspirazione quella di voler essere un giornale semplice, nella sua autenticità.
(Ottobre 2020)
LA COLLINA DEL VOMERO
di Luigi Rezzuti
La magia del panorama, le grandi ville, le variopinte palazzine residenziali nell’elegante stile tardo Liberty, la vivacità dei parchi, le vetrine dei prestigiosi negozi e il suo giornale, “Il Vomerese”, edito dal 2005, fanno oggi del Vomero uno dei quartieri più chic e ambìti di Napoli.
Già dal principio della sua più massiccia urbanizzazione e saldatura con la città, esso fu concepito come un quartiere residenziale, destinato alle classi nobiliari e anche a quelle regali, a seguito dell’acquisizione di una villa da parte di Ferdinando I di Borbone, l’attuale Floridiana.
In realtà la tendenza, da parte dell’aristocrazia cittadina, a costruirsi una seconda casa al Vomero risale a molto tempo prima del 1656. La collina venne utilizzata come rifugio da parte della nobiltà e del clero.
Ma, prima di allora, la collina del Vomero, con i suoi piccoli villaggi e casali, costituiva una periferia agricola, per la maggior parte disabitata e lontana dalla città di Napoli.
Dal Vomero scendevano a valle torrenti d’acqua. Esso era attraversato dalla Via Neapolim Puteolis per colles, che lo collegava, appunto, alle città di Neapolis e di Puteoli.
Il tratto di questa via, che attraversava la collina, era detto via Antiniana e corrisponde, probabilmente, all’attuale. via S. Gennaro ad Antignano, che vide verificarsi il primo miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro.
In origine il Vomero era chiamato Colle del Paturcium. Il toponimo che tutti adoperiamo oggi è, invece, attestato alla fine del Cinquecento, tuttavia riferito non all’intera collina ma ad un antico casale di essa, e trae origine dalla sua antica vocazione agricola e al gioco del “vomere”.
Un passatempo contadino, praticato durante i giorni festivi, che sanciva come vincitore chi, con il vomere (la lama) dell’aratro avesse tracciato un solco quanto più possibile diritto.
Un curioso intrattenimento per il quale accorreva ad assistere un gran numero di persone dalla città.
Inoltre la fertile attività, legata ai suoi campi, e la gran messe di verdure coltivate gli valsero per secoli il nome di Collina dei broccoli.
Ancora oggi è possibile udire dai napoletani l’appellativo scherzoso “Pere ’e vruoccole” (fascio di broccoli) con il quale si usava apostrofare i vomeresi.
(Luglio 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Addio al mio Maestro, Aldo Masullo
Si è spenta una voce critica nella nostra città
Chi mi conosce o ha avuto modo di leggermi, qualche volta, sulle colonne di questo nostro periodico, sa quanto mi sia difficile parlare di una persona cara che ci lascia. Oggi più che mai. In tanti hanno parlato di Aldo Masullo sulle colonne della stampa quotidiana e da tutti sono state espresse parole di grande stima ed ammirazione, oltre che di vivo e sentito cordoglio, e sarebbero sufficienti a dare una sia pur pallida idea di quello che ha rappresentato nella vita culturale e politica della nostra città. Ad esse rinvio i nostri lettori. Mi piacerebbe, inoltre, ricordare quella bella intervista rilasciata, anni fa, ad Antonio Gnoli per le pagine culturali de la Repubblica. Il titolo è quanto mai attuale in questo momento: La filosofia mi ha insegnato che nessuno di noi si salverà da solo. Una frase che è il punto nodale e di approdo di quella Etica attiva della salvezza, a cui si appellava come uomo e che è l’essenza stessa della sua vita e del suo insegnamento. Ed è il ricordo del Maestro che io qui vorrei rivivere insieme ai miei lettori.
