Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Addio al mio Maestro, Aldo Masullo
Si è spenta una voce critica nella nostra città
Chi mi conosce o ha avuto modo di leggermi, qualche volta, sulle colonne di questo nostro periodico, sa quanto mi sia difficile parlare di una persona cara che ci lascia. Oggi più che mai. In tanti hanno parlato di Aldo Masullo sulle colonne della stampa quotidiana e da tutti sono state espresse parole di grande stima ed ammirazione, oltre che di vivo e sentito cordoglio, e sarebbero sufficienti a dare una sia pur pallida idea di quello che ha rappresentato nella vita culturale e politica della nostra città. Ad esse rinvio i nostri lettori. Mi piacerebbe, inoltre, ricordare quella bella intervista rilasciata, anni fa, ad Antonio Gnoli per le pagine culturali de la Repubblica. Il titolo è quanto mai attuale in questo momento: La filosofia mi ha insegnato che nessuno di noi si salverà da solo. Una frase che è il punto nodale e di approdo di quella Etica attiva della salvezza, a cui si appellava come uomo e che è l’essenza stessa della sua vita e del suo insegnamento. Ed è il ricordo del Maestro che io qui vorrei rivivere insieme ai miei lettori.
Tu sei lo mio maestro e il mio autore… e qui mi fermo per non essere tacciata di immodestia. È stato da più parti ricordato che Egli ha formato intere generazioni. Ed è così, ma quello che non tutti forse sanno è come egli ci abbia formato: con la forza di una dialettica serrata e al tempo stesso ricca di passione civile, con un linguaggio sempre rigoroso e non privo, talvolta, di una sottile ironia, che era, in definitiva, il suo modo di guardare al mondo e alla vita, di insegnarci a provare la vita, dove in quel provare, al quale egli ci conduceva, erano impliciti tutti i sacrifici, le battaglie, le scommesse della vita. E noi, suoi allievi, oltre che alle lezioni, accorrevamo ad affollare in tanti i suoi seminari, momenti indimenticabili nei quali non ci stancavamo mai di ascoltarlo, sposando sempre, e non per pura concessione, le sue idee, condividendo le sue argomentazioni, sempre stringate e frutto di indiscutibile coerenza. Ai suoi seminari, noi allievi non eravamo più gli studenti chiassosi e magari un pò distratti, come accadeva per le altre lezioni, ma ci sentivamo ragazzini timidi ed impacciati, che pendevano dalle Sue labbra. Poi, ascoltandolo giorno dopo giorno, accadeva la metamorfosi e ci ritrovavamo d’improvviso maturi ed adulti, ma soprattutto liberi, in anni in cui Egli era “Il Rosso” per il colore dei capelli e delle idee. Avvertivamo un vento nuovo di libertà e di dinamismo in un ambente universitario forse ancora un po’ chiuso, pur se di grande prestigio, in cui imperavano il diktat tomista di Petruzzellis, la ferrea disciplina di Arnaldi, il rigore di Pontieri o di Cortese! Con Lui, che era stato allievo appassionato del grande avvocato penalista, Alfredo De Marsico, (nei suoi studi di giurisprudenza, per la seconda laurea, conseguita nel 1947), imparammo cosa significasse portare avanti una tesi ed essere convincenti, grazie al fascino di una parola rigorosa, ma suadente al tempo stesso. Imparammo anche a lanciare e ad accogliere sfide. Io lo imparai sulla mia pelle, quando mi recai da Lui per chiedergli la tesi e, dopo che avevamo studiato Fichte e l’Idealismo, Sartre e l’Esistenzialismo, Husserl e la Fenomenologia, mi vidi assegnata una tesi su Antonio Labriola, di cui, in quegli anni, non si sapeva assolutamente nulla, salvo che era stato colui che aveva introdotto, attraverso l’allievo Benedetto Croce, il marxismo in Italia. Accettai la sfida, questa, ma non l’altra, quando, nel puntualizzare il titolo della tesi, sapendo del mio legame affettivo con Donato Pica, l’uomo, che poi sarebbe diventato mio marito, e che era anch’egli suo allievo, mi chiese, istrionico e sornione come sempre: “Ha intenzione di sposarsi, dopo la laurea? Non lo faccia subito, così di corsa. Non volti le spalle alla cultura accademica”. Era già dura la prima sfida, per accettare la seconda. Mi sposai, mi dedicai all’insegnamento, ai figli, alla famiglia e, dopo svariati anni, mi volsi ai tanti interessi e alle tante altre sfide che la vita mi diede l’opportunità di cogliere. E ci ritrovammo di nuovo in diversi contesti culturali. Fu mio ospite come relatore, in eventi organizzati dal Centro culturale Cosmopolis, che intanto avevo fondato, ed ebbe per me parole di grande stima quando, con una bellissima relazione, presentò un mio romanzo presso la libreria Guida di Via Merliani.
È stato ancora mio ospite presso alcuni salotti culturali, come quello della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa. E qui, nell’introdurlo per la sua conferenza su “Mezzogiorno d’Europa” gli riservai la sorpresa di declamare una mia poesia, scritta per Lui tempo addietro, nella quale credo di avergli dimostrato tutto il mio affetto, la sincera stima e l’ammirazione che ho sempre nutrito per questo mio Maestro. Un grande ingegno, un grandissimo comunicatore, un’eccellenza napoletana, anche se nativo di Avellino. E ben a ragione il nostro sindaco, Luigi De Magistris, lo aveva insignito della cittadinanza onoraria, riconoscendogli “lo straordinario contributo offerto alla crescita culturale e sociale del capoluogo partenopeo”. Nel manifestare, oggi, il suo vivo cordoglio alla notizia della scomparsa di Aldo Masullo, egli non esita a definirlo “Uno dei più grandi filosofi del secondo Novecento, di altissimo profilo etico, di profondo rigore intellettuale, ricordiamo le sue lucide analisi politiche fino ai giorni scorsi. Un faro per tanti, un solidissimo punto di riferimento della cultura partenopea”.
Quest’anno, poi, ha voluto dedicargli l’apertura del Maggio dei Monumenti, in precedenza già dedicato a Giordano Bruno, quel filosofo da Masullo tanto amato per aver testimoniato la forza del libero pensiero, che non si piega alla violenza del potere. Per tale ricorrenza, il sindaco dichiara: “Facciamo uno sforzo di buona volontà perché la sua potente lezione morale, la sua eredità intellettuale e la sua straordinaria testimonianza di passione civile restino più a lungo possibile con noi”.
Mai monito ci è parso più in linea con l’insegnamento del nostro Maestro.
Qui di seguito la mia poesia, declamata per Lui al salotto della duchessa Melina Pignatelli della Leonessa.
Per il Prof. Aldo Masullo
Egregio Professore,
ripenso, in certe ore,
ai "fasti" del passato,
mai più dimenticato,
quando, giovane ancora,
nell'euforia dell'ora,
timida e trasognata
- ancor non immolata
sull'ara familiare -
venivo ad ascoltare
il suo filosofare.
L'ingegno vigoroso
e la parola bella,
lo stile rigoroso,
la limpida favella
ci rendevano attenti
ad ogni Sua opinione,
sollevando le menti
da qualche aberrazione
di facile lettura,
fatta con poca cura.
Ricordo... Quelle ore,
mio caro Professore,
ci rendevano paghi
e sol di studio vaghi.
Oh! Le ricordo, sì,
perchè, con gran passione,
tra Marx e Platone
dividevo i miei dì.
E li divido ancora,
ma non è certo facile
nell'equilibrio fragile
che m'impegna ad ogni ora,
sfruttando senza posa
la mente e la parola,
tra lo stress di casa
e la "routine" di scuola.
Si chiederà chi sono
e dei versi il perchè.
Rispondo: sono un dono
da serbare per Sè,
segno di simpatia
per chi seppe "iniziarmi"
alla Filosofia
e tanta gioia darmi
negli studi di allora,
frutto di nostalgia
per chi ricorda ancora
la propria giovinezza
e i sogni nel cassetto,
che urtan con l'assetto
dato alla propria vita.
La vedo incuriosita.
L'ultimo nodo sciolgo
e col pensier La volgo
all'autor trattato
nella mia tesi e a volte
un tantino ignorato
anche da menti colte.
Antonio Labriola
Anno Sessantadue.
Si perde la parola.
Ben più che trentadue
gli anni da ricordare
e da ricostruire.
Un nome devo fare?
Lo devo proprio dire?
Sì, son davvero molti
i nomi, gli anni, i volti...
Una Sua allieva sono,
che qui vuol farLe dono,
con devozione e stima
di versi in magra rima,
seguendo il proprio estro
nel volgersi al Maestro
che all'Università
ci avvinse col Suo dire
e seppe in Sè riunire
Cultura e Umanità.
MARISA PUMPO PICA
Napoli, 10 maggio 1997
(Maggio 2020)
Raccontami una storia
di Mariacarla Rubinacci
C’era una volta Virus, un re crudele della dinastia Covid 19, che regnava a Corona, un Paese molto lontano. Con la sua tirannia imponeva ai suoi sudditi vari divieti, mortificandolinei loro animi e anche nei loro corpi.
Era proibito baciarsi, considerando il gesto provocatorio di pesanti sanzioni, lo stesso era per gli abbracci, I rapporti dovevano avvenire alla distanza di un metro almeno, per salutarsi bastava alzare la mano agitandola, oppure toccarsi con il gomito o con il piede. Virus non amava assolutamente le espansioni e le amicizie. Viveva da solo, vagava per le stanze del palazzo, compiaciuto della sua crudeltà. Aveva vietato di riunirsi in gruppi per parlare, commentare, socializzare, tutto si poteva fare solo per via telematica, con telefoni, computer, smartphone. Nel paese non voleva che si aprissero teatri, cinema, bar per prendere un caffè. Imponeva che tutto il paese fosse considerato Zona Rossa, zona interdetta a chiunque, aveva persino messo dei presìdi di poliziotti per far controllare che i suoi editti crudeli venissero rispettati.
Ma la cosa più grave era che non c’erano scuole, né alunni, né maestri che potessero stare vicini, le lezioni si svolgevano solo on line, con skipe-conferenze.
Proibiva anche di uscire per fare passeggiate, i sudditi potevano solo andare a fare la spesa ai Super Mercati, sempre, però, a debita distanza, portare il cagnolino fuori per i suoi bisogni, muniti comunque di un pass che dimostrasse dove stessero andando. Virus amava una cosa sola: si affacciava alle finestre del suo castello e gioiva nell’osservare le strade deserte per sentirle silenziose e cupe.
Aveva anche imposto di portare sul viso una mascherina, perché non si doveva né starnutire né tossire. Se qualcuno avesse avuto questi sintomi, subito era costretto a recarsi nei luoghi predisposti, dove personale chiuso in scafandri bianchi, occhiali protettori e guanti, lo prendeva in consegna e lo chiudeva in camere piene di tubi e apparecchiature che registravano il suo stato fisico. Ne usciva, solo se guarito.
“Mamma, che storia triste mi hai raccontato. Meno male che un Paese così non esiste, io amo la mia maestra e i miei compagni, è bello andare a scuola, fare le partite a calcetto. Domani sono invitato alla festa di compleanno di Luigi, il mio compagno di banco, ci divertiremo e mangeremo tante cose buone. Pensa se vivevo nel regno di Virus!”
“Tranquillo, tesoro, è solo una storia inventata, dormi tranquillo, sogna cose belle.”
La mamma rimboccò le coperte a suo figlio, lo baciò sulla fronte stringendogli caramente la manina, chiuse lentamente la porta della cameretta mentre dal salotto la voce della giornalista, del TG che era in onda, stava dicendo: “Contagiati 9.140……”
(Marzo 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Festival di Sanremo 2020
Due parole. Due... sul Festival di Sanremo, ma ce ne vorrebbero tante per un evento come questo, che unisce, spacca e divide e che, indubbiamente, non si può ignorare. Da anni, ormai, specchio dei tempi e degli umori di un Paese, ne riflette ansie, timori e turbamenti, nella varietà dei suoni, delle voci e degli interventi.
Non può passare inosservato. Ogni volta, commenti, giudizi, riflessioni e polemiche... Le parole si sprecano, per discuterne il senso e la portata, per evidenziare quanto ci sia di nuovo o di superato nelle canzoni, nella musica… e in tutto il resto.
Esaltato, osannato, da taluni. Da altri criticato. Aggettivato sempre in funzione delle più diverse definizioni, quest’anno sembra prestarsi in modo particolare a due aggettivi più calzanti di ogni altro: infinito ed estremo, per l’eccessiva dilatazione dei tempi e dei contenuti, che talvolta sembravano debordare, pur con punte altissime di audience. Qualcuno, però, ha ritenuto che queste curve di ascolto, per quanto significative, non andassero lette in senso assoluto, ma fossero considerate perfettamente compatibili con un Festival protrattosi tanto a lungo che, per questo, si offriva all’ascolto di più fasce di età e in più diversi momenti di ciascuna serata. In tanti lo hanno seguito, è vero, ma fra un tramezzino ed un panino, tra la cena, il sonno ed il risveglio, per vederne, infine, la conclusione quasi all’alba…
Il Festival, come sempre molto atteso, in questo settantesimo anno, ha fatto da spartiacque tra un passato ed un presente, aprendo nuove strade. E le ha aperte non tanto sul futuro delle canzoni e della musica, quanto per le modalità nel proporlo al pubblico attraverso una conduzione variegata e multipla, anche questa ritenuta un po’ eccessiva, con due co-conduttori, Amadeus e Fiorello, con un ospite fisso, Tiziano Ferro, che ha cantato fitto e ad oltranza, per tutte le cinque serate, e con tante donne, belle, colte, eleganti, raffinate ed impegnate.
Il Festival delle donne, e subito è scoppiato il caso e si è aperto il fuoco contro Amadeus, tra le mille polemiche che, come sempre, lo hanno preceduto.
Che faranno queste donne? Saranno un simbolo della donna immagine? Saliranno sul palco dell’Ariston in funzione della kermesse, per fare, appunto, spettacolo? Per far salire gli ascolti?
Donne alla corte del Re Sole, qualcuno avrà pensato. E invece, no. Chi aveva ipotizzato che la presenza di tante donne sul palco potesse prospettarsi come l’esaltazione della bellezza e non delle capacità femminili, ha dovuto ricredersi. Provenienti da mondi diversi, hanno mostrato, tutte, forza, coraggio e grinta, con i loro interventi. Alcuni monologhi sono stati di sicuro spessore ed hanno rappresentato un momento importante dell’Evento. Qualcuno particolarmente apprezzabile e di intensa commozione, qualche altro, pur con punte significative, nel calcare un pò la mano, è scivolato, forse, nella consueta retorica della donna che, dichiaratamente, vuole e deve difendersi, a tutti i costi, dalla violenza o dalla tracotanza del maschio.
“Cosa ha fatto questo Festival?” Ha chiesto Fiorello, dal palco, fingendo sbalordimento. E la risposta era implicita: “Di tutto e di più”, con tanti ospiti, stranieri ed italiani, che hanno recitato, ballato, e cantato, anch’essi, di tutto, fino all’ultima serata quando, in un momento piuttosto movimentato, è intervenuto il bravissimo tenore Vittorio Grigolo, che ha deliziato il pubblico con una bella pagina di musica classica.