Tu sei lo mio maestro e il mio autore… e qui mi fermo per non essere tacciata di immodestia. È stato da più parti ricordato che Egli ha formato intere generazioni. Ed è così, ma quello che non tutti forse sanno è come egli ci abbia formato: con la forza di una dialettica serrata e al tempo stesso ricca di passione civile, con un linguaggio sempre rigoroso e non privo, talvolta, di una sottile ironia, che era, in definitiva, il suo modo di guardare al mondo e alla vita, di insegnarci a provare la vita, dove in quel provare, al quale egli ci conduceva, erano impliciti tutti i sacrifici, le battaglie, le scommesse della vita. E noi, suoi allievi, oltre che alle lezioni, accorrevamo ad affollare in tanti i suoi seminari, momenti indimenticabili nei quali non ci stancavamo mai di ascoltarlo, sposando sempre, e non per pura concessione, le sue idee, condividendo le sue argomentazioni, sempre stringate e frutto di indiscutibile coerenza. Ai suoi seminari, noi allievi non eravamo più gli studenti chiassosi e magari un pò distratti, come accadeva per le altre lezioni, ma ci sentivamo ragazzini timidi ed impacciati, che pendevano dalle Sue labbra. Poi, ascoltandolo giorno dopo giorno, accadeva la metamorfosi e ci ritrovavamo d’improvviso maturi ed adulti, ma soprattutto liberi, in anni in cui Egli era “Il Rosso” per il colore dei capelli e delle idee. Avvertivamo un vento nuovo di libertà e di dinamismo in un ambente universitario forse ancora un po’ chiuso, pur se di grande prestigio, in cui imperavano il diktat tomista di Petruzzellis, la ferrea disciplina di Arnaldi, il rigore di Pontieri o di Cortese! Con Lui, che era stato allievo appassionato del grande avvocato penalista, Alfredo De Marsico, (nei suoi studi di giurisprudenza, per la seconda laurea, conseguita nel 1947), imparammo cosa significasse portare avanti una tesi ed essere convincenti, grazie al fascino di una parola rigorosa, ma suadente al tempo stesso. Imparammo anche a lanciare e ad accogliere sfide. Io lo imparai sulla mia pelle, quando mi recai da Lui per chiedergli la tesi e, dopo che avevamo studiato Fichte e l’Idealismo, Sartre e l’Esistenzialismo, Husserl e la Fenomenologia, mi vidi assegnata una tesi su Antonio Labriola, di cui, in quegli anni, non si sapeva assolutamente nulla, salvo che era stato colui che aveva introdotto, attraverso l’allievo Benedetto Croce, il marxismo in Italia. Accettai la sfida, questa, ma non l’altra, quando, nel puntualizzare il titolo della tesi, sapendo del mio legame affettivo con Donato Pica, l’uomo, che poi sarebbe diventato mio marito, e che era anch’egli suo allievo, mi chiese, istrionico e sornione come sempre: “Ha intenzione di sposarsi, dopo la laurea? Non lo faccia subito, così di corsa. Non volti le spalle alla cultura accademica”. Era già dura la prima sfida, per accettare la seconda. Mi sposai, mi dedicai all’insegnamento, ai figli, alla famiglia e, dopo svariati anni, mi volsi ai tanti interessi e alle tante altre sfide che la vita mi diede l’opportunità di cogliere. E ci ritrovammo di nuovo in diversi contesti culturali. Fu mio ospite come relatore, in eventi organizzati dal Centro culturale Cosmopolis, che intanto avevo fondato, ed ebbe per me parole di grande stima quando, con una bellissima relazione, presentò un mio romanzo presso la libreria Guida di Via Merliani.
È stato ancora mio ospite presso alcuni salotti culturali, come quello della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa. E qui, nell’introdurlo per la sua conferenza su “Mezzogiorno d’Europa” gli riservai la sorpresa di declamare una mia poesia, scritta per Lui tempo addietro, nella quale credo di avergli dimostrato tutto il mio affetto, la sincera stima e l’ammirazione che ho sempre nutrito per questo mio Maestro. Un grande ingegno, un grandissimo comunicatore, un’eccellenza napoletana, anche se nativo di Avellino. E ben a ragione il nostro sindaco, Luigi De Magistris, lo aveva insignito della cittadinanza onoraria, riconoscendogli “lo straordinario contributo offerto alla crescita culturale e sociale del capoluogo partenopeo”. Nel manifestare, oggi, il suo vivo cordoglio alla notizia della scomparsa di Aldo Masullo, egli non esita a definirlo “Uno dei più grandi filosofi del secondo Novecento, di altissimo profilo etico, di profondo rigore intellettuale, ricordiamo le sue lucide analisi politiche fino ai giorni scorsi. Un faro per tanti, un solidissimo punto di riferimento della cultura partenopea”.