Non più e non solo, dunque, Festival della canzone italiana, con qualche piccolo sacrificio dei cantanti protagonisti, in gara, quanto piuttosto Evento, Spettacolo, Kermesse, da condividere con il mondo, come, in più riprese, ha sottolineato Amadeus.
E qui veniamo a lui. Conduttore e direttore artistico del Festival, ha voluto dividere con il grande amico e versatile showman, Rosario Fiorello, le responsabilità, la gioia e il successo dello spettacolo. In nome di una vecchia e vera amicizia, che dura da trentacinque anni, aveva promesso: “Se un giorno dovessi realizzare il sogno di condurre il Festival di Sanremo, tu dovrai essere con me su quel palco. E, da sincero amico dal cuore generoso, gli ha dato tutto lo spazio possibile, facendo spesso un passo indietro e fingendo, sornione, di adattarsi, alle sorprese dell’amico e alle sue mascherate improvvisate (si fa per dire). Le gag di Fiorello, alcune volutamente forzate, altre simpatiche e non prive di riferimenti ironici, come è nello stile di questo mattatore, che piace a tutti e fa audience, hanno allietato le serate.
E l’Amadeus, amabile, simpatico, compassato conduttore de “I soliti ignoti”, senza rinunziare al suo stile consueto, ha diviso con il fraterno amico momenti seri e scherzosi di un Festival, che riserva sempre mille sorprese e colpi di scena. Tra questi, il Bugexit, come è stato definito sui social, in maliziosa analogia con la Brexit londinese, ovvero il “gran rifiuto” di Bugo di salire sul palco per condividere con Morgan, nella penultima serata, l’interpretazione della canzone “Sincero”. Di qui la susseguente squalifica per entrambi e una lunga coda di polemiche e strombazzamenti vari tra gli improvvisati difensori dell’uno o dell’altro.
Anche in questo un’Italia divisa ed astiosa!
Due parole, due, si era detto in apertura e non abbiamo ancora parlato dei cantanti protagonisti né delle canzoni in gara. Ma ventiquattro canzoni dei big e dodici delle nuove proposte non possono certo trovare spazio, tutte, in questo che voleva essere un breve commento sul Festival. Ci limiteremo, dunque, a qualche flash, a partire dalla figura più discussa, Achille Lauro, di cui tanto si è parlato, prima, durante e dopo Sanremo. E se questo era il massimo obiettivo del cantante, bisogna riconoscere che è riuscito pienamente nel suo intento. Si è voluto vedere di tutto dentro la sua canzone e di tutto si è visto dietro la sua nudità, sed de gustibus non est disputandum... Forse, però, poco dei versi della canzone “Me ne frego” è rimasto nelle orecchie. Almeno nelle nostre.
Ben altre canzoni ci hanno conquistato, attirando la nostra attenzione. e ben altre performance.
Molto bella, dolce e profondamente sentita ci è parsa la canzone di Tosca “Ho amato tutto” che, non a caso, ha meritato il Premio dell’orchestra dell’Ariston. E gli orchestrali, senza dubbio, di musica, se ne intendono!…
Di buon livello anche la performance del giovane Alberto Urso, con la sua calda voce e quel bel canto tutto italiano, espresso nella romantica canzone “Il sole ad est.”
Questo giovane ventiduenne, autentico nella sua semplicità, dal contegno serio e dignitoso, è stato accompagnato, invece, dalle critiche ingenerose di alcuni rappresentanti della stampa.
Apprezzabili, a nostro avviso, anche le interpretazioni di Giordana Angi, nella canzone “Come mia madre”, molto dolce e coinvolgente, di Irene Grandi, “Finalmente io”, dal tono moderno e frizzante, non privo di una vena di gioconda sensualità e quelle di altri ancora, come Michele Zarrillo, “Nell’estasi e nel fango, “Raphael Gualazzi, “Carioca” e lo stesso Diodato, risultato il vincitore del Festival con la canzone “Fai rumore”.
Bravi anche, tra le nuove proposte, i giovanissimi Tecla e Leo Gassman. Quest’ultimo si è aggiudicato la vittoria nella gara finale.
Cantanti, questi, che, come altri, a differenza del “Re nudo”, non hanno avuto bisogno di denudarsi per dimostrare qualcosa. Innamorati delle canzoni, che hanno interpretato, in esse hanno denudato la loro anima.
Ci diranno che siamo nostalgici del vecchio Sanremo e non è così perché anche il vecchio Sanremo ha avuto personaggi un po’ eccentrici e fuori dalle righe, come Adriano Celentano, Vasco Rossi, Renato Zero e tanti altri, che hanno, però, firmato grandi successi.
Ci diranno, ancora, che, con le preferenze da noi indicate, ci riveliamo superati e mostriamo di non sapere cosa significhi essere “contemporaneo”, termine oggi molto in voga, che spesso sentiamo ripetere e che nasconde tutto e niente
Ebbene, sì, forse non sappiamo riconoscere né apprezzare il contemporaneo se essere contemporaneo può significare, incitare alla violenza, all’odio o, magari, anche al razzismo. Ci riferiamo, ovviamente, ad altre realtà e ad altri contesti, nei quali ciò accade, ma non è da escludere che simili atteggiamenti possano serpeggiare, talvolta, anche nel mondo della canzone e, più in generale, dello spettacolo.
E, dunque, siamo ben contenti di sentirci superati e non vicini ad estremismi molto pericolosi, che perfino in un Festival potrebbero, un giorno, annidarsi.
Lo ammettiamo, ci piacciono le belle canzoni e anche il pubblico, in molte occasioni ha mostrato di gradirle perchè cantare l’Amore non fa mai male…
(Febbraio 2020)
Pensieri ad alta voce
di Marisa Pumpo Pica
Un Natale diverso
Lo vorremmo per tutti.
Lo vorremmo per i barboni, costretti troppo spesso a finire i loro giorni nell’abbandono più triste e desolato, in cui la morte li coglie, infreddoliti e tremanti, senza una mano amica a sostenerli e a confortarli, almeno nell’ora fatale.
Lo vorremmo per i bimbi abusati, offesi nella loro dignità di esseri umani e derubati miseramente della loro innocenza e per quanti altri, adulti, bambini e neonati, sono costretti ad affrontare la tragedia del mare su barconi sgangherati, lottando, anch’essi troppo spesso, tra la vita e la morte.
Lo vorremmo per le donne, vittime della violenza del maschio, che trovano la morte proprio là dove dovrebbero avvertire il calore del focolare domestico. Proprio là concludono, invece, tragicamente la loro esistenza, vittime incolpevoli di un amore sbagliato nei confronti di uomini, che vedono ancora la donna come oggetto e si dimostrano incapaci di distinguere tra cosa e persona, tra amore, passione, gelosia e desiderio di possessso.
Un Natale diverso vorremmo - perché no? - per tutti coloro che la società, nonostante le norme del vivere civile, non è ancora riuscita a dirozzare, a rendere meno violenti, villani e prevaricatori, come i tanti che non hanno esitato a lanciare i loro insulti insensati contro Liliana Segre, una donna meritevole del più grande rispetto. Lei che, bambina, ha conosciuto l’odio razzista, non avrebbe voluto mai più leggerlo negli occhi di quanti, in questi giorni, l’hanno fatta oggetto di dileggio e sarcasmo.
Auspichiamo che si ripetano più spesso giornate come quella che ha visto, a Milano, marciare una fiumana di gente comune in corteo, con circa seicento sindaci, provenienti da tutta Italia, in segno di solidarietà verso Liliana Segre, offrendosi di essere, loro, la sua scorta e di rigettare al mittente ogni insulto antisemita ed ogni rigurgito fascista.
Un Natale diverso vorremmo soprattutto per i nostri giovani perché il loro entusiasmo, la loro vitalità, il loro mondo di sogni, aspirazioni e progetti non vengano intaccati, turbati o stravolti dagli esempi poco edificanti di noi adulti, che ci dichiariamo responsabili della loro formazione.
Vorremmo che giorni come quello della strage del 12 dicembre del 1969, in Piazza Fontana, nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, come altre simili di quegli anni tragici, in cui rabbia, odio e violenza insanguinarono le nostre strade, non si verificassero mai più.
Un Natale diverso vorremmo per i familiari delle 17 vittime e degli 88 feriti per quella micidiale bomba. Essi ancora aspettano che quegli eventi non siano ulteriormente coperti dalla polvere del tempo e che la forza della memoria possa finalmente illuminare la strada della ricerca della verità e della giustizia.
Vorremmo uno Stato che sappia essere più Stato, una società più civile, in grado di garantire i diritti dei cittadini, una nazione in cui non si debba ancora aspettare di conoscere la verità, dopo 50 anni di inutile attesa, tra dinamiche distorte, depistaggi e risvolti oscuri, che proiettano ombre terribili sugli apparati statali.
Vorremmo davvero, per tutti noi, un Natale diverso, un Natale da favola, da vivere nel segno di una grande utopia, nel sogno di una grande Città dell’Amore, della Solidarietà e della Dignità.
(Dicembre 2019)
Il Natale napoletano
di Luigi Rezzuti
Il Natale a Napoli è qualcosa di assolutamente unico rispetto alle altre città, sia dell’Italia che dell’Europa.
A differenza delle grandi città, in cui i tradizionali mercatini si svolgono per le strade e per le piazze, durante il mese di dicembre, a Napoli il Natale è presente tutto l’anno.
Infatti, nel cuore del centro storico, nella zona compresa fra via San Gregorio Armeno e Spaccanapoli, è un susseguirsi ininterrotto di botteghe artigiane, aperte tutto l’anno e specializzate nella realizzazione di presepi, con magi, pastori e capanne artigianali, affiancate da statuine tradizionali, ma anche da quelle raffiguranti personaggi famosi, antichi e contemporanei, attinti dal gossip, oltre agli intramontabili Pulcinella, Totò e Maradona, a grandezza standard o addirittura naturale!
Ovviamente, avvicinandosi le feste di Natale, ogni quartiere si ammanta di un’atmosfera gioiosa e pittoresca, dove si può assaporare lo spirito del Natale tradizionale napoletano.
Durante le feste natalizie, nel cuore della città vengono organizzati anche mercatini tradizionali, sparsi per le vie del centro, e magnifici presepi viventi, come quello in piazza San Gaetano, mentre nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore si possono ammirare microscopici presepi racchiusi nei gusci delle noci.
Tutti i turisti stranieri si stupiscono quando visitano Napoli nel periodo natalizio. Le vie del centro, quelle dei mercatini e delle botteghe artigiane, sono tanto affollate che è quasi impossibile camminare, al punto che entra in vigore il senso di marcia per i pedoni.
Poche città al mondo riescono ad evocare lo spirito, l’arte e la tradizione dl Natale. Napoli è certamente una di queste, una città in cui il Presepe è un’arte che si tramanda da generazioni, una tradizione che affonda le sue radici nel XVIII secolo.
San Gregorio Armeno è il cuore pulsante del Natale a Napoli, strada. universalmente riconosciuta come quella delle botteghe artigiane e dei pastori, vere e proprie opere d’arte, uniche nel proprio genere.
Il Natale a Napoli si riscopre, infatti, lungo le vie del centro storico. San Gregorio Armeno è il punto di partenza o di arrivo, di una passeggiata tra vicoli, scorci suggestivi, splendidi edifici e meravigliosi luoghi religiosi, come le chiese, con il chiostro e lo splendido campanile, di Piazza del Gesù e San Domenico Maggiore.
Da novembre e per tutto dicembre, fino a gennaio è il Natale della tradizione la festa più amata dai napoletani, e non solo.
Tra le bancarelle, naturalmente, non mancheranno souvenir, addobbi e decorazioni.
(Dicembre 2019)
SPIGOLATURE
di Luciano Scateni
Siamo tutti Liliana
Contro minacce e insulti alla senatrice Segre tutti contro i media, quasi tutti, ma con varianti significative tra chi, sic et simpliciter, imputa a rigurgiti di nazifascismo l’oscena campagna di odio antisemita e chi, temendo di subire contraccolpi elettorali, adotta l’equidistanza dall’ignobile fenomeno e si unisce con voce stonata al coro di condanne delle ingiurie subite, oscura accertate contiguità con l’estrema destra xenofoba, razzista, antisemita. La Repubblica, per fugare ogni dubbio sui pericoli di uscita dalle fogne dei complici fascio-italiani della Shoa, propone un’esemplare ricognizione di episodi. Il più recente è l’astensione di Salvini, Meloni e Berlusconi al voto per l’approvazione della proposta, da parte di Liliana Segre, di una commissione contro l’antisemitismo, il razzismo, l’odio e la violenza; indecente il rifiuto di Lega e Fratelli d’Italia di applaudire il voto favorevole. Cosa ha determinato lo scandaloso atteggiamento, se non il timore di perdere il consenso degli estremisti di destra? Sul comportamento di Lega e Fratelli d’Italia niente di nuovo. La palude sociale fangosa in cui gettano le reti per pescare consensi è quella che dilaga sui social. Incomprensibile, patetico, è l’accodarsi allo scandaloso astensionismo di quanto residua di Forza Italia.
Salvini e Meloni, vertici della destra italiana, negano il pericolo di derive neofasciste, i raduni all’insegna del fascio e della svastica, i saluti romani, gli striscioni razzisti e xenofobi, antisemiti, la contiguità con Casa Pound, Forza Nuova e il sottobosco di una miriade di movimenti eversivi. Allora qual sarebbe la provenienza degli insulti social alla Segre, agli ebrei? Eccone un campionario: “Sono tornate le zecche” è un insulto ricorrente e ‘zecche’ per gli aguzzini dei lager erano gli ebrei dell’eccidio di massa, i bambini uccisi dai cecchini dei campi di sterminio come al tiro al bersaglio. ‘Zecche’, ‘nasi adunchi’, sono, nel veleno degli insulti a Liliana Segre, Gad Lerner, il deputato Fiano, il presidente dell’ospedale israeliano, Soros. Quasi duecento sono gli episodi di antisemitismo, rilevati da Centro di documentazione ebraica. Ingiurie sui social: “Rastrelliamo? Li bruciamo e facciamo n bel falò”; la foto di una saponetta con la marca ‘Segre’. Sul ‘Huffington Post’, video antisemita, un milione di visualizzazioni, sul sito nazista “La gioia di Satana” per gli assurdi negazionisti, giorno della memoria diventa il giorno della menzogna; “Bisogna fermare quelle merde sioniste”, “Riapriamo i forni” e l’invito comparso in Puglia a “spararsi per fare un favore all’umanità”. In Toscana, a proposito di forni crematori: “Aggiungi un posto a tavola”. Sartori, insegnante di Venezia, ex segretario di Forza Nuova, rivolto alla senatrice Segre: “Sta bene in un simpatico termovalorizzatore”. Isotta, critico musicale. “Il razzismo venne inventato dagli ebrei”. Pepe, ex senatore 5Stelle: “Hanno crocifisso Dio e si sono inginocchiati ad adorare il suo avversario. Hanno i giorni contati”.