Quest’anno, poi, ha voluto dedicargli l’apertura del Maggio dei Monumenti, in precedenza già dedicato a Giordano Bruno, quel filosofo da Masullo tanto amato per aver testimoniato la forza del libero pensiero, che non si piega alla violenza del potere. Per tale ricorrenza, il sindaco dichiara: “Facciamo uno sforzo di buona volontà perché la sua potente lezione morale, la sua eredità intellettuale e la sua straordinaria testimonianza di passione civile restino più a lungo possibile con noi”.
Mai monito ci è parso più in linea con l’insegnamento del nostro Maestro.
Qui di seguito la mia poesia, declamata per Lui al salotto della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa.
Per il Prof. Aldo Masullo
Egregio Professore,
ripenso, in certe ore,
ai "fasti" del passato,
mai più dimenticato,
quando, giovane ancora,
nell'euforia dell'ora,
timida e trasognata
- ancor non immolata
sull'ara familiare -
venivo ad ascoltare
il suo filosofare.
L'ingegno vigoroso
e la parola bella,
lo stile rigoroso,
la limpida favella
ci rendevano attenti
ad ogni Sua opinione,
sollevando le menti
da qualche aberrazione
di facile lettura,
fatta con poca cura.
Ricordo... Quelle ore,
mio caro Professore,
ci rendevano paghi
e sol di studio vaghi.
Oh! Le ricordo, sì,
perchè, con gran passione,
tra Marx e Platone
dividevo i miei dì.
E li divido ancora,
ma non è certo facile
nell'equilibrio fragile
che m'impegna ad ogni ora,
sfruttando senza posa
la mente e la parola,
tra lo stress di casa
e la "routine" di scuola.
Si chiederà chi sono
e dei versi il perchè.
Rispondo: sono un dono
da serbare per Sè,
segno di simpatia
per chi seppe "iniziarmi"
alla Filosofia
e tanta gioia darmi
negli studi di allora,
frutto di nostalgia
per chi ricorda ancora
la propria giovinezza
e i sogni nel cassetto,
che urtan con l'assetto
dato alla propria vita.
La vedo incuriosita.
L'ultimo nodo sciolgo
e col pensier La volgo
all'autor trattato
nella mia tesi e a volte
un tantino ignorato
anche da menti colte.
Antonio Labriola
Anno Sessantadue.
Si perde la parola.
Ben più che trentadue
gli anni da ricordare
e da ricostruire.
Un nome devo fare?
Lo devo proprio dire?
Sì, son davvero molti
i nomi, gli anni, i volti...
Una Sua allieva sono,
che qui vuol farLe dono,
con devozione e stima
di versi in magra rima,
seguendo il proprio estro
nel volgersi al Maestro
che all'Università
ci avvinse col Suo dire
e seppe in Sè riunire
Cultura e Umanità.
MARISA PUMPO PICA
Napoli, 10 maggio 1997
(Maggio 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Festival di Sanremo 2020
Due parole. Due... sul Festival di Sanremo, ma ce ne vorrebbero tante per un evento come questo, che unisce, spacca e divide e che, indubbiamente, non si può ignorare. Da anni, ormai, specchio dei tempi e degli umori di un Paese, ne riflette ansie, timori e turbamenti, nella varietà dei suoni, delle voci e degli interventi.
Non può passare inosservato. Ogni volta, commenti, giudizi, riflessioni e polemiche... Le parole si sprecano, per discuterne il senso e la portata, per evidenziare quanto ci sia di nuovo o di superato nelle canzoni, nella musica… e in tutto il resto.