Questo popolo di immondi, è quello solidale con Netanjau, con l’usurpazione violenta dei territori palestinesi, etichettato dai falchi israeliani come nazionalsocialismo, esattamente come fece Hitler per legittimare l’olocausto e acquisire la solidarietà di Mussolini. È lo stesso dell’arcipelago neonazista che raggruppa ‘Veneto Fronte Skinead’, ‘Manipolo di Avanguardia Bergamo’, ‘Rebel Film di Ivrea’, ‘Militia’, ‘Rivolta Nazionale’, entrambe di Roma, ‘Lealtà Azione’, che s’ispira al generale delle SS Degrelle, il circuito ‘Hammerskin’ antisemita nato da una scissione del Ku Kluz Klan.
Da questo coacervo putrido, di pericolosa sovversione, deve difendersi la senatrice Segre, sopravvissuta alla shoa, costretta alla protezione della scorta per vivere i suoi novant’anni al riparo da attentati e continuare ad esercitare il ruolo di memoria in prima persona del tragico scenario nazifascista.
Un settimanale punta a vendere più copie, raccontando presunti inciuci sulla vita di coppia Salvini-Verdini. Nessuna meraviglia, così facendo si accoda all’orgia di gossip di un consistente pacchetto di rotocalchi (carta stampata e televisivi). Càmpano di pettegolezzi, finti scoop, falsi e complicità dei soggetti cosiddetti ‘vip’, che ne traggono popolarità e prebende in euro. A insinuare il sospetto di cornificazioni della Verdini in danno di Salvini, immediatamente smentito dalla concorrenza, è il periodico “Oggi”, approdato al giornalismo da “Grand Hotel” per allinearsi al dilagante fenomeno del gossip, monopolizzato da primi attori e prime attrici dei media scandalistici, ovvero da Belen, Barbara D’Urso, Salvini, Briatore, Alba Parietti e compagnia più o meno bella. Nessuna offesa per chi si crogiola nel bestiario delle ciarle di ‘La vita in diretta’, del programma della D’Urso, del format ‘Forum’, condotto dalla Palombelli, che mette in scena finti litigi e sentenze fasulle di giudici extra tribunale, ma doveroso l’sos sulle conseguenze per il nostro pianeta, distante anni luce dai problemi del terzo millennio, cloroformizzati, con messi abusati della distrazione di massa.
(Novembre 2019)
Spigolature
di Luciano Scateni
Spetta a Greta il Nobel per l’ambiente
È noto soprattutto a chi teme per il futuro della Terra, messo in forse dai mutamenti climatici, dall’inquinamento: esiste il premio Nobel per l’ambiente e non dovrebbero esserci dubbi sulla prossima assegnazione alla rivoluzione che la sedicenne Greta ha innescato, fino a coinvolgere milioni di giovani e decine di governi, scossi dalla campagna ambientalista che imputa al cinismo della società del petrolio, della plastica, dello smog, il rischio estinzione per il nostro pianeta.
Greta non ha rivali per il prestigioso riconoscimento.
Nomine est Vincenzo Bianconi, habemus candidatum quia Umbria. Marcia spedita l’intesa Zingaretti-Di Maio e può partire la campagna elettorale per il governo dell’Umbria, che segna l’inedito di proposte estranee a uomini e donne di partito. Presidente della Federalberghi regionale, Bianconi è l’esempio invocato da ogni parte politica dell’impegno produttivo per la ricostruzione delle zone terremotate.
Di Maio: “E’ un simbolo dell'Umbria intera, di una comunità che è stata tragicamente e ripetutamente ferita dai terremoti del 2016 ma che non si è lasciata prendere dallo sconforto e si è rimboccata subito le mani”.
Zingaretti: “Elezioni regionali Emilia Romagna, le vedo molto bene”, ma non si sbilancia sull’ipotesi di esportare l’esperienza ad altre regioni. Tradotto vuol dire che in Umbria, dove il Pd ha toppato con lo scandalo dei favoritismi per le assunzioni della Asl, ok, va bene l’alleanza con il Movimento di Grillo. Altrove “si vedrà”.
Il Salvini del quotidiano comizio su Facebook, non perde l’occasione per il consueto linguaggio da trivio. Commenta così l'accordo tra M5s e Pd su Bianconi: “E' proprio una schifezza, non ci sono né dignità né buon gusto e prenderanno una mazzata”.
Gli fa eco la Meloni, socia ad honorem dell’Accademia italiana della Crusca per la sua forbita affabulazione: “Il governo "non durerà, nonostante il mastice, servono visione, onore, valori, e questa gente non ha nulla di tutto questo. Il mio pronostico è che presto crolleranno sotto il peso della loro miseria”.
Di inedito a inedito
Alle Giornate del Lavoro, Conte diventa protagonista in perfetta sintonia con Landini, segretario della Cgil, che, tra il sorpreso e il compiaciuto, condivide una serie di intenzioni del premier e in particolare sul carcere per le gravi evasioni fiscali e il cuneo fiscale che si propone di ridurre le tasse sul reddito.
Ma Di Maio s’infuria con Conte e i due ministri 5Stelle, dell’istruzione e dell’ambiente, che per disporre delle risorse necessarie a interventi per la scuola e i mutamenti climatici vorrebbero ricorrere ad aumenti delle tasse su bibite e voli (asili nido, cari a Conte 200/300 milioni, 3 miliardi per scuola, università e ricerca, 2 miliardi per l’aumento dello stipendio agli insegnanti). Bloccato anche il decreto ambiente di Costa. La paura che Salvini ne possa fare argomento vincente dell’opposizione impone lo “stop” alle due proposte: “Fermi tutti, decido io” è il monito di Di Maio.
Il portavoce di Grillo
al secolo Di Maio, appunto, si spende con ardore per il taglio dei parlamentari, che, a suo dire, farebbe risparmiare alle casse dello Stato 100 milioni all’anno. Ma è una vera fissazione, una monomania che funziona solo dal punto di vista propagandistico per l’Italia dell’antipolitica. Nei fatti è un falso mito. Lo è per il noto economista Cottarelli che contesta l’entità del risparmio. L'Osservatorio sui conti pubblici, che guida, riferisce stime molto più modeste: eliminare 230 deputati e 115 senatori farebbe risparmiare 57 milioni annui, ovvero lo 0,007 % della spesa pubblica. Cioè, ‘tanto rumore per nulla’.
Tortellineide
Ah, ah. Ah, ah, ahahaha…Aha / Ih, ih, ih.Ihiiiiiii. Perdonate questo bislacco esordio. Nasce da un irrefrenabile stimolo a ridere e piangere, in rapida alternanza. Il ‘Ce l’aveva duro’ di Pontida, ridotto a elemosinare, qua e là, pretesti per un’interpretazione spendibile di oppositore del governo demostellato, si proietta con piglio da falco predatore sulla diatriba ‘tortellini’, sfoggia patriottismo sovranista e scaglia anatemi sulla variante a imbottitura di pollo. Sogniamo o siam desti? Di fronte a così rilevante dilemma (carne o pollo?), detto tra noi appassiona molto di più il caso Fioramonti, massino esponente istituzionale del mondo scolastico e il suo pronunciamento laico sull’obbligo storico di adornare la parete alle spalle della cattedra con il crocifisso. Meglio un poster con il mappamondo o un cartello che riproduca i più importanti articoli della Costituzione, propone il ministro. Come non dargli ragione se tanti concorrenti di quiz televisivi non distinguono il Veneto dalla Lombardia e restano muti se la domanda è sul fiume più lungo d’Italia? E, ci mettiamo del nostro, perché no, l’immagine delle immense isole di plastica che asfissiano gli oceani.