Esaltato, osannato, da taluni. Da altri criticato. Aggettivato sempre in funzione delle più diverse definizioni, quest’anno sembra prestarsi in modo particolare a due aggettivi più calzanti di ogni altro: infinito ed estremo, per l’eccessiva dilatazione dei tempi e dei contenuti, che talvolta sembravano debordare, pur con punte altissime di audience. Qualcuno, però, ha ritenuto che queste curve di ascolto, per quanto significative, non andassero lette in senso assoluto, ma fossero considerate perfettamente compatibili con un Festival protrattosi tanto a lungo che, per questo, si offriva all’ascolto di più fasce di età e in più diversi momenti di ciascuna serata. In tanti lo hanno seguito, è vero, ma fra un tramezzino ed un panino, tra la cena, il sonno ed il risveglio, per vederne, infine, la conclusione quasi all’alba…
Il Festival, come sempre molto atteso, in questo settantesimo anno, ha fatto da spartiacque tra un passato ed un presente, aprendo nuove strade. E le ha aperte non tanto sul futuro delle canzoni e della musica, quanto per le modalità nel proporlo al pubblico attraverso una conduzione variegata e multipla, anche questa ritenuta un po’ eccessiva, con due co-conduttori, Amadeus e Fiorello, con un ospite fisso, Tiziano Ferro, che ha cantato fitto e ad oltranza, per tutte le cinque serate, e con tante donne, belle, colte, eleganti, raffinate ed impegnate.
Il Festival delle donne, e subito è scoppiato il caso e si è aperto il fuoco contro Amadeus, tra le mille polemiche che, come sempre, lo hanno preceduto.
Che faranno queste donne? Saranno un simbolo della donna immagine? Saliranno sul palco dell’Ariston in funzione della kermesse, per fare, appunto, spettacolo? Per far salire gli ascolti?
Donne alla corte del Re Sole, qualcuno avrà pensato. E invece, no. Chi aveva ipotizzato che la presenza di tante donne sul palco potesse prospettarsi come l’esaltazione della bellezza e non delle capacità femminili, ha dovuto ricredersi. Provenienti da mondi diversi, hanno mostrato, tutte, forza, coraggio e grinta, con i loro interventi. Alcuni monologhi sono stati di sicuro spessore ed hanno rappresentato un momento importante dell’Evento. Qualcuno particolarmente apprezzabile e di intensa commozione, qualche altro, pur con punte significative, nel calcare un pò la mano, è scivolato, forse, nella consueta retorica della donna che, dichiaratamente, vuole e deve difendersi, a tutti i costi, dalla violenza o dalla tracotanza del maschio.
“Cosa ha fatto questo Festival?” Ha chiesto Fiorello, dal palco, fingendo sbalordimento. E la risposta era implicita: “Di tutto e di più”, con tanti ospiti, stranieri ed italiani, che hanno recitato, ballato, e cantato, anch’essi, di tutto, fino all’ultima serata quando, in un momento piuttosto movimentato, è intervenuto il bravissimo tenore Vittorio Grigolo, che ha deliziato il pubblico con una bella pagina di musica classica.
Non più e non solo, dunque, Festival della canzone italiana, con qualche piccolo sacrificio dei cantanti protagonisti, in gara, quanto piuttosto Evento, Spettacolo, Kermesse, da condividere con il mondo, come, in più riprese, ha sottolineato Amadeus.
E qui veniamo a lui. Conduttore e direttore artistico del Festival, ha voluto dividere con il grande amico e versatile showman, Rosario Fiorello, le responsabilità, la gioia e il successo dello spettacolo. In nome di una vecchia e vera amicizia, che dura da trentacinque anni, aveva promesso: “Se un giorno dovessi realizzare il sogno di condurre il Festival di Sanremo, tu dovrai essere con me su quel palco. E, da sincero amico dal cuore generoso, gli ha dato tutto lo spazio possibile, facendo spesso un passo indietro e fingendo, sornione, di adattarsi, alle sorprese dell’amico e alle sue mascherate improvvisate (si fa per dire). Le gag di Fiorello, alcune volutamente forzate, altre simpatiche e non prive di riferimenti ironici, come è nello stile di questo mattatore, che piace a tutti e fa audience, hanno allietato le serate.
E l’Amadeus, amabile, simpatico, compassato conduttore de “I soliti ignoti”, senza rinunziare al suo stile consueto, ha diviso con il fraterno amico momenti seri e scherzosi di un Festival, che riserva sempre mille sorprese e colpi di scena. Tra questi, il Bugexit, come è stato definito sui social, in maliziosa analogia con la Brexit londinese, ovvero il “gran rifiuto” di Bugo di salire sul palco per condividere con Morgan, nella penultima serata, l’interpretazione della canzone “Sincero”. Di qui la susseguente squalifica per entrambi e una lunga coda di polemiche e strombazzamenti vari tra gli improvvisati difensori dell’uno o dell’altro.