Il Bel Paese, ma i cattivi lo hanno ribattezzato paese di Pulcinella, Repubblica delle Banane, è terra del grottesco, del paradosso, dell’involontaria comicità. La questione tortellini, carne o pollo?, esula dal rigore delle competenze culinarie e piomba nel calderone della pochezza che la politica nazionale esibisce quotidianamente. Bologna, patria del tortellino, è in festa per il patrono san Petronio (di qui petroniani, sinonimo di bolognesi) e nelle sagre cittadine, sui tavoli imbanditi, accanto all’offerta dei tortellini secondo tradizione, imbottiti di carne di maiale, affianca la variante pollo. Per un capriccio di chi li prepara? La ragione è altrove. La sopravvenuta multietnicità introduce nelle nostre città la presenza, seppure fortemente minoritaria, di immigrati islamici o ebrei che non mangiano carne ‘rossa’. Insomma, il tortellino al pollo nasce all’insegna dell’accoglienza, nella migliore tradizione di una città convintamente ospitale. Apriti cielo! In armi, contro l’eresia, due sponde politicamente opposte, disputano asincroniche sulla fattispecie del tortellino doc. Contro la variazione dell’imbottitura pollo scaglia strali velenosissimi - e di che meravigliarsi? - il truce Salvini: “Cancella la nostra storia, la nostra cultura (? Ndr) pur di cercare il consenso dell’Islam”. Gli va dietro, come un cagnolino docile e fedele, la Borgonzoni, candidata della Lega per le regionali e non è da meno la forzista Bernini. Si associa perfino il regista Pupi Avati: “Tradimento dei nostri sapori”. La risposta del sindaco Merola: “Bologna è città di riconosciuta tradizione nell’innovare e accogliere”. Nel ruolo di pompiere Romano Prodi: “Nella nostra tradizione ha un posto dominante la libertà” e dalla parte della tolleranza anche l’arcivescovo di Bologna Zuppi. Per continuare nell’altalena risate-guaiti di sofferenza, ci auguriamo che la cosa non finisca qui. In attesa che Salvini trasferisca nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama il cahier de doleances contro la carne bianca del tortellino, contiamo sull’adeguato dispiegamento di uomini e mezzi perché radio e televisioni non perdano di vista la disputa di interesse nazionale sull’evento del giorno. Ancora meglio se l’occhio dei media spaziasse oltre i confini italici, se sovrastasse le questioni ‘secondarie’, dei dazi Usa che ghigliottinano l’esportazione di prodotti d’eccellenza made in Italy, del futuro della Terra minacciato dai mutamenti climatici, degli spettri della recessione che vagano minacciosi nel Vecchio Continente.
(Ottobre 2019)
Spigolature
di Luciano Scateni
Chi si arricchisce con la fornitura di armi al terrorismo?
Non si ha notizia di inchieste giornalistiche sulla fornitura di armi usate dai terroristi, che hanno insanguinato il mondo con feroci attentati e contrastato militarmente gli attacchi per combatterli. Di sicuro c’è che l’Islam non ne produce; che sono fucili, mitragliatrici, mine, cannoni; che qualcuno si è arricchito con il commercio clandestino e che molto probabilmente si tratta di aziende occidentali, degli stessi Paesi presi di mira dal fanatismo sanguinario dell’Isis. Suggeriamo il tema, scottante come e più di tanti altri affrontati dalla Gabanelli e dai suoi eredi, ai coraggiosi redattori di Report o ai responsabili dell’Espresso, ultimo periodico nazionale che fa giornalismo d’inchiesta.
I geni sono geni e si trasmettono di generazione in generazione.
Talvolta ne “saltano” una, per ripresentarsi nelle successive. E’ il caso di Giulio Cesare Mussolini (il doppio nome ‘Giulio Cesare’ è tutto un programma), pronipote del duce, distratto dall’incarico di dirigente Finmeccanica, dopo aver militato in marina come ufficiale. La ducessa Giorgia Meloni, in un suo impeto, solo un po’ mascherato, di fascista prestata alla politica, lo ha scovato, forse con una ricerca su Google, e lo ha cooptato perché si candidi con Fratelli d’Italia alle prossime europee. L’evento è immortalato in un video. I due soggetti hanno alle spalle, non a caso, la scalinata del Palazzo della Civiltà Italiana dell’Eur, costruita nel Ventennio. Casa Pound, Forza Nuova e altri esponenti della destra estrema non hanno ancora commentato l’exploit della Meloni, ma avranno certamente salutato l’ingaggio del Mussolini anni tremila con il braccio alzato e un sonoro “Eia, eia, alalà”. La prossima tappa? Un selfie di Meloni, Salvini, Mussolini, da pubblicare come manifesto elettorale. La ducessa: “Sono fiera di candidarlo”.
Alle spalle un storia esemplare
scritta dai vertici e da quanti hanno indossato la divisa di semplice carabiniere, accolto nella grande comunità dell’Arma solo se esente da ombre nella vita personale, familiare e di precedenti generazioni. I carabinieri sono stati a lungo estranei a comportamenti disonorevoli, diffusi in altri ambiti delle forze dell’ordine, ad episodi di corruzione e deviazione dalla correttezza nello svolgimento dei rispettivi ruoli. Purtroppo, le stagioni del degrado di una società malata, segnata dal dilagare del malaffare, della colpevole promiscuità con molteplici segmenti dell’illegalità, hanno coinvolto anche i carabinieri, seppure in casi eccezionali. La tragica vicenda del giovane Cucchi, torturato e ucciso, ha rivelato un caso gravissimo di brutalità in suo danno e, peggio, l’omertà nei confronti dei carabinieri responsabili di quadri intermedi dell’Arma e perfino nelle alte sfere. L’odissea, vissuta dalla famiglia del ragazzo ucciso, in particolare dalla sorella, che non si è mai arresa di fronte a reticenze, omissioni, menzogne dei carabinieri, si è trascinata senza esito per anni. Finalmente tutto questo è franato ed è merito della famiglia di Stefano Cucchi, ma in questo prologo di un finale finalmente giusto, anche del generale comandante dell’Arma Nistri, deciso ad accertare la verità sul caso, a individuare le responsabilità di carabinieri e ufficiali, per punirli senza ombra di clemenza e a costituirsi parte civile. In quattro pagine, Nistri risponde con parole nobili, di vicinanza non formale alla famiglia, a un post di Ilaria Cucchi, che, a sua volta replica “Mi si scalda il cuore. Finalmente non mi sento più sola”.
Per sdrammatizzare
L’arcivescovo di Malta celebra messa e al momento di bere il vino, simbolo del sangue di Gesù, bisbiglia sbalordito all’orecchio del prete che lo affianca un inequivocabile “ma è wisky”. Il parroco della chiesa in questione lo beve abitualmente al momento della celebrazione eucaristica e, nella circostanza, ha dimenticato di sostituirlo con il vino? La Chiesa non finisce mai di svelare singolari retroscena.
(Aprile 2019)
Per Caterina De Simone
Quando un poeta muore
di Marisa Pumpo Pica
Quando un nostro amico o un socio del Centro culturale Cosmopolis, vola lontano, lassù nel cielo, sentiamo stringere il cuore in una morsa e l’angoscia ci prende, mentre la penna si ferma sul foglio bianco, come è accaduto sempre più spesso, negli ultimi tempi.
All’amico che ci lascia vorremmo poter dire tante cose, di quelle già dette, nelle affettuose e periodiche conversazioni, e di tante altre ancora, che non abbiamo avuto modo o tempo per dirgli e che sono rimaste chiuse nel nostro cuore, a testimonianza perenne di simpatia, di stima, di affetto.
Così per Vincenzo Fasciglione, Silvana Onorato, Bianca Adele Sole, Peppe Talone, Franco Scollo, Natale Porritiello, Domenico Blasi e per tanti altri cari amici scomparsi, che hanno fatto bella e preziosa la schiera dei poeti di Cosmopolis.
E così anche oggi, nell’apprendere il trapasso della dolce anima di Caterina De Simone.
Cosa dirle ora? Ora che non è più tra noi e che non vedremo giungere, come ogni volta, spumeggiante ed allegra, ai nostri consueti appuntamenti? Come ripetere che ci manca e ci mancherà per sempre?
Tuttavia, mentre l’affanno preme, fardello intollerabile sul cuore, una voce ci ricorda che è scomparsa una poetessa. E quando un poeta muore, restano i suoi versi, come suggello di amore e di amicizia. Una voce ci ripete, foscolianamente, che la poesia “vince di mille secoli il silenzio.”
Tu, Caterina, donna sensibile, affettuosa, gentile, così legata alla vita da quel cuore, che oggi non batte più e che pur scoprivamo palpitante di emozioni, sentimenti e sogni, rimarrai sempre nel nostro ricordo. Vi rimarrai, soprattutto con quel tuo piccolo libro, “Profumo d’anima”, che abbiamo avuto il piacere di pubblicare per le Edizioni Cosmopolis, complice il forte sentimento di amicizia che ci univa.
Nel nostro cuore, l’eco delle tue poesie.
Intorno a noi il suono dei tuoi versi, mentre continuerà ad aleggiare il profumo della tua anima, che già il Signore avrà accolto fra le sue braccia.
Addio, Caterina, non ti dimenticheremo.
*************************
Qui di seguito, una poesia di Irene Pumpo:
Quando un poeta muore
Quando un poeta muore,
credo che più di un cuore
muoia con lui. Si spegne.
È una morte precoce
se tace la sua voce
che l’anima ti accende.
Muore con lui, si spegne.
Ti sembran meno degne,
se il poeta non vive,
d’esser lette e ascoltate
le liriche ispirate
dall’estro suo geniale,
che crea, con maestria,
ogni sua poesia,
più cara nel ricordo.
Perfino il verso stesso
già non è più lo stesso
in bocca agli altri...È vero!
Se ben lo conoscevi,
del suo valor sapevi,
ora non ti dai pace…
Come se una corrente,
viva, dolce, fremente,
di idee, le stesse idee,
di intenti, di pensieri,
identici e sinceri,
di colpo s’interrompa.
E che una tale intesa
finisca, poi, è sorpresa
più deludente ancora!
Ti resta la tristezza,
con l’amara certezza
di aver perso un amico
prezioso. Egli va via
e hai tanta nostalgia
di Lui, che non c’è più.
(Marzo 2019)
Festival di Sanremo 2019
Quattro passi fra le nuvole
di Marisa Pumpo Pica
E di nuvole se ne sono addensate parecchie sul cielo di Sanremo. Molte, come sempre, le dispute, le critiche, le polemiche e le contestazioni che hanno accompagnato e continuano ad infiammare questa 69ª edizione del Festival di Sanremo, nel “Primafestival”, nel “Dopofestival” e nel dopo “Dopofestival”. Ormai Sanremo, da anni, non è più il “Festival della canzone italiana” dei tempi del «sono solo canzonette». È un mix di canzoni, musica, cabaret, sketch comici, musical, momenti di teatro e di politica. La parola d’ordine era che non si dovesse far politica e, invece, la politica vi è entrata. Come sempre e come non mai. Su questo carrozzone sanremese sono saliti conduttore e co-conduttori con cantanti e musicisti, comici ed attori. Su di essi si è detto di tutto e di più, negli show televisivi, nei programmi di approfondimento, come sulla stampa. Del conduttore e dei co-conduttori, tra l’altro, un giornalista, con grande acume e con audace riferimento al nostro Consiglio dei Ministri, ha scritto che la squadra del Baglioni 2 ricordava molto da vicino la squadra del Conte 1, dove «nessuno sa cosa vuole fare ed ognuno fa quel che non sa fare, ammesso che sappia fare qualcosa». Riferimento arguto. Giudizio, questo, suscettibile di condivisione o di contestazione, a seconda del punto di vista dal quale ci si pone. Resta il fatto che la kermesse sanremese, è sempre lo specchio dei tempi che attraversa. Lo scrivono anche Mauro Gliori e Dario Salvatori nel recente libro “Sanremo - Una storia tutta italiana” e mai come questa volta il Festival, dalle prime battute fino alla sua conclusione, è apparso divisivo, riflettendo una società profondamente disgregata, aggressiva e litigiosa. Una società di tutti contro tutti. Tutti pro e contro Baglioni, pro e contro i co-conduttori, pro e contro i cantanti in gara e, infine, pro e contro la stessa proclamazione ufficiale del vincitore, avvenuta tra clamorosi fischi che, forse, nel santuario sanremese non si erano mai sentiti così acuti e fragorosi. Nello stesso momento Loredana Bertè, risultata quarta nella classifica finale, veniva accolta da altrettanto fragorosi applausi dal pubblico presente in sala che, a suo modo, in maniera del tutto singolare e in piena ed anarchica autonomia, con la sua acclamazione, ne sanciva la vittoria. Nella confusione generale, Claudio Baglioni, direttore artistico del Festival, tirato x la giacca da tutte le parti, come ha dichiarato, e definitosi, per questo, dirottatore, non ce l’ha fatta, nella serata finale, a dirottare il pubblico verso la calma e, sul palco dell’accorsato teatro Ariston, si è determinato nei co-conduttori, più che imbarazzo, una vera e propria perdita di controllo, con la caduta del timone dalle mani dell’ex capitano del vascello. E non ce l’ha fatta nemmeno - e come avrebbe potuto da solo? - a riportare la pace nel Paese, dilaniato dall’odio, con il povero vincitore, Mahmood, quasi inebetito dalla sorpresa del primo posto sul podio, con il secondo classificato, Ultimo, che, nella conferenza stampa conclusiva, attacca i giornalisti per l’ingiusto verdetto e, invelenito, afferma che tanto loro hanno avuto solo questa settimana del Festival per sentirsi importanti, lui, invece, avrà anni di soddisfazioni e di successi. Caduta di stile, di certo, anche questa, da parte di un giovane al quale può andare senza dubbio la comprensione per l’amarezza di una sconfitta subita, a pochi passi da una quasi vittoria, conclamata dai voti della giuria popolare. E tuttavia qualcuno dovrebbe prepararlo ad imparare che nella vita, se si conquista una vittoria (e l’anno scorso, sullo stesso palco, l’aveva felicemente raggiunta) allo stesso modo bisogna saper accettare una sconfitta, che nasce dalla “democrazia” del confronto di opinioni e gusti diversi, fra le persone come fra le giurie. Ma chi sa accettare oggi la democrazia del confronto? Un giovane forse non ancora, se nessuno glielo insegna. E un adulto?
La domanda sorge spontanea quando si legge su twitter il messaggio di uno dei due vicepremier, Matteo Salvini, il quale scrive che «hanno fatto vincere Mahmood per fare un dispetto a me». E chi glielo avrebbe fatto, poi, questo dispetto? I radical scic, per odio verso di lui, avrebbero sostenuto la canzone della tematica del migrante.
Ionesco, col suo teatro dell’assurdo, non avrebbe pensato a tanto.
E sempre nella stessa atmosfera dell’incongruo, dopo aver attaccato i radical scic, il vice premier, dichiara che telefonerà a Mahmood, per congratularsi con lui perché egli non è un migrante, è milanese, è italiano, è un bravo cantante. E scrive ancora, su un altro twitter, che avrebbe preferito Ultimo, dissentendo in questo dalla sua ex compagna, Elisa Isoardi, che dichiara, invece, di gradire Mahmood.
Dichiarazioni a parte, dinanzi alla kermesse sanremese, sembra davvero che i problemi dell’Italia si facciano piccoli ed insignificanti se impegnano così tanto un Premier in analisi sociologiche e di costume.
Ma Sanremo è Sanremo, come ci ha insegnato l’intramontabile Baudo.