Anche in questo un’Italia divisa ed astiosa!
Due parole, due, si era detto in apertura e non abbiamo ancora parlato dei cantanti protagonisti né delle canzoni in gara. Ma ventiquattro canzoni dei big e dodici delle nuove proposte non possono certo trovare spazio, tutte, in questo che voleva essere un breve commento sul Festival. Ci limiteremo, dunque, a qualche flash, a partire dalla figura più discussa, Achille Lauro, di cui tanto si è parlato, prima, durante e dopo Sanremo. E se questo era il massimo obiettivo del cantante, bisogna riconoscere che è riuscito pienamente nel suo intento. Si è voluto vedere di tutto dentro la sua canzone e di tutto si è visto dietro la sua nudità, sed de gustibus non est disputandum... Forse, però, poco dei versi della canzone “Me ne frego” è rimasto nelle orecchie. Almeno nelle nostre.
Ben altre canzoni ci hanno conquistato, attirando la nostra attenzione. e ben altre performance.
Molto bella, dolce e profondamente sentita ci è parsa la canzone di Tosca “Ho amato tutto” che, non a caso, ha meritato il Premio dell’orchestra dell’Ariston. E gli orchestrali, senza dubbio, di musica, se ne intendono!…
Di buon livello anche la performance del giovane Alberto Urso, con la sua calda voce e quel bel canto tutto italiano, espresso nella romantica canzone “Il sole ad est.”
Questo giovane ventiduenne, autentico nella sua semplicità, dal contegno serio e dignitoso, è stato accompagnato, invece, dalle critiche ingenerose di alcuni rappresentanti della stampa.
Apprezzabili, a nostro avviso, anche le interpretazioni di Giordana Angi, nella canzone “Come mia madre”, molto dolce e coinvolgente, di Irene Grandi, “Finalmente io”, dal tono moderno e frizzante, non privo di una vena di gioconda sensualità e quelle di altri ancora, come Michele Zarrillo, “Nell’estasi e nel fango, “Raphael Gualazzi, “Carioca” e lo stesso Diodato, risultato il vincitore del Festival con la canzone “Fai rumore”.
Bravi anche, tra le nuove proposte, i giovanissimi Tecla e Leo Gassman. Quest’ultimo si è aggiudicato la vittoria nella gara finale.
Cantanti, questi, che, come altri, a differenza del “Re nudo”, non hanno avuto bisogno di denudarsi per dimostrare qualcosa. Innamorati delle canzoni, che hanno interpretato, in esse hanno denudato la loro anima.
Ci diranno che siamo nostalgici del vecchio Sanremo e non è così perché anche il vecchio Sanremo ha avuto personaggi un po’ eccentrici e fuori dalle righe, come Adriano Celentano, Vasco Rossi, Renato Zero e tanti altri, che hanno, però, firmato grandi successi.
Ci diranno, ancora, che, con le preferenze da noi indicate, ci riveliamo superati e mostriamo di non sapere cosa significhi essere “contemporaneo”, termine oggi molto in voga, che spesso sentiamo ripetere e che nasconde tutto e niente
Ebbene, sì, forse non sappiamo riconoscere né apprezzare il contemporaneo se essere contemporaneo può significare, incitare alla violenza, all’odio o, magari, anche al razzismo. Ci riferiamo, ovviamente, ad altre realtà e ad altri contesti, nei quali ciò accade, ma non è da escludere che simili atteggiamenti possano serpeggiare, talvolta, anche nel mondo della canzone e, più in generale, dello spettacolo.
E, dunque, siamo ben contenti di sentirci superati e non vicini ad estremismi molto pericolosi, che perfino in un Festival potrebbero, un giorno, annidarsi.
Lo ammettiamo, ci piacciono le belle canzoni e anche il pubblico, in molte occasioni ha mostrato di gradirle perchè cantare l’Amore non fa mai male…
(Febbraio 2020)
Alighiero Noschese. Un artista dimenticato
di Luigi Rezzuti
Alighiero Noschese è nato a Napoli, in via Palizzi, al Vomero, il 25 novembre del 1932 ed è morto il 3 dicembre del 1979, all’età di 47 anni.
Riposa, per sua volontà, nel cimitero di San Giorgio a Cremano.
La città di Roma gli ha dedicato una strada, come ha fatto il Comune di San Giorgio a Cremano, sia a lui che a Troisi.
La proposta di intitolargli una strada a Napoli fu indirizzata a Palazzo San Giacomo, in occasione dell’anniversario della morte dell’artista.
Dopo questa richiesta la commissione toponomastica, nel corso di una riunione, approvò la proposta di intitolare una strada ad Alighiero Noschese, da individuare preferibilmente nella zona collinare della città.
Da allora, sono trascorsi molti anni e, nonostante l’individuazione della strada, cui era connessa l’installazione della lapide con l’intitolazione, non si è saputo più nulla.
Noschese ha frequentato il liceo Pontano e, dopo essersi diplomato, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza, ove fu allievo, tra gli altri, di Giovanni Leone, il quale, venuto a conoscenza del fatto che quel giovane studente eseguiva magistralmente la sua imitazione, gli chiese di ascoltarla.
Si narra che Noschese avesse sostenuto due esami orali, filosofia del diritto e diritto ecclesiastico, parlando con la voce di Amedeo Nazzari, al primo esame, e con quella di Totò, al secondo.
Dopo aver tentato, senza fortuna, la carriera di giornalista, fu assunto nel giornale radio della Rai.
Negli anni Cinquanta entrò a far parte della Compagnia di Prosa della Rai, alternando l’attività di attore a quella di imitatore.
Garinei e Giovannini gli affidarono alcuni spettacoli come “Caccia al tesoro”, “Scanzonatissima”.
In questi due spettacoli Noschese sperimentò, per la prima volta, l’imitazione di personaggi politici e, paradossalmente, parve non destare irritazione tra i politici imitati, quali Ugo la Malfa, Giovanni Leone e Giulio Andreotti, anzi essi sembravano rallegrarsi per l’effetto di maggior visibilità che si andava creando intorno a loro, grazie a Noschese.
Le cronache raccontano che la madre di Giulio Andreotti avesse visto alla televisione un’imitazione del figlio da parte di Alighiero Noschese così ben riuscita da non accorgersi della finzione, tanto da telefonare al figlio per rimproverarlo: “Ma come ti è venuto in mente di andare a cantare in televisione?”.
La consacrazione avvenne nel 1969 con la partecipazione al varietà televisivo del sabato sera “Doppia Coppia”.
Da quel momento, a detta dello stesso Noschese, pare che molti personaggi della TV, come Mario Pastore, Ruggiero Orlando, Tito Stagno, Ugo Zatterin e della politica gli abbiano espressamente chiesto di essere imitati, sia per acquistare maggior visibilità sia per non essere considerati come personaggi di secondo piano.
L’ultimo programma televisivo cui partecipò “Ma che sera”, condotto da Raffaella Carrà nel 1978, avrebbe dovuto segnare il suo rientro dopo quattro anni di silenzio.
La mattina del 3 dicembre 1979, a 47 anni, Noschese si tolse la vita sparandosi un colpo di pistola alla tempia, nella cappella del giardino della clinica romana Villa Stuart, dove era ricoverato.
Secondo una versione, Noschese, per scherzo, avrebbe simulato al telefono la voce del neurologo che lo aveva in cura, chiamando l’internista, per chiedergli i risultati degli esami clinici e così avrebbe appreso dal sanitario di essere affetto da un cancro inguaribile, che lo destinava a morte imminente.
Alighiero Noschese riposa nel cimitero di San Giorgio a Cremano, in una cappella polverosa, transennata, con l’intonaco pericolante ed invasa da calcinacci.
“Lo’hanno dimenticato. Che peccato! - si rammarica il fioraio di fronte al cimitero – La gente viene a visitarlo, ci chiede dove è la tomba. Eccola: c’è una lucina accesa e un geranio appassito”.
(Gennaio 2021)