E dunque, per dirla con i nostri giovani: “ci sta”…
(Febbraio 2019)
Cara Matera, ti scrivo…..
di Mariacarla Rubinacci
Sono arrivata una mattina di sole, ho bussato alla tua porta, ricordi?, e tu mi hai accolta inondandomi di luce, di ombra, di storia. La tua Storia, scritta su pagine di pietra, ora bianca di calcare, ora giallastra di origine vulcanica, ora scura di umidità e corrosione, un libro di parole che altro non sono che graffi lasciati da tempo.
Cara Matera, sei lo scenario immaginato dal pittore che ha tentato di fissare la tua fissità, il tuo sonno, mentre dormivi sulla collina. Ogni anfratto è una pennellata, preparata per farti diventare scenario, dove attori hanno voluto testardamente recitare la loro umiltà, la loro sofferenza, la loro povertà. Le tue scale, tante scale, tutte scale, rallentano il passo di chi oggi ti viola per ascoltarti, mentre prima, un tanto prima che non è poi così troppo lontano, hanno ascoltato la fatica di chi ti ha voluto così, di chi ti ha chiesto rifugio alla miseria. Sei maestosa, pregna di sudore per riuscire a viverti, dormiente fino ad oggi in attesa di risveglio.
I tuoi “Sassi” occhieggiano lungo il dirupo che si getta con veemenza giù, nel vallone, guardano il tempo che scorre e non si chiudono mai. Quando il sole ti accarezza, sembri una fata vestita di luce che ti fa bella agli occhi di chi oggi vuole amarti. Quando la notte ti abbraccia cupa, sembri un orco nascosto nel fondo della montagna, che brontola per incutere paura perché sei sua. Ho ascoltato quella voce mentre, affacciata alla balaustra della piazza, immaginavo ombre furtive che rientravano nei loro poveri giacigli dopo la fatica di vivere. Nel buio l’orco romba, poi guaisce, muove le fronde, è il vento che scivola lungo i tuoi fianchi per suonare il suo concerto. Anch’io ho dormito in un tuo antro, oggi però ammodernato da mani imprenditoriali, che tuttavia non hanno cancellato le tue parole, i muri ancora parlano, odorano e proteggono come hanno fatto sempre con i tuoi figli. Figli fieri, malgrado la fatica ch tu sapevi solo offrire, era il tuo umile dono di “Mater-Terra”, dono di vita per resistere al freddo, alla neve ammassata nella “Neviera”, dono di tepore del rifiatare del mulo che dormiva accanto al grande letto, alto, imbottito di paglia, dove la vita procreava.
Dopo silenzi e abbandoni, ti avrebbero voluto trasformare in un grande museo a cielo aperto. No. Tu sei viva, le tue parole ancora risuonano e chi le ha ascoltate, oggi ti chiama Patrimonio dell’Umanità. Oggi sei vestita a festa, il mondo si è accorto di te, ti vuole conoscere, ti guarda, ti inonda di suoni moderni, ti illumina come un grande presepio, tocca i tuoi muri sempre madidi di fatica, ma di amore di coloro che sono stati i tuoi figli, ti celebra come riscossa dalla povertà.
Ciao Matera, ti ho conosciuta prima del fasto mondiale, ti ho ammirata nella tua veste umile, ma adorna di dignità, mi hai tu ascoltata mentre mi ponevo domande, mi hai accolta offrendomi angoli di riposo per riprendere fiato mentre mi arrampicavo lungo i tuoi innumerevoli gradini, dove mi sembrava di udire ancora il calpestio di un passo affaticato o il ritmico avanzare del mulo con la soma pesante di legna. Quelli erano i tuoi figli che ti hanno amata, così, difficile e scontrosa, ma buona perché donavi ricovero a chi inciampava fra i tuoi ….sassi.
Grazie Matera, oggi sei la maestosa signora che arringa con parole scritte per la Storia.
(Febbraio 2019)
Spigolature
Non Ufo, ma oggetti non identificati
di Luciano Scateni
Per noi, esterni al frenetico evolversi delle tecnologie, l’incipit della rivoluzione, nota con le cinque lettere d-r-o-n-e, è stato l’acquisto di un mini elicottero, giocattolo capace di decollare e librarsi azionato da un piccolo telecomando. Lo proponeva ai passanti un ambulante cinese, una decina di anni fa, a Napoli, sui marciapiedi della via Toledo. “Drone”, nella lingua inglese significa fuco (maschio dell’ape), ma anche ronzio, tipico rumore degli oggetti volanti senza pilota che a molti sarà capitato di veder ronzare in cielo.
Giovedì, 20 Dicembre 2018, volo Napoli-Londra delle 18 e 55, aereo della British Airways, partenza alle 18 e 55. Voci di dentro informano che la partenza, forse, avverrà alle ore due della notte, ma si smentiscono presto. “Cancelled” annuncia il display nella sala di accesso al check in e l’annullamento era scontato per chi ha seguito con attenzione il caso Gatwick, grande e rinnovato aeroporto londinese chiuso dalla sera prima. Sulle piste di decollo la presenza di un grosso drone avrebbe causato disastri agli aerei in partenza e in arrivo.
I più hanno pensato, per stima storica, che l’efficienza britannica è grande e lo stop avrebbe avuto vita breve, ma la compagnia di bandiera inglese era tutt’altro che ottimista. Annullate decine di decolli, ha dirottato gli aerei in mezza Europa e ha comunicato che il volo delle 18 e 55 era stato rinviato a domenica, sempre che nel frattempo la polizia avesse scoperto chi telecomandava i droni e perché si avvicendano pericolosamente sulle piste.
Che fare? A salvare la vacanza natalizia è stata la fortuna, cioè l’acquisto degli ultimi due posti liberi sull’Easy Jet in partenza alle 19 e 44 e diretto a Londra, aeroporto di Luton. Nel frattempo il traffico aereo internazionale è stato sconvolto e il “go” all’aereo è arrivato alle 21 e 5 minuti. L’aereo ha impiegato oltre 3 ore per compiere il percorso che abitualmente richiede poco più di due ore, perché costretto a un largo giro di avvicinamento nei cieli del Belgio e di chissà quale altro Paese europeo. C’è stato tutto il tempo per riflettere sul rischio droni.
Il calvario del Napoli-Londra ha previsto altre tappe: il caos generale dilaga e coinvolge tutti gli scali londinesi, incluso Luton, dove le compagnie dirottano molti atterraggi previsti a Gatwick. Oltre mezz’ora è il tempo per accedere al controllo passaporti, altrettanto perché il nastro trasportatore restituisca i bagagli.
Nell’attesa non si parla che di droni. Questi aerei di dimensioni, potenza, autonomia e usi molteplici, hanno rivoluzionato attività, storicamente costose e di ardua attuazione. La peggiore è di natura militare. In pratica consente di spedire in azioni distruttive aerei telecomandati, senza pilota. Per scopi pacifici, può eseguire rilevamenti, riprese fotocinematografiche, trasportare materiali, viveri, medicinali in zone impervie, spegnere incendi, e molto altro. Il pericolo: i droni si possono acquistare liberamente in megastore o semplicemente on line e il caso Gatwick fa scattare l’allarme. Per più giorni e non si sa ancora chi, qualcuno ha fatto sorvolare da droni un aeroporto internazionale. Avrebbe potuto sganciare bombe su obiettivi civili e militari, centrali nucleari, luoghi affollati. Non si chieda a un inglese cosa pensa dell’efficienza britannica, dell’intelligence, che non è riuscita a scoprire da dove sono stati lanciati i droni nel cielo di Gatwick e da chi. Non gli sarà facile mascherare l’imbarazzo per l’orgoglio ferito, ma il peggio è che episodi come quello dell’aeroporto inglese potrebbero ripetersi, per responsabilità di squilibrati, o peggio, di attentatori.
(Gennaio 2019)